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Le Regole Del Paradiso
Le Regole Del Paradiso
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Le Regole Del Paradiso

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Jane M.

La mano tremò leggermente e le si appannarono appena gli occhi; li strizzò e con la manica della felpa cercò di asciugarseli. Sua madre, Grace, era morta in un bruttissimo incidente quando lei era ancora troppo piccola per realizzare il tutto. In casa non si parlò mai dell’accaduto, tranne la prima e l’ultima volta in cui il padre la informò di come stavano le cose. Tua madre è morta in un incidente stradale, fu la sola spiegazione che ricevette quando iniziò a domandare insistentemente di lei.

Uscì dall’aula sospirando, si diresse verso il bagno e, quando spalancò la porta, trovò due ragazze che si stavano baciando.

“Che cazzo ti guardi, puttanella?” disse una interrompendo il bacio. La ragazza che parlò aveva soltanto una cresta di capelli rossi simile a quella di una gallina, al centro della testa, alta almeno trenta centimetri. Il resto del cranio era accuratamente rasato. In faccia aveva tre piercing e le braccia piene di tatuaggi. La sua amichetta non era da meno.

Jane abbassò lo sguardo, si diresse verso il lavandino e si sciacquò le mani sotto il gelido flusso d’acqua. Le ragazze continuarono a baciarsi indisturbate. Jane si asciugò le mani sui jeans e uscì: non si era ancora abituata, ma scene come quelle non erano insolite. Attraversando poi il corridoio per rientrare in classe si accorse che la porta della grande aula di musica era socchiusa e la cosa la lasciò più sorpresa rispetto al bacio tra le studentesse a cui aveva appena assistito: da quando studiava in quel liceo non era mai riuscita a vedere cosa ci fosse all’interno della stanza, dato che la porta rimaneva sempre rigorosamente chiusa. Nessuno poteva metterci piede, tolti la professoressa nonché musicista di fama mondiale Sarah Kattabel e i pochi allievi che ci suonavano. Anche se Jane moriva dalla voglia di varcare quella soglia e curiosare all’interno della famigerata stanza, non si azzardò a entrare. Un tempo non era così: potevano accedere tutti per assistere alle lezioni oppure alle lunghe prove che facevano gli alunni alcuni mesi prima del consueto concorso che si svolgeva poco dopo il rientro dalle vacanze natalizie. Anche se non straripava di iscritti, la possibilità di segnarsi al corso pomeridiano e quindi di partecipare al concorso era sempre stata concessa a tutti. Dopo il gran casino le cose cambiarono: una notte un paio di ragazzi riuscirono a entrare nella sala e le diedero fuoco. Scelsero proprio l’aula di musica perché c’erano sedie di legno, montagne di spartiti, pianoforti, altri strumenti in legno come i violini, le chitarre, quindi le fiamme si sarebbero moltiplicate più facilmente e il liceo, secondo loro, sarebbe andato distrutto. Dopo l’accaduto i dirigenti scolastici decisero di spendere una fortuna per ricostruire l’intera sala e ristrutturare gran parte dell’istituto. Quelle furono le ultime mosse disperate per cercare di restituire credibilità al liceo, ma ormai la brutta fama gli era piombata addosso e sarebbe stato difficile cancellarla.

Oltre che ricostruirla di nuovo, i dirigenti pensarono bene di vietare la sala ai ‘non autorizzati’ così da renderla più sicura e restituire l’immagine di un posto dove si dovevano seguire delle regole per mantenere sempre alto l’ordine. Tutto questo funzionò esclusivamente per la sala di musica, mentre il resto continuava ad andare sempre peggio.

* * *

Era difficile capire quel liceo.

Alcuni giorni teppisti e prede sembravano farsi la guerra solo scambiandosi occhiatacce e si limitavano, se proprio non si tolleravano, a qualche sopportabile spallata. In altri giorni invece la situazione si presentava con un’altra terribile faccia. Le guerre con gli sguardi si trasformavano in guerre di pugni, calci, sangue e grida. C’erano volte in cui la litigata finiva solo con qualche dente rotto, altre in cui qualcuno ci rimetteva una spalla, altre ancora si rischiava direttamente di morire come era successo qualche anno prima al preside, accoltellato; i giornali locali non facevano altro che utilizzare ingenti quantità d’inchiostro per raccontare quello che era successo per l’ennesima volta nel Liceo Maledetto, così soprannominato dai cittadini che lo conoscevano, o nel Liceo del Degrado, per usare l’espressione consacrata dalla stampa giornalistica.

Quando Jane Madison decise di rientrare in aula, si accorse che lungo il corridoio era in corso una delle solite risse. Si avvicinò e cercò di capire cosa stesse succedendo dato che non si era mai imbattuta in una scena di quelle proporzioni, nonostante si trovasse da ormai tre anni nel peggiore dei licei. Si era formata una specie di platea composta da decine e decine di ragazzi che avevano circondato i due compagni in lite. Gettando un’occhiata a quello che era diventato il ring, riconobbe immediatamente Adrian, uno dei tanti bulli che quel giorno se la stavano prendendo con Tim Hallen, il vincitore della gara di violino dell’anno precedente.

La metà dei ragazzi aveva il telefonino in mano e, tra urla e risate, filmava l’accaduto.

“Femminuccia, è vero che scopi il tuo bel violino?” gridò a gran voce Adrian. Tim era in ginocchio, lo guardava con aria terrorizzata e aveva le mani protese in avanti come se sapesse che stava per ricevere un calcio in faccia.

“Che fai ti infili nel culo la stecca o direttamente tutto lo strumento?” lo canzonò ancora Adrian mentre si sbatteva ripetutamente un pugno sul di dietro; i suoi amici erano piegati in due dal gran ridere, mentre altri sputavano addosso al povero ragazzo ormai completamente paralizzato dalla paura.

“Adesso ti devo cacciare in quel cervello da imbecille che non puoi prendermi a spallate come hai appena fatto altrimenti te la passi male, mi sono spiegato?” disse ancora Adrian, puntandogli il dito.

“Io non ti ho visto, ti ho già chiesto scusa!” gridò disperato Hallen.

Adrian gli sferrò un calcio sulla spalla destra scaraventandolo a terra. Dopo decine di grida da parte degli spettatori ormai fomentati dalla scena che finalmente iniziava a scaldarsi, Adrian decise di dare spettacolo e iniziò a sferrare altri calci al ragazzo che giaceva a terra indifeso.

“Sono o no un cazzo di campione?” domandò ai suoi amici alzando le braccia come un pugile.

“Sei grande, Adrian!” rispose uno di loro cercando di battergli il cinque anche se il suo idolo non lo calcolò minimamente.

“Alzati, pezzo di merda!” gridò il bullo mentre pensava a cosa avrebbe potuto fare per rendere unico il suo spettacolo. Tim ancora era a terra.

“Non... non respiro... smettila ti prego!” supplicò affannosamente mentre cercava almeno di mettersi in ginocchio. Tossiva e schizzi di sangue coloravano il pavimento.

“Che cosa cazzo sentono le mie orecchie? Era un comando o sbaglio?” disse mentre gli sferrava un pugno dietro la schiena. La faccia di Tim era incollata al pavimento.

Jane rimase immobile e fissava senza parole Adrian; non riusciva a capire perché quel senso di inadeguatezza verso la vita riuscisse a trasformare un semplice ragazzo in una furia che si scatenava contro uno degli studenti più calmi e intelligenti. Rimasta impietrita con i pensieri congelati su quelle domande senza risposta, Jane pregò per Hallen: pregò vivamente che non morisse.

A un certo punto qualcuno si accorse che lui stava per intervenire: la persona che mai nessuno si sarebbe augurato di far arrabbiare, uno dei criminali più giovani del quartiere e, senza ombra di dubbio, il più violento: Steven Taylor. Arrestato per detenzione illegale di sostanze stupefacenti, occasionale traffico di armi, era conosciuto per le atroci gesta grazie a cui si era guadagnato il primo posto tra tutti i teppisti e i bulli della zona. Occhi scavati, denti stretti, sguardo pesante, quasi due metri di altezza per 120 chili di peso, braccia massacrate da cicatrici e niente da perdere.

Non appena si avvicinò alla cerchia di persone, alcuni ragazzi si spostarono per farlo passare.

Quando Steven entrò nel ring improvvisato dai due ragazzi, Adrian lo guardò con stupore rendendosi conto che aveva conciato per le feste il secchione di turno convincendosi che non c’era nulla da temere e che il boss si sarebbe complimentato. Sarebbero diventati amici o magari, proprio se si voleva fantasticare, Steven avrebbe iniziato a temerlo sul serio, vista la violenza con cui aveva massacrato di botte Tim.

“Ciao, Steven!” disse il bullo facendogli un cenno con la mano.

“Adesso ci penso io” avvertì lui. Dopo quelle parole, si ruppe il silenzio che si era creato e non c’era una singola persona che non urlasse o che non fosse fuori di sé: finalmente lo avrebbero visto all’opera.

Jane si mise le mani nei capelli, esterrefatta e preoccupatissima per Tim. Era sicura che, con l’intervento di Steven, la sua fine sarebbe stata assicurata.

Le persone intente a godersi lo spettacolo sembravano moltiplicarsi senza sosta. Nessuno badava alla campanella, che suonò per la seconda volta avvertendo tutti che era arrivato il momento di tornare nelle aule perché stava succedendo qualcosa di irripetibile: neppure Jane, bloccata dalla paura e dalla preoccupazione, si accorse che il break mattutino era terminato e che le lezioni stavano per riprendere.

“Te lo lascio con piacere questo stronzetto!” gridò entusiasta.

Steven si avvicinò a Tim mentre alcuni ragazzi erano in delirio. A un certo punto si accovacciò, girò il ragazzo facendogli assumere una posizione supina e, con la mano sinistra, cercò di alzargli un po’ la testa mentre con la destra iniziò a schiaffeggiarlo delicatamente per svegliarlo dallo stato di semincoscienza.

“Che… Che succede…” disse finalmente Tim aprendo con fatica gli occhi.

Quando si ritrovò Steven davanti constatò che sarebbe stato meglio rimanere a terra a perdere sangue fino a morire del tutto.

“Io…” gli mancava la fatica anche per giustificarsi.

“Non parlare, hai preso botte ovunque e devi andare immediatamente in ospedale” sentenziò Steven. Alzò la testa e si rivolse a una ragazza con i capelli verdi.

“Razza di imbecille, chiama immediatamente un’ambulanza” ordinò. La ragazza interruppe il video che stava facendo e obbedì all’istante.

Steven si rivolse a un altro ragazzo e gli disse di togliersi la felpa e lanciargliela per metterla dietro la testa di Tim, come fosse un cuscino.

Nessuno urlava più. Nessuno stava capendo. Quello era davvero Steven Taylor?

L’energumeno si alzò lasciando Tim e si girò con uno sguardo assassino verso Adrian.

“Lo sai quando divento veramente cattivo?” tuonò lui avvicinandosi.

Adrian pregò di morire, ma il suo desiderio non venne esaudito.

“Io non…” ogni risposta sarebbe stata infinitamente inutile.

“La violenza, quella vera, si usa contro quelli che fanno violenza gratuita” sussurrò Steven, come se nessuno dovesse sentire.

Allargò le palpebre fino a rendere chiaramente visibile il colore bianco che faceva da sfondo ai suoi occhi scuri.

“Pagherai per essere stato violento contro chi non ti aveva fatto niente e a fartela pagare sarò io stesso” dichiarò Steven.

Il bullo cercò di fuggire, ma Steven gli corse dietro fino a raggiungerlo. Con un solo pugno sul cranio riuscì ad atterrarlo e, non appena lo vide sul pavimento, ci si buttò sopra con tutto il peso iniziando a strozzarlo; rese la sua stretta così forte da non far respirare più Adrian, il quale cercava di dimenarsi. Poi, come preso da un attacco di follia, Steven gli staccò una mano dal collo e iniziò a prenderlo ripetutamente a pugni ai lati del volto, all’altezza dei due orecchini. Le urla dei ragazzi si triplicarono e il sangue iniziò a schizzare sulla maglietta del teppista. L’incontro terminò con una tremenda gomitata che Steven sferrò sul volto del suo avversario. Alcune ragazze scapparono.

Adrian era immobile a terra.

Tim si era ripreso.

Steven aveva fatto giustizia.

Polizia e ambulanza irruppero poco dopo nel liceo.

Jane stava piangendo.

* * *

Alla fine Jane aveva sbirciato e visto la micidiale gomitata che Steven aveva sferrato al bullo di turno. Mentre tornava a casa pensò a quanto sarebbe stato più semplice se ognuno di loro avesse cercato di risolvere i problemi con serenità cercando di chiarire ogni cosa con il dialogo, invece sembrava che fosse la violenza a dover essere utilizzata per regolare i conti. Quando però arrivò davanti al suo cancello, guardò un attimo casa sua e si ricordò che certi problemi erano più grandi di mille soluzioni messe insieme e che a volte sperare era davvero una perdita di tempo. Tutto poteva cambiare, tranne la vita che era costretta a vivere ogni giorno; guardava i bulli e credeva fermamente che sarebbero potuti diventare persone degne di camminare a testa alta, con lo studio e l’impegno avrebbero raggiunto ottimi risultati. Aveva speranze persino per tipi come Adrian e Steven. Quando invece la figura del padre le si materializzava come un mostro nella mente, crollavano i grattacieli di ottimismo che si creava, ogni forma di illusione rivelava la propria faccia falsa e gridava la realtà: più giù di così non si poteva scendere.

Appena entrata, si fiondò in camera sua e sistemò lo zaino nell’armadio, si cambiò indossando una tuta grigia e si mise la sua felpa preferita. Passò davanti alla porta d’ingresso per andare in cucina quando comparve la colf che adorava e che considerava la sua unica vera amica: Jolie.

“Ciao, Jane!” disse lei chiudendosi la porta alle spalle.

“Buonasera, Jolie. Come stai?” domandò lei sorridendole. La colf guardando il salone in disordine ironizzò: “Per ora bene”.

Jane sorrise, ma sapeva che il lavoro in quella casa era veramente duro. Di solito a regnare era sempre il disordine; Ginger non si scomodava facilmente per sistemare la casa o per lo meno la sua stanza, i panni di Gary o addirittura quelli della figlia. Tanto c’è Jolie, diceva.

“Se vuoi ti aiuto volentieri” si offrì la ragazza. Jolie era piccolina di costituzione, il suo fisico non reggeva grandi sforzi e non poteva certo sottoporsi a fatiche prolungate; purtroppo il suo turno partiva dall’ora di pranzo fino all’ora di cena. Oltretutto per una misera paga. Jane sapeva molte cose su di lei perché ogni sabato, quando rimanevano sole in casa davanti a un buon film o sedute sul divano a chiacchierare, Jolie si lasciava andare a confidenze intime e si sfogava di tutti i problemi che l’assillavano.

“Ti ringrazio Jane, ma tu devi studiare, non perdere tempo qui con me!” esclamò lei.

“Ho già fatto, davvero”.

Jolie sorrise accettando il suo gentile aiuto; le ore del pomeriggio passarono più velocemente rispetto al consueto turno solitario perché mentre si occupavano delle faccende domestiche, le due amiche chiacchieravano del più e del meno, anche se Jane si limitava a rispondere alla grande quantità di cose che Jolie non si stancava di dire o di domandare.

“E così ho deciso di tagliarmi i capelli” raccontò la colf mentre ricordava il felice periodo degli anni ’80.

“Poi mi sono fidanzata con Guillaume e sotto la torre Eiffel mi promise che saremmo stati per sempre insieme, cosa che poi non si rivelò vera. Maledetti uomini. Fatta eccezione per Alexandre” quando pronunciò il nome del figlio smise un attimo di lavare i piatti e rimase a pensare a qualcosa che Jane intuì subito: se c’era ancora un motivo che la legava a quel lavoro, alla misera paga e a quegli sforzi immani era Alexandre. Aveva ormai otto anni e spesso Jolie non riusciva a comprargli i suoi giocattoli preferiti perché doveva usare quasi tutti i soldi che le dava Gary per pagare l’affitto. La guerra di ogni giorno consisteva nel dover andare avanti con le proprie forze, con pochissimi soldi e con nessun altro tipo di aiuto.

“Spesso quando lo porto al parco con gli altri bambini” proseguì, “ho paura che mi chieda un gelato, o peggio ancora le bustine di figurine che collezionano i suoi compagni” disse Jolie con le lacrime agli occhi. Si era lasciata andare tempo prima, ma mai fino a quel punto.

“Passerà questo brutto periodo, ne sono sicura. Abbi fede” rispose Jane cercando di farla sentire meglio, ma non funzionò.

“Ieri…” a Jolie morirono le parole in gola. Fece un bel respiro e guardò negli occhi Jane.

“Ieri mi ha chiesto perché solo lui in classe ha i libri fotocopiati” strinse i denti.

“I libri fotocopiati…” ripeté. La colf si asciugò gli occhi lucidi e sorrise.

“Ora basta con i pensieri tristi però, parliamo di cose belle!” disse alzando un po’ il tono della voce. “Cosa vogliamo mangiarci questa sera?”

Jane capì che era decisamente meglio cambiare discorso.

“Non lo so, ma qualsiasi cosa andrà bene!” rispose imitando il suo tono.

Finito il pomeriggio di pulizie, apparecchiarono e per cena decisero di mangiare carne di manzo ben cotta e patatine fritte.

“Questo non farà bene al nostro fegato” scherzò Jane guardando il suo piatto pieno di roba.

“Stasera non badiamo a nessuna dieta” informò Jolie non appena mangiò la prima patatina. Il discorso che venne affrontato fu senz’altro più leggero e più facile da gestire rispetto a quello preso di petto poco prima. Quando Jane si trovava con Jolie le sembrava tutto diverso; la bestia di sabato non c’era mai e questo significava che potevano godersi la serata, chiacchierare dopo aver cenato, guardarsi un film per poi andare a dormire anche se era più tardi del solito. Con Gary non era possibile rimanere in una stanza con la luce accesa una volta scoccate le ventitré: persino Cenerentola aveva a disposizione un’ora in più nella quale fare baldoria.

Il film era appena finito e quando Jane stava per alzarsi dal divano si accorse che Jolie aveva poggiato la testa sul bracciolo e stava dormendo mentre la luce del televisore, che in quel momento proiettava stupide pubblicità, le inondava il volto: finalmente poteva agire indisturbata. Sorridendo prese la piccola radiosveglia che stava su una delle mensole del salone e la impostò perché suonasse un quarto d’ora dopo. Andò in camera sua e, all’ultimo piano, iniziò a cercare tutti i suoi vecchi libri di scuola; ce n’era uno di geografia, un altro di aritmetica, un altro ancora di scienze. Si munì di una busta e ci mise dentro i volumi scolastici che portò giù in cucina. Sul foglietto bianco disegnò una freccia, lo girò dall’altra parte e scrisse: “Questi sono per Alexandre, un mio piccolo regalo”.

Tornò in salone e coprì Jolie senza svegliarla; infine prese la radiosveglia e la mise accanto al foglietto in maniera tale che Jolie avrebbe visto il messaggio. Sapeva che non avrebbe frainteso quel gesto e sapeva anche che il suo aiuto le avrebbe fatto piacere; sperava che in questo modo la loro amicizia sarebbe stata più forte e immaginava anche che Jolie sarebbe stata contentissima di poter portare i libri al figlio. Libri veri.

* * *

Jane uscì dal liceo pensando a come poteva essere andato il test di matematica. Cercò di ripercorrere tutti i passaggi che aveva fatto e i risultati che erano usciti alla fine degli esercizi e non le sembrò di aver commesso gravi errori. Si sforzò di focalizzare l’attenzione sul terzo esercizio, quello più difficile, ma non fece in tempo a terminare la sua analisi che Ashley le sbarrò la strada; le braccia conserte e l’aria infuriata fecero capire a Jane che ce l’aveva con lei: il sangue divenne lava.

Cercò di evitarla, ma si era già capito cosa stava per succedere. Ashley avanzò impaziente verso di lei.

“Allora brutta troia, cosa hai da dire a tua discolpa?” la voce era troppo calma, troppo sicura. I suoi occhi flagellavano quelli della povera ragazza. Dentro, quella lava, diventava sempre più densa e incandescente.

“Ashley, non è stata colpa mia” disse Jane con un filo di voce.

Durante il test, dopo vari tentativi della reginetta di chiedere a Jane i risultati degli esercizi, la professoressa Fitcher aveva spostato di banco Ashley allontanandola dall’unica persona che l’avrebbe potuta aiutare.

“Non mi hai aiutata quando te l’ho chiesto, la devi pagare!”

L’ultima parola della frase fu pronunciata talmente forte che riuscì a rapire l’attenzione di molti ragazzi. Si formò il solito cerchio. Stessa scena, stesse facce.

“Ma era senza voto, e poi io....” non ci fu il tempo materiale per finire la frase. Partì uno schiaffo talmente forte che la faccia di Jane si girò di scatto verso destra a una velocità incredibile. Gli studenti intorno esultarono gridando come forsennati. La ragazza più sexy in azione mentre ne dava di santa ragione alla più secchiona dell’istituto.

Jane, a testa bassa, mise la sua mano sulla guancia colpita come per ridurre il dolore.

“Questo è solo l’inizio” gridò Ashley con tutto il fiato che aveva in gola. Le sue amiche, appena capirono che con Jane avrebbero vinto di sicuro, decisero di aiutarla immobilizzando la sua avversaria. Ashley le si avvicinò e iniziò a schiaffeggiarla ripetutamente. Era esagerata la violenza che metteva in quei colpi. Le amiche che la tenevano non potevano non ridere. Dagli schiaffi e dai pugni, Ashley passò ai calci. Gliene diede uno in pancia talmente forte che Jane cadde a terra liberandosi dalla stretta delle ragazze. Nessuno interveniva. Jane era a terra intimorita. Sentiva dolore ovunque. Ashley si avvicinò e le assestò l’ultimo calcio su una gamba, poi le sputò addosso.

“Sei una perdente!”

Si sistemò i capelli scompigliati e si allontanò con le amiche.

Jane rimase qualche minuto sull’asfalto dolorante e sola.

* * *

Era passata una settimana da quel traumatico scontro fuori dalla scuola.

Per sette giorni Jane rimase a letto con dolori acuti e martellanti che partivano dalla pancia fino ad arrivarle in testa e nonostante le condizioni della figlia, il signor Gary non se ne preoccupò più di tanto: era sempre fuori casa e durante quei giorni non degnò Jane di un minimo di attenzione. Stranamente però, quella sera, il capofamiglia si accorse di qualcosa.

“Che cazzo hai fatto all’occhio destro?” lei abbassò lo sguardo verso la minestra fumante davanti a sé. Non aveva il coraggio di dirgli la verità.

“Sono caduta” rispose.

Il signor Gary, non appena sentì quella bugia, assestò un colpo fortissimo al tavolo facendo fuoriuscire qualche goccia di minestra dai piatti.

Ginger mangiava tranquillamente, come se fosse una normalissima chiacchierata tra padre e figlia.

“Ascoltami brutta troietta” disse lui con voce calma e fredda, “a me non devi raccontare le stronzate, quello è un pugno e se te lo hanno dato significa che te le sei meritato”.

Era inutile ribattere o cercare il modo di farlo ragionare. Era pazzo.

Jane se ne rimase lì, a testa bassa, con le sue ‘colpe’ e la sua ingiusta sgridata giornaliera. Lei non poteva mettersi contro il padrone di casa, il padrone della sua vita e della sua libertà; ogni sua decisione era legge, ogni suo ordine non poteva essere discusso in alcun modo. Quando Gary assumeva atteggiamenti fortemente aggressivi, Jane si ripeteva in continuazione che quell’agitazione, quella rabbia che sembrava non finire mai e quella cattiveria, erano i risultati della morte di sua madre; non avendo più una moglie amorevole, servizievole e meravigliosa come lo era sempre stata lei, la bestia, secondo Jane, avrebbe perso completamente il lume della ragione, cercando quindi di crearsi un personaggio cattivo e temibile solo per farsi scudo davanti al mondo che lo guardava con aria di sfida, come se tutti lo volessero mettere sotto esame, per valutare giorno dopo giorno la sua resistenza ad una quotidianità difficile da vivere. Forse riusciva anche a capirlo; doveva essere dura scivolare tra le lenzuola di un letto vuoto e addormentarsi senza tenere la mano di nessuno, senza abbracciare la propria donna. Jane, prima che arrivasse Ginger, notava che la solitudine di Gary era presente in ogni momento della sua giornata. Ogni volta che veniva sgridata, senza farsi notare, cercava di annullare le sue parole e abbassare al minimo il volume dei suoi insulti e delle parolacce che avrebbe voluto lanciargli contro per concentrarsi solo nella lettura dei suoi occhi e cercare di capirne tutti i segreti. In tutti i modi affondava per brevi attimi il suo sguardo nel suo, ma quello che riusciva a vedere non era altro che la costituzione dell’occhio umano che conosceva già alla perfezione: la superficie esterna dell’occhio formata per il 93% dalla sclera, l’iride, la membrana vascolare, la pupilla, la quale permetteva alla bestia, come a qualsiasi altro essere umano sulla faccia della terra esente da tutti i tipi di malattie all’apparato visivo, di vedere grazie all’entrata della luce che essa lasciava passare all’interno del bulbo oculare. Si sarebbe dilatata in assenza di luce e si sarebbe ristretta se la luce fosse stata troppa: sapeva benissimo che quel processo si chiamava miosi e sapeva altre cose, altri nomi tecnici, altre informazioni, sapeva tutto tranne che leggere con l’anima quegl’occhi così interessanti. Cercava in ogni modo di chiamare con un nome specifico quella strana luce che le veniva mentre la sgridava, ma proprio non ci riusciva: voleva aggettivare il processo di metamorfosi che subiva il suo volto quando iniziava a sbraitare, ma non era capace; non sapeva neppure se lui fosse in grado di assumere altre espressioni facciali, come la più semplice che la natura avesse mai potuto inventare, ma anche la più complessa e difficile da compiere per l’uomo: il sorriso.