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Le Regole Del Paradiso
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Le Regole Del Paradiso

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Per buona parte del tempo rimase seduta su una panchina al lato del parco e, quando si accorse che si era fatta ormai l’ora di pranzo, decise di andarsene, ma un attimo dopo si sentì chiamare.

“Ehi!”

Si girò. Era lo stesso ragazzo che il giorno prima cercava la sua attenzione. Gli diede le spalle e camminò a passo svelto.

“Ma perché scappi quando mi vedi? Non voglio mica mangiarti!”

Con la testa bassa e gli occhi che sembravano scannerizzare qualsiasi cosa ci fosse a terra, finse di non sentirlo. Si alzò di scatto.

“Devo dirti una cosa. Aspetta!”

Automaticamente, come se quelle parole fossero cariche di una magia a lei estranea, avvertì un misto di curiosità e prudenza a cui sapeva di non voler resistere; fece uno sforzo e irruppe ugualmente in casa. Appena entrata si affrettò ad andare alla finestra per spiarlo come l’ultima volta. Non c’era più.

Si trattava del solito ragazzo in cerca di divertimento?

Fin dal giorno prima si rimproverava per non riuscire a controllare e gestire alcune parti del suo carattere che, scagliate verso gli altri, soprattutto se sconosciuti, non le procuravano altro che figuracce distorcendo la sua immagine. Ritornando al momento in cui il ragazzo aveva dichiarato di avere qualcosa da dirle, si rese conto che la sua reazione, anche se prudente, aveva finito per essere esageratamente diffidente, sfiorando così quello che odiava: la maleducazione.

Affacciata alla finestra per un altro quarto d’ora, lo intravide passeggiare con la testa abbassata, gli occhi spenti, ignorava tutti i bambini che gi sfrecciavano accanto. Senza contare il fatto che ce n’erano alcuni davvero impertinenti. Correvano proprio nella sua direzione e, se non fosse stato per lui che si spostava velocemente ogni volta, lo scontro sarebbe stato inevitabile; non ci fece caso più di tanto perché era presa dalle emozioni che le giravano in corpo. Perché quella strana paura che aveva di lui si era trasformata in curiosità? Decise di fare, una volta tanto, come le pareva. Senza la maledetta bestia che le ordinava o le vietava qualcosa. Quel ragazzo le aveva messo così tanta curiosità da creare un conflitto tra Jane e la sua timidezza a tal punto da far combattere, per la prima volta in vita sua, la ragazza contro se stessa.

Diede un’ultima occhiata alla finestra e lo vide seduto su un’altalena. Scendendo sentiva di nuovo la paura iniziale. Era la prima volta che stava andando lei da un ragazzo. Non era mai successo ed era convinta che non sarebbe mai capitato. E invece quella volta era diverso. Si era stancata di essere prigioniera di se stessa e della vergogna e per una vita era stata ingiustamente la schiava di suo padre. Adesso basta. Con quella piccola follia, voleva andare contro ogni regola.

Raggiunto il parco cercò di non dar troppa importanza al tremore delle gambe e si cimentò a raggiungerlo. Un po’ sorpresa di vedere sopra le altalene due ragazzini abbastanza in carne che cercavano di dondolare in avanti e indietro aiutandosi con le gambe, si chiese dove si fosse cacciato. Non riusciva a individuarlo. Girò per il parco per più di mezz’ora guardando in tutti gli angoli, ma niente. Era sparito. Jane decise di dare un’occhiata anche nel famigerato posto in cui aveva deciso di farla finita, ma lui sembrò essersi volatilizzato e così, inaspettatamente delusa, se ne andò.

* * *

Le aspettative riguardo alla giornata successiva non erano tanto migliori delle solite: Gary e Ginger erano partiti di nuovo chissà per dove e, a casa da sola, si stava annoiando a morte. Aveva già completato e studiato la relazione di chimica, quindi la mattina venne consumata davanti alla televisione. Ogni tanto si andava ad affacciare alla finestra per accertarsi che il ragazzo misterioso non fosse in giro per il parco.

Appena finito di pranzare, Jane non sapeva come avrebbe potuto passare il resto della giornata. La noia era arrivata davvero al limite quindi, alla fine, decise di ripassare quello che aveva studiato.

A un certo punto, passando davanti alla camera della bestia per andare nella sua, Jane notò con grande sorpresa che la porta era semichiusa. Con un po’ d’esitazione decise di entrarci, cosa che le era stata severamente proibita, un po’ come la sala di musica che non poteva essere frequentata dai non addetti. Entrando non poté fare a meno di guardarsi alle spalle. Aveva il terrore di vederlo entrare, anche se sapeva benissimo che era impossibile: in quel momento solo Dio poteva sapere dove fosse.

L’emozione era simile a quella dei ragazzi che provano a fumare in soffitta cercando e sperando di non essere scoperti dai genitori. Prendono con mano tremante l’accendino, lo attivano e lo portano, incerti, vicino alla sigaretta. Jane si trovava nella stessa situazione. Credeva che se un poliziotto l’avesse vista lì dentro l’avrebbe arrestata. Suo padre le aveva fatto venire il terrore di quella camera. Cosa poteva esserci di tanto segreto? Non se lo sapeva spiegare, era uno dei tanti misteri di quell’uomo e la noia di quella giornata la spinse a scoprirne qualcuno. Aprì le ante dell’armadio per sbirciare dentro e si accorse che in basso a sinistra c’era una piccola cassettiera che non aveva mai visto. Si mise in ginocchio e aprì delicatamente il primo cassetto, trovando subito qualcosa di interessante. Alla vista di una ‘Revolver 44 magnum’ si sentì gelare e invadere da un senso di agitazione. Jane chiuse immediatamente il cassetto cercando di far finta di niente e passare a quello centrale. Lo aprì e vide solo un mucchio di lettere. Erano disposte in modo disordinato e ne prese una a caso. La lesse velocemente.

San Francisco 17/02/83

Caro Gary,

il periodo che sto passando con te è a dir poco favoloso. Mi fai dimenticare di tutti i problemi che ho con mio marito. Ho commesso un grave errore a sposarlo! Quando lo chiediamo questo maledetto divorzio? Io non ce la faccio più. Anche tu mi racconti sempre che non sopporti più tua moglie, quindi è destino che dobbiamo scappare via insieme. Non ci posso credere che sei venuto a casa mia il giorno del vostro anniversario. Hai lasciato da sola tua moglie con il piccolo insetto, come la chiami tu. Che ridere! Le sta bene. Se fai così significa che non è una moglie che merita il tuo amore.

Sei da amare follemente.

So che non le dai tutte le attenzioni che dai a me.

È come se avessi due personalità e con me usi solo quella buona. Come dici spesso, tua moglie si merita il peggio di te. Ed è giusto che tu glielo dia. Ora ti saluto. Ci vediamo mercoledì. Ti aspetto. Un bacio.

Con affetto, Katherine.

Gli occhi erano fissi sulla strana grafia della donna.

Lo sguardo di Jane percorreva ogni lineamento e analizzava ogni singola parola. Mentre rileggeva per la quinta volta la lettera le si formarono alcune immagini in testa, sfocate; suo padre che estrae la lettera dalla busta, i suoi avidi occhi divorano ogni pensiero perverso scritto dalla donna, sulla sua bocca nasce un malizioso sorriso; come se fossero quelli di un ventenne i suoi ormoni crescono, si moltiplicano. Nessuno sa che non vede l’ora di incontrare Katherine per prenotare di nuovo quella camera d’albergo, per bere champagne nudi, nella vasca da bagno ricoperta da petali di rosa, petali finti, di plastica. La donna dal seno prorompente che s’immerge con lui nell’acqua bollente, i seni in faccia, lei che lo lecca dappertutto, lui che tira la testa all’indietro e si lascia andare, la perversione nei primi giochi erotici, le lancette dell’orologio non esistono più, il tempo si è trasformato in un’inutile banalità e ogni cosa è al suo posto, proprio come quella stupida moglie che aspetta a casa e che dovrebbe passare il resto del suo tempo a pulire e stendere panni: per quello serve una moglie.

Il ruolo di brav’uomo, anni prima, gli era riuscito davvero bene; sua moglie, all’epoca, aveva ceduto veramente all’uomo che sembrava essere il suo, quello che si incontra una volta e mai più.

Poi rilesse la città: San Francisco. Gary più di una volta aveva spiegato a Jane, a male parole, che si erano trasferiti a Seattle dopo l’incidente fatale costato la vita alla povera donna di casa. Il dolore, stando alle sue parole, era così acuto che ogni cosa di quella città, ma soprattutto di quella casa, le ricordava lei e andare avanti così era impossibile. Ma se quello che aveva scritto Katherine era vero e cioè che se la spassava con lei, non era vero che la bestia amava sua moglie, anzi, la odiava! Quindi, era impossibile che avesse sofferto così tanto.

Qualcosa non quadrava circa la motivazione del trasferimento.

Qualcosa di molto grande.

* * *

Jane scoprì molto del passato del padre che prima le era totalmente sconosciuto.

Non immaginava neanche che avesse tutte quelle donne pronte a sposarlo, pronte a scappare con lui e a lasciare i propri mariti. Cosa aveva di affascinante suo padre? Non riusciva proprio a capirlo. Perché invece, da quanto capiva dalle lettere, con sua madre era un mostro? Se era vero che una parte buona ce l’aveva, perché non l’aveva usata con l’effettiva moglie? Questo restò un mistero fino a quando Jane non lesse altre decine e decine di lettere, scoprendo così lati di queste donne che, negli scritti precedenti, non erano emersi. Da quanto si poteva dedurre, erano donne dipendenti da droghe, da uomini, donne sole da anni, vedove o infelici con il proprio marito. Erano queste le caratteristiche principali di chi impazziva per Gary. Si spiegò solo con la lettura incredula di quelle lettere perché lasciasse sempre sole le donne di casa. Le uniche che avrebbe dovuto amare e proteggere. Invece, nei vaghi e pochi ricordi di Jane, erano ancora vive le botte che riservava alla moglie. Sua madre a terra, molto spesso sanguinante e lui che, dopo averla presa a calci come aveva fatto con lei al night, finiva per ubriacarsi in chissà quale bar coi soldi che avrebbe potuto impiegare per comprare un misero giocattolo alla figlia. Lei, per quanto impotente, cercava di aiutare la mamma. Poi il vuoto. Non c’era nessuna figura a popolare quel gap che Jane, anche dopo essersi sforzata molto, non riusciva a ricordare. Mancavano dei pezzi, degli anelli fondamentali che agganciassero i ricordi di quei giorni terribili, fino al famoso incidente di cui parlava il padre e che lei non ricordava. Forse il dolore le aveva cancellato quel terribile ricordo. Era questo che Jane, tolte le pochissime foto, conservava della madre. Tutto il resto non lo ricordava.

Jane sciolse i capelli togliendosi l’elastico rosso che li teneva raccolti in una sinuosa coda e si grattò la nuca; la confusione che aveva in testa era indescrivibile; sperava che in quelle lettere ci fosse qualcosa che l’aiutasse a sapere altre cose che suo padre le aveva sempre tenuto nascoste, ma niente. Si lesse decine e decine di lettere di donne ninfomani che scrivevano con un linguaggio volgare e spesso provocatorio, un linguaggio che non lasciava spazio né a un po’ di passione né a un po’ di romanticismo.

Non appena Jane chiuse la porta della camera, sapeva benissimo di non poter rivelare a nessuno le due ore spese a leggere segretamente la posta privata del padre.

Gli interrogativi sull’intera faccenda sembravano moltiplicarsi senza freni; domande apparentemente senza risposte plausibili e fondate iniziarono a farle oscillare la testa. Fino ad allora aveva sempre trovato scuse ai suoi comportamenti: la violenza che usava con lei poteva essere uno sfogo, una grande rabbia che non riusciva a controllare se solo pensava alla moglie e al dolore provato dopo la sua morte. Ma adesso che sapeva qualcosa di più riguardo al suo oscuro passato, dopo l’uragano scatenato dalle lettere le sue ipotesi, già in bilico appena formulate, crollavano definitivamente. Jane aveva addirittura teorizzato che si fosse fidanzato con una tipa ridicola come Ginger perché, avendo avuto solo una donna nella sua vita, dopo tanti anni cercava di scaricare le sue pulsioni d’amore sull’unica donna che gli donava qualche attenzione, ma anche questa conclusione ora era completamente priva di senso.

Quelle lettere avevano vanificato ogni conoscenza che Jane possedeva sul conto del padre; avevano messo a nudo un uomo colmo di peccati e cattiverie. Stava visualizzando le sue mani, leggermente rugose, ma forti, che avevano toccato decine di donne sole, di donne che lo usavano per sesso e soldi. S’immaginava sua madre sola seduta sul divano, davanti alla televisione accesa, mentre fuori la pioggia batteva forte contro San Francisco.

Lui non c’era.

Lei rimaneva a casa, anche durante il weekend. Intanto le lancette dell’orologio correvano veloci, il tempo di Grace si stava prosciugando e lei non si stava godendo niente della sua vita; quelle lancette, con precisione millimetrica, raggiunsero a gran velocità la sua ora, quella maledetta ora in cui si consumò l’incidente letale che la strappò via dalla faccia della terra.

Il tempo da quel momento in poi non aveva più senso.

Gary non aveva più senso.

E nemmeno Jane.

Grace era morta.

Tutto era finito.

Gioie e dolori.

Jane chiuse un attimo gli occhi, anche se percepiva il vuoto totale intorno e dentro di lei. Decise di scendere a fare l’ennesima passeggiata nei paraggi di casa per distrarsi.

Evitò di andare al parco, non aveva la minima intenzione di incontrare, se c’era, quel ragazzo che sembrava cercare disperatamente la sua attenzione.

Era una fantastica giornata e non faceva tanto freddo. Il cielo era vestito d’un azzurro chiaro e delicato, qualche nuvola bianchissima di passaggio lo accarezzava. Tutto dava l’impressione che fosse una bella e felice giornata, ma la ragazza dai capelli d’oro continuava a sentire dentro una sensazione di disagio assoluto. La verità che aveva appena scoperto, unita alla consapevolezza che quelli erano giorni in cui avrebbe dovuto essere morta, le provocava un notevole disorientamento. La cosa che le dava più angoscia e felicità allo stesso tempo era il pensiero che in quel momento, se fosse morta dopo quel pericoloso gesto, si sarebbe trovata con sua madre.

Il pessimismo, senza che se ne accorgesse, le si era già infiltrato ovunque come un orribile tumore che lancia le sue metastasi mortali; lo sgomento di Jane lasciava trasparire un senso d’ingiustizia inaudito e produceva pensieri terribili: come batteri, erano capaci d’infettare ogni suo sforzo di sollevarsi, svalorizzavano la voglia di andare avanti che pian piano cercava di costruirsi; quel vento freddo, incessante, soffiava ovunque lei andasse ed era talmente freddo da distruggerle, come castelli di sabbia, tutti i progressi, tutti i passi in avanti e le prospettive di non arrendersi.

La tragedia più grande risiedeva sulle sue labbra.

Tutti se ne sarebbero potuti accorgere.

Non sorrideva più.

* * *

Sovrappensiero, Jane era arrivata davanti al parco.

Dubitò se entrare o meno perché accarezzava sia il timore di incontrarlo, sia la curiosità insistente di saperne di più sul suo conto, come farebbe un investigatore pignolo quando, correlato al caso irrisolto di una vita, spunta quello che per lui è un nuovo e prezioso indizio. Si mise seduta su un’altalena e cercò di rilassare le gambe. Guardò il taglio sul polso e lo fissò per una manciata di secondi. Si era rimarginato del tutto e ancora le faceva strano pensare che da quei sei centimetri circa di ferita si sarebbero potuti dileguare 21 anni di vita.

Cercando di allontanare quei pensieri, si concentrò su qualcosa di meno spiacevole, ma quella battaglia mentale si consumò senza un vero e proprio risultato soddisfacente.

Si era già fatto buio, i bambini ormai erano spariti, trascinati via sicuramente dalle mamme annoiate che gli ricordavano che si era ormai fatta ora di cena e che il freddo era ormai davvero insopportabile. In effetti anche il vento iniziò a farsi sentire e Jane, alzandosi, decise definitivamente di chiudere lì l’uscita pomeridiana.

Improvvisamente sentì un rumore alle sue spalle. Si girò di scatto con il cuore in gola. Un gattino camminava tranquillo dietro di lei, ignaro di tutto. Lo guardò poi arrampicarsi agilmente su un albero. Tirò un sospiro di sollievo e sorrise.

Girandosi, però, si trovò davanti l’ultima persona che avrebbe voluto vedere in quel momento.

* * *

Una pioggia di terrore le cadde addosso. Pietrificata dalla paura, si accorse che il ragazzo che tanto cercava di evitare le era comparso davanti come d’incanto, a pochi metri. D’istinto Jane affondò il suo sguardo negli occhi del misterioso ragazzo immobile, ma avvertì subito un senso d’angoscia che l’avvolse in una soffocante stretta. L’idea di affrontarlo e il coraggio di sconfiggere le sue paure sparirono.

Nonostante la curiosità iniziale, mai avrebbe voluto trattenersi un secondo di più, ma lui, rimanendo in piedi, sembrava volesse sbarrarle la strada; quello sguardo di ghiaccio, fisso e incollato al suo corpo, la inquietò.

“Ci si rivede” esordì lui con un tono basso.

La sua voce le entrò nel corpo e sembrò congelarla.

Cercò di abbozzargli un sorriso.

Sapeva che, se fosse stata in grado di sostenere quella conversazione, probabilmente se la sarebbe cavata con le parole, magari avrebbe potuto trovare una scusa e abbandonare quel maledetto parco, ma vederlo lì davanti, in piedi, a pochissimi metri, provocava una feroce sensazione che vietava l’uso della parola, a favore di un indecifrabile silenzio.

Avrebbe voluto scappare via il più velocemente possibile, ma le gambe, come colonne di cemento, non le avrebbero permesso una corsa fluida.

A illuminare il ragazzo malintenzionato c’era un solo lampione basso che, proiettando una luce ingiallita, sembrava messo in quella posizione appositamente da un famoso regista impegnato nella realizzazione del suo nuovo film horror.

“Hai perso la lingua?” stuzzicò lui inclinando leggermente la testa verso destra.

Jane scosse il capo.

“Allora perché non mi parli? Dì, ti ho fatto qualcosa?”

Jane contò fino a tre. Poi sarebbe scappata.

“Allora?” continuò lui. “Non rispondi?”

Uno.

Il ragazzo sorrise e nella sua espressione sembrò esserci un misto tra pena e rabbia.

Due.

“Se parliamo un po’ non ti mangio mica, ceno a casa non preoccuparti!” disse e, per ridere, il ragazzo buttò la testa all’indietro e si lasciò andare a una sonora risata.

Tre!

Jane scattò dal suo posto con gran velocità e iniziò a correre, anche se sentiva le gambe ormai atrofizzate dalla paura. Per un attimo si preoccupò addirittura dell’andatura goffa e impacciata.

Ce l’aveva quasi fatta. Stava prendendo sempre più velocità quando a un certo punto il ragazzo, ormai alle sue spalle, gridò qualcosa.

La paura che attanagliava Jane si trasformò in un sentimento di confusione, ma anche di profonda e immediata riflessione.

La sua corsa si ridusse a un passo veloce, fino ad arrestarsi del tutto.

* * *

Gli dava le spalle.

Continuava a tenere gli occhi fissi sul cancello, ancora qualche passo e si sarebbe ritrovata fuori da quella che sembrava essere diventata la sua trappola. Come per alcuni processi che pretendono tempi precisi, anche lei si concesse qualche secondo per metabolizzare ogni parola che aveva appena udito. Si girò prima lateralmente, come per controllare la situazione con la coda dell’occhio, per poi girarsi definitivamente.

Ancora non si dissero niente. La ragazza si avvicinò a passi lenti, spogliata di ogni paura, concentrata su quello che adesso sembrava essere un ragazzo meno misterioso, meno straniero, meno nemico.

Quando si trovarono appena a qualche metro di distanza, Jane aprì la bocca come per chiedergli di ripetere quello che aveva detto, ma lui l’anticipò.

“Non importa se scappi ogni volta che mi vedi” ripeté il ragazzo riuscendo a usare le stesse parole di un attimo prima, “la cosa che conta è che tu non venga per fare quello da cui ti ho tirata fuori l’ultima volta”.

Jane sentì inumidirsi gli occhi, guardò quel giovane da una prospettiva nuova, riscoperta, più complessa sicuramente, ma anche più nuda, a un passo dalla verità, come quando una persona ci meraviglia con qualcosa che avremmo scommesso non sarebbe potuto uscire dalla sua bocca, o con un’azione che, ai nostri occhi inquinati dal pregiudizio, non avrebbe mai potuto appartenere a chi abbiamo prepotentemente avuto l’ardire di giudicare.

“Quindi tu…”

Il ragazzo si allontanò con qualche passo stanco dirigendosi verso lo scivolo più grande del parco giochi. Si sdraiò.

“Ho soltanto fatto quello che mi sembrava più giusto fare”.

Adesso che aveva realizzato a pieno il merito che quel ragazzo gestiva con evidente modestia, Jane gli attribuì una specie di significato invisibile a occhi esterni; vedeva solo lei la gratitudine spontanea con la quale lo aveva rivestito. Nei pochi giorni di convalescenza aveva avuto l’occasione, a mente fredda, di analizzare in modo minuzioso quello che aveva fatto e quello che aveva rischiato fino a rendersi conto d’aver commesso un grave errore. Inaspettatamente, però, aveva scoperto chi le aveva permesso di rimediare all’errore e, in quel momento, non poté far altro che osservarlo sdraiato sullo scivolo, con lo sguardo sparato tra le stelle.

Avvicinandosi, poté notare alcuni dettagli che, durante i minuti precedenti, attaccata da un senso di confusione e agitazione, erano abilmente sfuggiti alla sua attenzione: gli occhi profondi, il naso leggermente a punta, la bocca definita e carnosa, le orecchie minute e le marcate sopracciglia. Tutto questo disegnava un volto pulito e proporzionato al resto del corpo. Di colpo e senza motivo le vennero in mente dei compagni di classe: alcuni avevano teste enormi rispetto ai corpi gracili, alcuni lo strabismo di Venere, altri ancora avevano caratteristiche orribili, pessime espressioni, caratteri impossibili, voci rauche, occhi spenti. Guardare quel ragazzo fu come ricredersi sulla bellezza maschile, fu come lasciarsi andare e affermare tutto il suo fascino; non aveva di per sé particolari caratteristiche fisiche, ma era soprattutto il suo sguardo a disorientarla.

“Ti devo tutto” disse lei, come se quella fosse la conclusione del ragionamento mentale a cui lui non aveva assistito.

“Non l'ho fatto per ricevere qualcosa in cambio” rispose lui rimanendo sdraiato, con le mani intrecciate dietro la nuca.

“Mi hai salvato la vita”.

“Se non lo avessi fatto io, lo avrebbe fatto qualcun altro, non credi?”

“Non fare il modesto, il punto in cui....” la voce si spezzò. Riprese subito dopo pochi secondi. “Mi trovavo in un posto isolato. So per certo che non c'era nessuno perché avevo controllato in precedenza quindi se non…”

“Non fa più niente” disse lui rizzandosi a sedere. “L'importante è che sia andato tutto per il meglio, no?” Sorrise e, dopo un momento, si alzò in piedi.