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Le Regole Del Paradiso
Le Regole Del Paradiso
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Le Regole Del Paradiso

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“Papà, ma questo…”

“Indossalo e basta! Non avevi detto che mi avresti aiutato con semplici faccende? Questa è la prima!” gridò Gary tirandole uno schiaffo in piena faccia. Il ragazzo di colore non ci fece caso. Sembrava fosse abituato a certe cose.

“Torno tra un minuto, se non ti sei cambiata giuro su tua madre morta che ti ammazzo!” e uscì come una furia scatenata. Come un animale. Come una bestia.

A Jane, guardando quei vestiti, scesero un paio di lacrime, ma non poteva e non doveva perdere tempo. Se lo avesse fatto, suo padre l’avrebbe ammazzata sul serio. Doveva cambiarsi per forza con quel ragazzo nella stanza? Non aveva scelta. Si tolse prima la felpa, poi con molta incertezza la maglietta. Il ragazzo era ancora intento a sistemare alcune bibite e le dava le spalle. Jane aveva le mani che tremavano e sperava con tutta se stessa che non si sarebbe girato. Con un rapido gesto si tolse anche la magliettina bianca. Il top era troppo piccolo, via anche il reggiseno. Si infilò subito il minuscolo indumento e il ragazzo si girò, proprio nel momento in cui Jane coprì il seno. Il volto le andò in fiamme. Doveva togliersi anche i pantaloni.

“Puoi girarti per favore?” Jane glielo chiese con il cuore in mano, si capì dal tono. Il ragazzo si girò senza dire una parola. Sfilati i pantaloni, indossò la minigonna, la prima della sua vita. Adesso, nonostante la delicatezza e la sua bellezza naturale, sembrava un’attrice di film hard, accattivante, eccitante e tremendamente sexy. Anche se le parti intime erano state coperte, chiunque poteva guardare ogni sua curva. Qualsiasi uomo avrebbe voluto passare una mano sul sedere tondo e sodo, toccare le gambe, o il seno, quel seno prorompente al punto giusto: le altre parti del corpo erano nude. Jane pregò di svegliarsi da quell’incubo. Il ragazzo aveva poggiato a terra la bottiglia che teneva in mano e guardandola si avvicinò slacciandosi improvvisamente i pantaloni.

Non fece in tempo a chiedergli pietà che scattò verso di lei.

“No, ti prego, non farlo. Mio Dio, ti prego, no!” le urla della ragazza furono messe a tacere. Con la mano destra il ragazzo le tappò la bocca e con l’altro braccio la bloccò con violenza. Jane cercava in tutti i modi di divincolarsi, di scalciare o di gridare, ma quel ragazzo era veramente fuori di sé; si muoveva con foga, aveva le palpebre allargate e i denti stretti.

“Bocconcino, voglio scoparti!” furono le sue uniche agghiaccianti parole. Con uno scatto il ragazzo la scaraventò ferocemente contro l’armadietto di ferro e la bloccò di nuovo; con un’abile mossa si tirò del tutto giù i pantaloni e le mutande. Qualcosa di duro e lungo stava toccando le gambe di Jane. La musica del locale era alta e nessuno avrebbe potuto sentire le sue grida, Gary non c’era, quel maledetto sgabuzzino sarebbe diventato la sua trappola, quel ragazzo era il suo peggior incubo. Aveva capito che era arrivata la fine.

Non sapeva affatto però che quello era solo l’inizio.

* * *

Con un movimento fulmineo, mentre la teneva ferma, il ragazzo le abbassò il top scoprendole il seno.

Successe tutto così rapidamente. Come un maniaco sessuale perverso e ormai fuori di senno affondò la testa nel seno candido di Jane quando la porta si spalancò.

“Ma che cazzo stai facendo?”

Il signor Gary però, invece di darne di santa ragione al ragazzo senza pantaloni, lo spostò come se fosse un fastidioso insetto e tirò su il top di Jane sistemandoglielo per bene, dimenticando all’istante quel che aveva appena visto.

“Il momento è arrivato” il suo tono ora sembrava calmo, ma si vedeva che cercava di non perdere il controllo. Era come se fosse euforico al massimo. Era teso perché sperava di uscire da quella situazione, di riuscire a portare a termine il programma stilato per quella serata. Tutto era stato premeditato accuratamente: sua figlia sarebbe stata in grado di non fargli saltare i piani?

“Dai che ti sta bene questa divisa, su, sei bella”. La prese per mano e lei, scalza, lo seguì come se fosse un robot, un pupazzo, un oggetto, una prostituta.

Ecco finalmente la vista del locale in piena attività. Decine e decine di persone eleganti parlavano tra di loro, bevevano, qualcuno era esageratamente ubriaco, ma quello che saltò subito agli occhi di Jane furono due ragazze che ballavano la pole dance sui cubi avvinghiate ai pali d’acciaio.

Gary si rivolse a sua figlia.

“Vedi quelle persone che sono sedute sotto ai cubi?” Jane buttò l’occhio sui divanetti disposti proprio sotto le ragazze che ballavano, occupati da certi signori in giacca e cravatta.

La prima fila.

“Sono persone di massima fiducia, tu devi stare al gioco. Ricordati una cosa: devi fargli fare quello che vogliono, non ribellarti, non rispondere in maniera offensiva e non prendere nessuna cazzo di iniziativa” spiegò la bestia con gli occhi iniettati di sangue.

Lei annuì, ancora traumatizzata dal ragazzo di colore. Gary, stringendole il braccio, portò Jane sotto uno dei cubi vuoti.

“Devi ballare su questo coso; è la prima faccenda che avevi promesso di fare” sorridendo e senza lasciarle il tempo di rispondere, la prese in braccio e la scaraventò sul cubo.

Adesso si era trasformato: sorrideva a tutti e salutava ogni persona che gli rivolgeva la parola o un semplice cenno, si muoveva con disinvoltura e dava l’impressione di essere un uomo gentile e di gran classe.

“Adesso balla e dai spettacolo” gridò Gary indicando, senza farsi notare, le persone a cui alludeva un attimo prima.

Al centro della prima fila spiccava un personaggio molto sospetto. Avrà avuto poco meno di settant’anni, portava spessi occhiali da vista e una giacca pesante. Pantaloni grigi e scarpe nere. Era calvo, circondato da altri scagnozzi e lui, quello strano signore, doveva essere senz’altro Rütger Hoffmann. Di che affari parlava suo padre?

Non le sembrava vero. Era su un cubo, vicino a un palo per la pole dance, davanti a un oceano di gente che le puntava gli occhi addosso. Da brava studentessa era diventata, contro la sua volontà, la nuova protagonista di un night club in cui tutti aspettavano di vederla nuda. Jane sentì girare forte la testa, ma riuscì a vedere nitidamente che la ragazza che ballava sull’altro cubo si stava scatenando e stava dando grande spettacolo. Un inquietante spettacolo: quella sarà stata una ragazzina di diciassette anni al massimo che indossava tacchi a spillo, calze nere a rete, minigonna e top. Rideva e sembrava contenta quando sentiva i fischi provenienti dal pubblico eccitato. Jane guardava quelle persone e lo schifo prevalse ferocemente su qualsiasi altro tipo di emozione; c’erano uomini vecchi che si toccavano per aumentare la loro eccitazione, ridevano mostrando denti marci, si lanciavano occhiate complici per poi tornare a guardare con lussuria le ballerine. Molti di loro erano sposati, ma c’erano uomini giovani, altri ancora giovanissimi, altri erano tristi scapoli in cerca di un po’ di movimento, di culi, di tette, di sesso; lo avrebbero trovato con le ragazze? Sì, Gary avrebbe fatto pagare una bella cifra e avrebbe spillato tanta grana a quei maiali riservando loro il suo studio. Se qualcuno avesse voluto divertirsi con Frenny, la “collega” di Jane, avrebbe accettato sicuramente e avrebbe organizzato in pochi minuti il focoso appuntamento. Tutti quei soldi facevano gola al padrone del locale; sapeva benissimo che ogni sera, tecnicamente, rischiava la galera, ma proprio chi lo poteva mettere dentro godeva più di qualsiasi altro. Gary aveva allargato incredibilmente il giro coinvolgendo persone da ogni parte degli Stati Uniti. Il suo segreto era presentare le donne più sexy alle persone che lui considerava più pericolose. Li chiamava i bastardi. Il sistema funzionava alla perfezione: fornire donne e droga a chi poteva essere tanto fastidioso da trasformarsi in un potenziale nemico.

“Cazzo, muovi quel culo!” Gary riprese sua figlia in visibile difficoltà. Non stava ballando; si limitava a rimanersene in piedi sul cubo, più ferma del palo d’acciaio sul quale si sarebbe dovuta avvinghiare. Gary aveva questo scenario in mente e se sua figlia non lo avesse messo in atto l’avrebbe fatta pentire d’essere nata. Doveva ballare, altrimenti i bastardi si sarebbero incazzati e solo il diavolo poteva sapere cosa avrebbero fatto.

“Papà!” gridò Jane in preda al panico, “papà aiutami!”

Un uomo di mezz’età si era alzato e si era avvicinato a lei, aveva allungato una mano e le aveva toccato la coscia. L’interno, per la precisione.

I signori che avevano assistito alla scena ridevano di gran gusto.

L’altra ragazza, Frenny, era scesa dal cubo e aveva cambiato il tipo di ballo: lap dance. Era alle prese con un gruppo di uomini che allungavano le mani sulle natiche, sul seno, sulle braccia. Lei sorrideva maliziosa, faceva occhiolini, tirava fuori la punta della lingua e se la passava sulle labbra, faceva smorfie erotiche con il volto fingendo continui orgasmi. Poi, finito lo spettacolo hard, saltò con gioia sul cubo e continuò a lavorare con il palo d’acciaio.

Jane sapeva che, se non avesse fatto lo stesso, si sarebbe messa nei guai.

* * *

La morsa allo stomaco era fortissima.

Mai, mai e poi mai si era sentita così sporca, così fuori luogo. Le luci tagliavano il locale in mille parti colorate e tutti si divertivano. Era salita solo da qualche minuto e gli uomini si avvicinarono improvvisamente ai cubi. La musica cambiò, segnale che annunciava l’ennesimo ballo: lo spogliarello. Jane cercò di muoversi, ma quello che uscì fu un ballo ridicolo. Sembrava che avesse le gambe legate. Suo padre ogni tanto le passava vicino e le lanciava sguardi minacciosi. Era chiaro il suo messaggio. Non doveva fargli fare brutta figura, ma il corpo non rispondeva più ai segnali inviati dal cervello. Il terrore ormai si era impadronito di lei.

Frenny si sfilò lentamente il top e lo lanciò alla folla che cercò di prenderlo al volo. Mancava solo lei. Solo lei doveva compiere un gesto così semplice, così breve. L’aveva fatto centinaia di volte prima di entrare nella doccia. Lo faceva ogni giorno, togliersi il reggiseno per lavarsi o per indossare il pigiama, ogni sera, eppure le mani sembravano essersi trasformate in due statue d’ottone. Era ferma in preda a sensazioni mai provate prima di allora; era sicura che non sarebbe mai più uscita da quel locale. Per un attimo credette che sarebbe rimasta per sempre sopra quel cubo in balia di tutti quei maiali, compresi i signori in giacca e cravatta che aspettavano, impazienti, il suo top.

* * *

Suo padre prima le diede uno schiaffo con una tale forza da farla cadere a terra, poi iniziò a prenderla a calci. Lei voleva gridare, ma dalla bocca non uscì alcun tipo di suono, solo agghiaccianti gemiti. Versi di dolore.

“Come ti sei permessa di scendere da quel cazzo di cubo!”

Gli occhi di Jane osservavano impotenti la gamba del padre che, finito un insulto, si caricava all’indietro fino a scagliarsi contro la pancia, sul petto, sulle braccia. Dopo ogni colpo che riceveva, c’era un flash bianco. Poi nient’altro. I calci erano terminati. Il dolore però era atroce e attraversava violentemente ogni singola parte del corpo.

Suo padre uscì lasciando aperta la porta e chiunque, passando lì davanti, avrebbe potuto vedere la splendida ragazza mezza nuda per terra, con il sangue che le colava a piccoli rivoli dalla bocca. Se solo avesse fatto volare via quel maledetto top tra le mani di quegli uomini si sarebbe risparmiata la sfuriata di Gary. Dopo alcuni minuti però tornò la bestia in compagnia: insieme a lui c’erano due ragazze e un signore. Forse uno dei bastardi.

“Ho visto che c’è stato qualche imprevisto” affermò infastidito l’uomo. Dall’accento tedesco la ragazza capì subito che si trattava di Rütger Hoffmann.

Gary lasciò intravedere un velo di sorpresa e di sgomento, ma riuscì a rimediare.

“Sì, non sta bene mia figlia, ha avuto un calo di pressione”.

L’uomo guardò Jane con una strana espressione.

“Nonostante il sangue che le esce dal naso e dalla bocca noto che è un succoso bocconcino” affermò facendo intravedere un enigmatico sorriso sulle labbra fini e sottili.

“Rütger” Gary lo guardò di sottecchi come se stesse per fargli qualche proposta. Poi glielo disse chiaramente.

“Se vuoi favorire, non c’è alcun problema” disse indicando con un gesto della mano la figlia.

Hoffmann continuò a tenere gli occhi inchiodati su Jane; notava anche lui quel bel corpo riverso a terra, quei biondi capelli disordinati, la carnagione chiara, l’esplosione della sua giovinezza. Intravide il volto e si accorse dell’estrema delicatezza di quei magnifici tratti naturali.

“Hai fatto un grande errore, non avresti dovuto ridurla così” tuonò il capo con ancora gli occhi sulla ragazza. Poi li buttò su di lui.

“Adesso come passerò la serata?”

Gary si trovò spiazzato e maledisse quella peste di sua figlia. Era convinto che non ci fosse un’occasione importante in cui non lo avrebbe messo nei guai.

“Aspetta qui un momento”. Gary si precipitò immediatamente in cucina. Doveva assolutamente accontentare, almeno temporaneamente, quell’uomo; se tutto quel posto ancora funzionava, se potevano essere comprate e vendute intere partite di droga all’interno del locale e se Gary poteva permettersi di picchiare, maltrattare o violentare le ragazze all’interno di quelle mura, era solo ed esclusivamente merito di Hoffmann. Attorno a sé aveva un incredibile potere che riusciva a gestire ed esercitare tramite i suoi uomini più fidati; pagava profumatamente chi avrebbe potuto interferire negativamente sui suoi preziosi affari. Il locale di Gary fruttava moltissimo non tanto per il sesso che poteva essere tranquillamente praticato nello studio e nelle altre stanze che avrebbero costruito di lì a pochi mesi, ma piuttosto per tutti i traffici di stupefacenti che scorrevano nel night. Era senza ombra di dubbio il quartier generale nel quale Hoffmann e la bestia concludevano i loschi affari.

Gary tornò da Rütger con una delle ragazze che lavoravano segregate in cucina come aiutanti cuoche da ormai due anni. Era sui venticinque anni mora, bassa, occhi scuri.

“Vuoi intrattenere questo mio caro amico? Purtroppo mia figlia non può farlo, date le sue pessime condizioni” spiegò lui.

“Signor Madison, io…”

L’indecisione della ragazza costrinse Gary a fare qualche passo per incollare la sua faccia infuriata a quella della giovane dipendente.

“Se non fai scopare subito questo stronzo come si deve giuro che stanotte ti taglio la gola” le sussurrò.

La ragazza sembrò ipnotizzata da Gary e dalle condizioni di Jane, che notò non appena uscì dalla cucina. L’uomo la guardò e sorrise.

“Non è certo bella come tua figlia” puntualizzò il tedesco.

Gary sentì vorticare la testa.

“Ti prego, Rütger. Lei è quella che si salva, se vuoi ti chiamo la ball…”

“Non voglio quella puttana!” gridò lui stringendo il pugno destro.

Guardò la ragazza dalla testa ai piedi.

“Per stasera ti salvi solo se questa gentile ragazza farà tutto quello che chiederò”.

Visibilmente agitata, la ragazza era sul punto di piangere, ma riuscì a trattenere le lacrime.

“Sicuro che lo farà” Gary si voltò verso l’aiuto cuoca.

“Non è forse così?”

Lei annuì.

“Avanti, non essere tesa” Hoffmann si fece avanti toccandola. Nonostante l’età avanzata dava l’idea di un uomo arzillo.

“Come se fossi a casa tua” gli disse Gary indicandogli il letto.

Rütger lo guardò un’ultima volta.

“Gary, lo faccio solo perché tua figlia è ridotta veramente male” Gli si avvicinò a qualche centimetro. “Dovrai rimediare all’errore commesso” ordinò. Poteva sbagliare in qualsiasi campo, sarebbe stato addirittura più clemente se fossero mancati dei soldi che Gary, ogni tre mesi, doveva dargli. Avrebbe fatto qualche storia, ma non poteva accadere una cosa del genere; quando Hoffmann s’invaghiva di qualche ragazza doveva essere accontentato. E Jane rimase una preda che, per quella sera e solo per quella sera, gli era sfuggita.

Il signor Hoffmann si sdraiò sopra al letto poggiando la testa sul cuscino e invitò la ragazza a fare altrettanto; Gary invece convocò Frenny, l’altra cubista, e la buttò a terra con una spinta. Si slacciò i pantaloni e lei iniziò subito a prenderglielo in bocca. Il tedesco aveva ormai quasi finito di spogliare la ragazza che, fortunatamente per la bestia, si lasciava domare senza difficoltà. Era un pezzo di ghiaccio, ma l’importante era soddisfare il bastardo.

Jane cercò di parlare, ma il dolore la strozzava. Poggiò la testa a terra e cercò di allontanare mentalmente quel fortissimo dolore alla pancia. Suo padre tirò fuori dal cassetto un po’ di cocaina, la sniffò e chiese all’uomo se voleva favorire, ma lui era troppo occupato a leccare ogni centimetro quadrato di quella povera ragazza che con incredibile sangue freddo riusciva a non gridare e a non dimenarsi.

Una settimana dopo la realtà che le si srotolava davanti non era più la stessa.

Dopo la terribile esperienza al night, Jane sentì che qualcosa al suo interno era cambiato e tutto quello che avrebbe fatto, visto o detto, non sarebbe mai stato più spontaneo o genuino, ma avrebbe patito i postumi di quel trauma così violento; ogni frase sarebbe stata macchiata dalla paura che le aleggiava in corpo come un demonio impazzito che cercava di tapparle la bocca; ogni discorso sostenuto sarebbe stato percepito solo come un argomento da trattare per non andare a finire a parlare di quello che aveva fatto al night, sul cubo, conciata in una maniera talmente disdicevole da considerarla blasfema. Gli occhi che le strusciavano addosso, le bocche di alcuni vecchi che sbavavano al solo pensiero erotico di passare qualche ora in compagnia della giovane dal viso angelico, gli occhi chiari e la pelle liscia profumata di una giovinezza che, per loro, non era altro che un irraggiungibile ricordo lontano a cui facevano riferimento quando volevano rivivere l’epoca in cui era il loro turno: il turno per conquistare obiettivi e donne, l’epoca in cui si era in diritto di aspettare qualsiasi treno perché, effettivamente, era la loro epoca. Stare seduti sulle comode poltrone del locale di Gary e fantasticare di baciare Jane, toccarla e sentirsela addosso sarebbe stato il loro viaggio nel tempo ormai andato, ormai scaduto: non sarebbe esistito più il dislivello mozzafiato di età che galoppava tra di loro, ma l’avrebbero interpretato solo come un’indimenticabile nottata al night, un sabato sera alternativo, privo di monotonia, da ricordare per quello che gli rimaneva da vivere come l’ultimo grande colpo da maestri del piacere sensuale, nonostante le rughe, nonostante le ossa e i muscoli fradici, l’artrite, la dentiera.

Non sembrava esistere nessun comportamento mentale, fisico o spirituale che avrebbe potuto alleviare quel marcio che la ragazza sentiva crescere da dentro, che colava dalle pareti della sua dignità e che tutti, solo guardandola negli occhi, avrebbero notato nitidamente. Abbassare la testa facendo correre lo sguardo all’oscuro del mondo non sarebbe servito se non ad accentuare un disagio che nascondeva, in sé, il terribile segreto. Ascoltando i professori spiegare alcuni concetti, o interagire con una commessa di un negozio, stando in silenzio, non riusciva ad abbassare il volume mentale di quella musica che, il sabato precedente, aveva fatto da colonna sonora al suo primo spogliarello pubblico. Non riuscì a concludere niente nemmeno l’amico psicologo di Jolie, al quale venne presentata dalla colf stessa: ebbero una conversazione di mezz’ora, ma la giovane non disse nemmeno una parola. Vedeva ancora un fiume di mani in aria che applaudivano, i fischi acuti, gli occhi spalancati quando Frenny aveva lanciato alla folla imbizzarrita il suo top, le mani dei vecchi che entravano nei pantaloni e si agitavano. Gli spiriti eccitati sembravano concreti, visibili: li indossavano come terrificanti maschere di carnevale.

Entrare in casa o a scuola rappresentava la grande sfida giornaliera dalla quale si aspettava il peggio: tra i banchi del liceo c’era Ashley che ogni mattina, puntuale come un ghepardo nell’ora in cui la famiglia di gazzelle si riunisce amorevolmente, si materializzava con la mano protesa e l’aria di chi dice: non stai forse dimenticando qualcosa?

A casa c’era la causa di ogni suo problema: la bestia. Pranzare, cenare, condividere la propria vita con la persona che le aveva causato quei danni psicologici non era una cosa da niente. Non poteva che ricordarlo mentre faceva irruzione nel magazzino dove l’operaio di colore stava consumando lo stupro: la sua indifferenza, gli ordini di sbrigarsi a svolgere le “semplici faccende” il cubo, la musica a tutto volume, le botte nello studio, il sangue, il vecchio tedesco con cui parlava di lei e del suo corpo mercificato.

“Presto sarai di Hoffmann e non ti opporrai” era solito dire durante una delle tante liti scoppiate per un nonnulla. Poi aggiungeva: “Ovviamente appena il tuo bel visino tornerà a essere splendido e lucente!”

Effettivamente in volto aveva ancora lividi evidenti, l’occhio pesto, lo zigomo arrossato e la guancia gonfia.

Quel pomeriggio si rannicchiò sul letto e tirò a sé le ginocchia, stringendole al petto. Si girò dalla parte sinistra e, una volta incrociato lo sguardo della madre, s’impietrì. La donna era stata fotografata molti anni prima di quel pomeriggio malinconico e, ogni volta che Jane incastrava gli occhi nei suoi, assaporava la struggente sensazione di essere in balia di angeli e demoni in eterna lotta tra loro, senza nessun arbitro che decretasse una vittoria, un pareggio, una sconfitta.

* * *

Quella mattina, quando Jane aprì gli occhi, già sapeva che sarebbe stata una pessima giornata; una data del genere doveva essere festeggiata felicemente in famiglia, con la voglia irrefrenabile di aprire i regali che tuttavia avrebbe dovuto essere controllata fino allo scoccare della mezzanotte, così da farlo tutti insieme, intorno a un grande tavolo pieno di dolci. Si sarebbe dovuta respirare un’aria speciale, la si doveva vivere con il sorriso. Quando si svegliò poté solo accorgersi che in casa non c’era nessuno. Non sapeva dove fossero andati fino a che lesse il biglietto scritto frettolosamente dal padre: ‘Torniamo il 26’.

Non c’era nessun motivo per cui rimanere stupiti. Era il minimo che potevano fare. Dentro sentì solo aumentare il gelo che copriva il suo cuore; ancora con il bigliettino in mano non poté far a meno di fissarlo e accertarsi di aver letto bene. Non c’era nessun dubbio, la calligrafia parlava chiaro: quel giorno sarebbe rimasta da sola.

Immersa completamente nella vasca da bagno piena d’acqua bollente, cercò di rilassarsi e pensare sempre meno a tutti quei problemi.

Jane trascorse tutta la giornata a ripassare capitoli che aveva imparato già alla perfezione. Non sapeva che altro fare visto che, di solito, la Vigilia di Natale, non si ripete assiduamente l’etica di Platone. Invece, quell’anno, andò così: invece di telefonare ai parenti per augurargli buone feste, spiegava a voce alta ogni passaggio e ogni concetto proprio con la scioltezza che avrebbero avuto due amiche nel parlare di shopping. Amiche. Quel giorno lo avrebbe dovuto passare a casa di qualcuno che le voleva bene, che la considerava più che la secchiona di turno. Si era arresa davanti a quel fatto: la sua bravura le si rivoltava contro ogni volta. Non l’avrebbe chiamata nessuno per farsi una passeggiata per le strade di una meravigliosa Seattle addobbata di luminarie natalizie. Dalla finestra della sua camera vedeva brillare la città come un gioiellino nella più lussuosa delle collane.

L’ora di cena era passata da un pezzo, aveva mangiato solo un po’ d’insalata. Fuori iniziò a nevicare.

Il grande orologio in soggiorno la avvertiva che mancavano dieci minuti a mezzanotte. Corse in camera sua, prese dall’armadio un grande piumone, una coperta, un cuscino e la fotografia. Tornò di nuovo in soggiorno, stese il piumone ai piedi del grande albero di Natale che aveva fatto la colf qualche giorno prima, ci si distese sopra poggiando la testa sul cuscino e si infilò sotto la coperta. Tra le mani aveva la fotografia della madre.

Mancavano cinque minuti a mezzanotte.

Con la manica del pigiama lucidò accuratamente la foto per osservare meglio il soggetto; quel soggetto ormai che sognava la notte, desiderava di giorno e si immaginava di continuo. Quel soggetto che sapeva che non avrebbe mai conosciuto. Quel soggetto che diventò tutto a un tratto appannato a causa delle lacrime che prendevano il pieno controllo degli occhi di Jane. Lacrime che non perdonavano, ma scendevano, inesorabili, per urlare una realtà troppo dura ma vera come il suo senso d’infelicità, della voglia che aveva di scappare da tutto e vera quanto la voglia di avere sua madre vicino, in quel momento.

Mancava un minuto a mezzanotte.

Jane si addormentò sotto l’albero pieno di luci colorate con l’immagine nella mente di lei e sua madre abbracciate.

Era mezzanotte.

Il mondo finalmente scartava i regali tanto attesi.

* * *

Più che l’essere rimasta a casa da sola, in ore che avrebbero dovuto essere spensierate ed esenti da qualsiasi problema legato alla solitudine, a rattristare Jane erano le scene che si svolgevano sotto casa sua, nel parco che, oltre a essere il più grande della città, era considerato anche il più bello.

Passò parte del pomeriggio in piedi, con una tazza di cioccolato bollente tra le mani infreddolite e con gli occhi che scrutavano varie zone del parco come avrebbe fatto qualcuno troppo curioso con un binocolo dalla sua camera, con le due lenti nascoste tra le pieghe della tenda per non essere scoperto.