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Le Regole Del Paradiso
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Le Regole Del Paradiso

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Nessun film, nessuna rimpatriata a casa di amici e parenti per passare insieme il pomeriggio o fare una qualsiasi cosa divertente.

In quel momento un bambino cadde violentemente a terra durante una partita a calcio e Jane ebbe un sussulto.

Spostò gli occhi poi su un altro gruppetto di bambini che giocava a quello che sembrava essere il classico guardie e ladri: ce n’era uno tra questi che teneva un cappello da sceriffo in testa e teneva in mano un ciocco di legno un po’ arcuato in avanti come fosse una pistola. Si aggirava per le viuzze del parco con fare vigile e diffidente, passi decisi e felpati, lanciava occhiate veloci e fuggevoli in ogni angolo pronto a scovare i suoi coetanei, improvvisamente trasformati in famosi ladri pericolosi per l’umanità. Il bambino si infiltrava tra gruppi di mamme, tra gli altri bambini che non erano stati inclusi nella missione, si arrampicava sulle giostre e li cercava all’interno degli scivoli a tubo, magari qualcuno si era nascosto lì dentro e non sarebbe uscito fino a rimanere l’ultimo ladro in circolazione, vincendo così il turno. Quando poi qualcuno usciva allo scoperto, il bambino poliziotto lo rincorreva a perdifiato puntandogli la fantomatica pistola e fingendo di sparare colpi a raffica, necessari per bloccare la corsa fuggiasca del nemico. L’altro bambino però, il piccolo ladruncolo, fu così rapido nel correre che fu il più veloce tra i due a raggiungere la base scelta o come zona d’arrivo per il poliziotto che aveva arrestato il ladro o come meta da raggiungere dai ladri per essere immuni alla giustizia.

Un altro gruppo di bambine giocava con alcune bambole e questo le ricordò che non aveva mai partecipato a un divertimento simile.

Andare avanti con quel vuoto incolmabile dentro che si portava ormai da anni rappresentava la sua guerra più dura. Non aveva conosciuto le emozioni più semplici, non aveva acquisito la mente di una ragazza cresciuta, maturata, ma aveva una specie di grande rimpianto che voleva in ogni modo, senza riuscirci, far sparire cancellando di conseguenza alcuni tratti, più tristi che dolorosi, della sua infanzia ormai perduta.

Spingersi oltre fino a sfiorare il pensiero di ricevere un gesto di affetto era una specie di visione irraggiungibile, una fantasia malata, un’immaginazione drogata. Da che aveva memoria, Jane non ricordava nessun gesto di affetto nei suoi confronti da parte della bestia. I rari discorsi che si consumavano a pranzo o a cena non andavano spaziando in certe tematiche interessanti che avrebbero potuto raccogliere le osservazioni di tutti, confrontandole, elogiandole, criticandole, così come non venivano mai trattate certe problematiche che potevano andare dalla giornata al liceo, fino a parlare di qualcosa di più intimo, addirittura.

Non aveva capacità di relazionarsi all’interno di qualsiasi gruppo e non aveva il cuore pieno di motivi per vivere, per andare avanti, per reagire e combattere: si batteva semplicemente per cause naturali.

Del cuore sapeva che nell’arco di ventiquattro ore ci passavano quattromila litri di sangue, che in settant’anni di vita, in media, un cuore si contraeva e si rilassava due miliardi e mezzo di volte pompando cinque litri di sangue attraverso circa novantasei mila chilometri di vasi sanguigni, ma non sapeva cosa fosse un tuffo al cuore; poteva spiegare nei minimi dettagli medici un infarto, dato che lo aveva approfondito a seguito di alcune ricerche, ma non aveva mai avvertito il batticuore davanti a una persona di cui era innamorata.

Non sapeva che quell’organo così complesso quanto indispensabile potesse contenere infinite emozioni e che, oltre a tenerci vivi, avesse anche il potere di essere la cassaforte più sicura del mondo, impossibile da violare: ci si potevano riporre ricordi indimenticabili, frasi e parole pronunciate da certe persone, gioie conquistate, l’immagine del primo bacio, la prima volta che ci siamo spogliati davanti a qualcuno che amavamo. Jane Madison non aveva mai usato quel muscolo involontario per amare, aveva imparato a usare solo la fredda ragione che, con le sue indiscutibili risposte, riusciva a risolvere brillantemente ogni tipo di problema. Il cervello riusciva a rassicurarla, a tenerla al sicuro grazie alle teorie, ai ragionamenti, a un’indistruttibile logica che spesso non aveva solide basi, ma serviva giusto per una serenità mentale forte abbastanza da farle accantonare la tristezza gridata dal cuore. Per ogni domanda che si poneva aveva trovato risposte che, fino a quel periodo, le erano sempre andate bene, ma crescendo le cose stavano cambiando repentinamente e non era più tanto semplice accontentare l’organo che, fino ad allora, era rimasto puramente anatomico.

* * *

Aprire gli occhi quella mattina sarebbe stato completamente diverso dalle altre volte.

Jane rimase qualche minuto sdraiata nel letto con un gran vortice di pensieri che le turbinò a gran velocità, senza sosta.

Ogni sera prima di addormentarsi e ogni mattina prima di iniziare la giornata, aveva l’abitudine, o meglio, l’estrema necessità di incrociare lo sguardo di sua madre che era stata immortalata in quella che pareva una delle sue migliori espressioni. Era la stessa fotografia che, il giorno della vigilia di Natale, tenne stretta al petto, come se avesse voluto abbracciarla davvero.

Quella mattina, come se lo sguardo della madre avesse avuto lo strabiliante potere di leggere qualsiasi segreto della figlia attraverso il consueto e abitudinario sguardo mattutino, la ragazza decise di fare un’eccezione, la sola della sua vita, e non fissare a lungo gli occhi che all’improvviso sembravano cambiati: parevano strillare di non realizzare nella maniera più assoluta l’unico e ultimo programma della giornata.

Per non sentire più l’incombente pesantezza di quell’impressione, Jane si alzò di scatto dal letto e si fiondò in bagno per farsi una doccia. Con lo scrosciare dell’acqua che puntò al centro della sua schiena, nel premere il flacone del bagnoschiuma, si accorse che la mano che ne avrebbe dovuto ricevere il contenuto per poi spalmarlo velocemente sul corpo stava tremando.

Una volta pronta si diresse verso il ripostiglio in cui Jolie era solita tenere tutti gli attrezzi che le servivano per la pulizia della casa.

Accese la luce, si accucciò fino a raggiungere, di fianco alla lunga scarpiera, la cassetta di acciaio nella quale Gary aveva riposto decine di cacciaviti, un trapano, centinaia di chiodi. La ragazza frugò tra i vari scompartimenti della cassetta e trovò quello che stava cercando.

Infilò l’oggetto in tasca e uscì di casa senza prendere le chiavi: non sarebbero servite.

* * *

Il parco era semideserto ma, se avesse aspettato anche solo un’altra ora, lo avrebbe visto popolato da decine di bambini che, correndo a destra e sinistra, le avrebbero fatto saltare il piano, o meglio, la soluzione finale.

Jane si addentrò nel cuore del parco cercando il luogo più isolato, per avere la certezza che nessuno l’avrebbe vista, così, nel giro di pochissimi minuti, raggiunse l’angolo più remoto.

Come sotto la doccia, anche in quel momento le mani presero a tremare, soprattutto la destra, quella che avrebbe dovuto operare con una lucidità e una freddezza impeccabili.

Era arrivato il momento.

Tutti quei giorni bui, in fila, come peccatori nella più vergognosa delle processioni, le si erano presentati alla mente e le stavano dando la forza necessaria per compiere l’ultimo atto, la grande uscita dalla scena miserevole e insopportabile che viveva da sempre. Diede un ultimo sguardo in giro, posò gli occhi sulla strada trafficata, su alcuni passanti che sfrecciavano sulle strisce pedonali, poi portò lo sguardo all’interno del parco e vide gli alberi, le foglie. Era quel blocco immenso nel petto che non le consentiva di apprezzare la bellezza di ciò che la circondava, così come gli occhi spenti, il cervello attanagliato da una routine durata anni, lo spirito atterrito, la vergogna e l’umiliazione che avevano preso il totale controllo della coscienza e del rispetto che aveva di se stessa.

Infilò la mano nella tasca del suo vecchio giacchetto e tirò fuori il taglierino che il padre non aveva mai utilizzato.

Quante volte si era addormentata piangendo, infelice della propria vita, desiderosa di una svolta che sembrava non arrivare mai; era pesante quell’attesa, più illusoria che pretenziosa, più stancante che speranzosa.

Gary e i suoi modi animaleschi, per non parlare degli ultimi tempi in cui il suo cervello, la sua umanità e la sua logica sembravano essere spariti nel nulla lasciando il posto a una persona senza scrupoli.

Con il pollice destro spinse in avanti il piccolo fermo per sbloccare l’arnese. Spinse ancora di più quel piccolo pezzettino di plastica nero che si trovava al centro del taglierino e fece uscire circa sette centimetri di lama. La mano prese a tremare più velocemente. Cercò di non farci caso: tenendo saldamente l’arnese, tolse la parte iniziale del guanto che copriva il polso sinistro. Ora quel delicato tratto di carne bianca era ben visibile. Avvicinando la lama alle vene poteva immaginarsi la scena, ma mai il dolore che avrebbe provato, la reazione del padre quando gli sarebbe giunta la notizia e in quanto tempo, dopo il fatale taglio, sarebbe morta.

Era questione di attimi. Di secondi. Bastava che il cervello inviasse il comando alla mano di fare pressione sul polso per poi strattonare all’indietro quel maledetto taglierino e tutto sarebbe finito. Lo strinse talmente forte da sentire dolore alle dita. Cominciò a sudare e nella mano avvertiva come un blocco che le impediva di eseguire il gesto. Forse non lo voleva davvero, forse era tutta una messa in scena e non avrebbe mai avuto il coraggio di farlo. Forse avrebbe lasciato che il taglierino le cadesse dalla mano e sarebbe corsa a casa continuando a vivere la sua vita disastrata e magari aspettare passivamente un motivo per cui vivere.

Sarebbe bastato un attimo di più e forse avrebbe potuto ancora cambiare il destino, ma il peso di quegli anni era talmente insopportabile da farle crollare ogni speranza di sorreggere l’idea più straordinaria che le poteva giungere alla mente in quel momento: aspettare un domani migliore.

A denti stretti pronunciò le ultime parole.

“Mamma, arrivo”.

Con uno scatto, la lama fece attrito sulle sue vene a una velocità incredibile.

Dal polso iniziò a zampillare sangue.

* * *

Luce.

Fu questa la prima cosa che Jane, aprendo gli occhi, vide. Era la luce del paradiso, ormai era morta e finalmente il viaggio si era concluso. Adesso doveva farsi forza per alzarsi dalla superficie morbida sulla quale si trovava e andare a cercare sua madre. Avrebbe incontrato anche Dio? Stava forse scoprendo il grande segreto che nessun essere umano era mai stato in grado di svelare con certezza?

D’improvviso un insieme di voci si sovrapposero l’una con l’altra e Jane aprì definitivamente gli occhi avvertendo un forte dolore alla testa.

Guardò avanti a sé e si accorse di alcune persone che camminavano.

Non era il paradiso, ma un ospedale.

Inizialmente non capì perché fosse finita lì ma poi, vedendosi la fascia intorno al polso, i ricordi si fecero man mano più nitidi. Nonostante ciò, sia fisicamente che psicologicamente si sentiva abbastanza bene. Era solo un po’ stordita. In quell’istante entrò una dottoressa.

“Mi scusi” esordì debolmente Jane.

“Ti serve qualcosa?” domandò lei premurosa. Era una donna sulla cinquantina, con i capelli grigio chiaro.

“Mi chiamo Jane Madison e… volevo sapere…”

“Hai subito un grave taglio al polso mia cara, ti abbiamo trovata sul retro dell’ospedale, seduta sui gradini. Ricordi come ti sei fatta male?”

Jane fece mente locale ma, oltre quello che era successo al parco, non ricordò minimamente di essersi seduta sui gradini dell’ospedale che portavano all’entrata secondaria.

“No, mi dispiace”.

La dottoressa controllò la flebo.

“Quando potrò uscire? Dovrò rimanere tutta la notte?”

“Non avendo nessun documento non sapevamo se fossi maggiorenne o meno, ma un infermiere ti ha riconosciuta e ha chiamato tuo padre. Sai, sono amici di vecchia data” spiegò la dottoressa.

La ragazza chiuse istintivamente gli occhi e si maledisse.

“Dottoressa, il fatto è che mio padre non…”

“Era di rientro dalle feste natalizie. Sta arrivando” concluse. La donna sorrise e uscì dalla stanza dopo che un’infermiera la chiamò.

Nel giro di qualche minuto Gary arrivò.

Jane si alzò dal suo letto grazie anche all’aiuto della dottoressa che, mentre le porgeva il braccio come sostegno, si accertava continuamente del suo stato di salute. Facendo un passo per volta, Jane sentiva che il mal di testa era diminuito parecchio rispetto al suo risveglio.

La dottoressa prese in mano il giacchetto di Jane sporco di sangue.

“Mi dispiace che tu debba rimetterti questo” disse porgendoglielo delicatamente. La ragazza quando vide le chiazze rosse inorridì. Ancora doveva realizzare di essere viva.

“Sua figlia è stata veramente fortunata. Se non fosse venuta all’ospedale in tempo, non voglio neanche immaginare cosa le sarebbe potuto accadere” spiegò alla bestia che non la finiva di guardare male la figlia. Ancora una volta si era messa nei guai e lui era costretto a vestire i panni del bravo genitore.

“Purtroppo queste brutte cose succedono. L’importante ora è che sia tutto a posto”.

Con la mano lurida di falso affetto le scompigliò i capelli.

“Ovviamente. L’unica cosa che non riesco ancora a capire è come abbia fatto a raggiungere l’ospedale senza che nessuno l’aiutasse”.

Entrambi si girarono verso Jane per ricevere risposta.

“Mi sono fatta male qui vicino, ecco perché ce l’ho fatta. Solo all’ultimo, come ha detto lei dottoressa, mi sono seduta sui gradini dell’ospedale. Non è stato nient’altro che un forte giramento di testa” disse lei sorridendo.

Gary sorrise debolmente, ma era chiaro che si trovava spaesato e non sapeva come reagire.

“Aspetta un momento, adesso che ci penso tu avevi una specie di bandana stretta al polso” disse la dottoressa socchiudendo gli occhi per ricordare meglio.

“Come hai fatto ad applicarla così bene sulla ferita? Era stretta al punto giusto e ha bloccato l’emorragia: se non lo avessi fatto subito dopo l’incidente avresti perso troppo sangue e saresti svenuta perdendo i sensi. C’era il rischio che tu…”

“È stato il nostro Signore” disse Jane per tagliare corto.

Gary, dopo quell’affermazione, prese la figlia per un braccio e se ne andò senza neanche salutare la dottoressa che, perplessa, rimase al centro della sala d’aspetto a fissare i due che si allontanavano.

* * *

“Non saprei dirti se avessi potuto farti più stupida di così. Mi spieghi come cazzo hai fatto a finire in quell’ospedale di merda?”

Jane guardava fuori dal finestrino e sentiva pulsare leggermente il polso ferito.

“Mi sono fatta male”.

Gary la guardò per un attimo.

“Mi prendi per il culo? Si era capito che non ci fossi andata per farti una messa in piega, Jane!”

“Ero uscita a farmi una passeggiata, ho sbattuto il polso e mi sono fatta male”.

“Bella spiegazione, complimenti”.

Forse quella fu la conversazione più normale avuta con il padre in tutta la sua vita. Nonostante avesse torto le piaceva conversare con lui senza essere attaccata con parolacce e insulti tanto da farla piangere.

“Tu, comunque sia, per una settimana, te ne stai a casa così non combini altri guai”.

La settimana di detenzione casalinga passò molto lentamente, tanto da costringere Jane a ripassare tutti gli argomenti che le erano piaciuti di più, anche se era stanca di domandarsi come fosse stato possibile quel finale del tutto inatteso al suo piano.

* * *

Si stava facendo notte.

Presa da un senso di noia e considerato il fastidioso silenzio in cui era sommersa la casa, Jane approfittò della fine della punizione imposta dal padre per scendere e farsi una passeggiata. Decise di entrare nel parco e dirigersi verso il posto in cui aveva tentato di togliersi la vita. Quando giunse nello stesso fazzoletto di terra in cui aveva raccolto il coraggio necessario per far saettare la lama d’acciaio contro il suo polso, realizzò di sentirsi come un fantasma che visita luoghi a lui appartenuti, quand’era ancora in vita, quando ancora tutto era possibile. Chiuse un momento gli occhi come per richiamare alla mente, in ordine cronologico, tutte le immagini e le azioni eseguite quel giorno, un po’ come se avesse voluto analizzarne i punti salienti, i punti critici, i punti in cui qualcosa poteva andare diversamente e visse quella sensazione che, mentre teneva in mano l’arnese di suo padre, non l’aveva abbandonata un solo istante: la consapevolezza di poter incontrare, una volta suicidatasi, sua madre. Se quel piano avesse funzionato, non avrebbe avuto mai più l’opportunità di crescere, diventare una donna, abbracciare i suoi giorni migliori e quelli più difficili, avrebbe perso qualsiasi battaglia che la vita le avrebbe srotolato davanti, avrebbe rinunciato volontariamente a tutti i soli che sarebbero sorti per regalarle giornate felici; non avrebbe vissuto il tanto sognato e sperato amore che, come un’entità sfuggevole e timida, si nascondeva ai suoi occhi.

Esiste una giustificazione al suicidio? Anche non trovando una risposta adeguata, né tanto meno oggettivamente accettabile a quel dubbio, cercò di valutare la motivazione che l’aveva spinta a tagliarsi le vene.

Scosse la testa non riuscendo a cancellare domande e visioni: il sangue che zampillava fuori dal polso, la testa che cominciava a girare e… e poi? Sembrava che il resto fosse stato cancellato segretamente da qualcuno. Cos’era successo durante quel lasso di tempo? La dottoressa aveva detto che l’avevano trovata seduta sui gradini dell’ospedale.

“Cosa ci fai qui a quest’ora?” Jane si voltò all’improvviso spaventata.

“Non dovresti girare da sola di notte. Potrebbe essere pericoloso”.

Il cuore le cominciò a battere forte; si rese conto che per fuggire doveva passargli per forza davanti. Quello che fece però fu rimanere perfettamente muta e immobile davanti a lui.

Il misterioso ragazzo la guardò. Aveva gli occhi di un marrone scuro quasi da sembrare neri. Gelarono completamente i suoi.

Notando una strana espressione sul volto del giovane sconosciuto, la ragazza cercò di organizzare un piano di fuga valido ed efficiente, ma non c’erano molte possibilità di attuarlo. La sua paura più grande era di essere placcata non appena gli fosse sfrecciata accanto per andarsene.

Guardando a terra, cercò comunque di camminare verso l’uscita a passo lento, come se non esistesse.

“Te ne vai? Non voglio mica mangiarti”.

Il suo era un tono sicuro. Era ancora contro quell’albero. Con le mani in tasca.

Jane affrettò il passo e con la paura addosso riuscì a passare davanti al ragazzo senza essere placcata, né ostacolata in alcun modo. Con la coda dell’occhio vide però uno strano movimento di lui, come se con la schiena si fosse dato una spinta contro il tronco dell’albero per riacquistare la posizione naturale e camminare verso di lei.

Questo bastò per far correre Jane all’impazzata verso l’uscita. Metteva un piede davanti all’altro a una velocità che non avrebbe mai scommesso di avere; stava gridando aiuto, ma il parco era praticamente deserto.

Sentì alcuni rumori dietro di sé e cercò in ogni modo di accelerare ancora di più; una volta fuori virò a sinistra, attraversò la strada e sfrecciò verso casa a perdifiato.

Nel giro di pochissimi minuti si ritrovò segregata in cameretta, con il fiato corto e la schiena sudata. Si tolse il giacchetto, lo lasciò cadere a terra e andò alla finestra.

Sbirciò fuori, nei pressi del parco, ma non vide nessuno.

* * *

La mattina seguente decise di farsi una passeggiata.

Anche se c’erano molti ragazzini che correvano all’impazzata, sarebbe stato ugualmente un momento perfetto per abbandonarsi a qualche passo all’aria aperta, non pensando a niente di particolarmente impegnativo o preoccupante.