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E fece agli altri segno di immobilizzarlo.
«A quanto ammonta la taglia?» domandò un altro ancora.
«Non c’è nessuna taglia, ma solo la promessa che Majone saprà ricompensare a dovere chi gli porterà l’assassino di quell’eunuco. È una sua questione personale!»
Alessio non comprendeva il volgare latino utilizzato da quegli uomini e dunque, vedendosi afferrare per le braccia, spiegò:
«Io sono un uomo di religione che è stato trattato come non merita… voi, giovane, ricambiate col male la mia onestà!»
«Voi siete senza dubbio un uomo probo, che come me si è fatto nemico un uomo del Re. Tuttavia, noi che viviamo dell’elemosina del mare siamo anche dei poveracci e dobbiamo guadagnarci da vivere. Questa notte un grosso pesce si è gettato di sua volontà dentro la rete; dovremmo lasciare andare questo regalo del Signore?» rispose Vittore.
«Non ci guadagnerete uno scifato… non valgo niente io!» urlò Alessio, recalcitrando mentre quelli lo esortavano a camminare.
«Questo lo stabilirà l’Ammiraglio.»
Da tutto ciò era evidente che il testimone della locanda, benché fosse rimasto nell’anonimato, avesse raccontato tutto all’autorità competente, e che quest’ultima si fosse rivolta pure ai civili e agli irregolari per raggiungere un rapido successo.
D’ogni modo, il primo ad essersi accorto che Alessio somigliava alla descrizione dell’assassino del gaito Luca, si parò davanti al catturato e fece riflettere:
«Da quando in qua facciamo i favori a Majone?»
«Quando vendi il tuo pesce, Mamiliano, ti curi di chi sia la mano che ti paga?» chiese Vittore.
«L’Ammiraglio è un uomo senza scrupoli, che non ha rispetto per la gente e né tanto meno per il Re.»
«Si lamenti Guglielmo allora. Se è vero, come si dice, che costui ha provato a soffiargli il trono, lo faccia esiliare… E se è vero, come si dice, che costui governi nel letto della Regina più del Re, allora lo faccia bruciare vivo sull’argine del fiume. Per quanto mi riguarda l’Ammiraglio ha dimostrato di avere a cuore più gli interessi dei commercianti e dei mercanti che quelli dei feudatari. Non è anche questo che i nobili gli rimproverano?»
«Guglielmo teme perfino il suo ministro, questa è la verità, e non è capace nemmeno di impedire che Majone gli rubi la moglie. Ricordo bene quando Ruggero condannò al rogo il suo Ammiraglio, quel Filippo di Mahdia che tramava segretamente con i maomettani d’Africa… Se Guglielmo fosse stato appena la metà di ciò che era suo padre avrebbe per lo meno fatto arrestare Majone, soprattutto dal momento che su di lui pendono accuse simili a quelle mosse contro il suo predecessore. Forte è giunto il grido dei cristiani di Mahdia, donne e bambini massacrati senza pietà dalla furia di quei cani infedeli! Ho scambiato due parole con un nobile di fuori città e lui mi ha detto che Majone ha abbandonato volutamente quella gente al proprio destino. Amici, credete a me, l’Ammiraglio è in combutta con i saraceni d’Africa e protegge gli eunuchi del Re, i quali tramano la rivolta per riconsegnarci agli emiri e ai califfi.» spiegò un altro tra i compari del porto.
«Questi argomenti lasciali al tuo nobile di fuori città; costui avrà sicuramente le giuste argomentazioni per difendersi. Tu invece sei un poveraccio… e i poveracci, caro Duccio, devono parlare da poveracci! Il nostro unico ideale è quello di riempirci le tasche.»
«Vittore, è un discorso da poveracci dire che costui seduce le nostre sorelle per toglier loro l’onore?» aggiunse sarcastico Mamiliano.
«Se qualcuno dei presenti ha una sorella disonorata da quel tale, lo dica adesso e lasceremo andare questo povero cristo.»
«Le giovani figlie dei nobili ribelli sconfitti… lo sanno tutti, Vittore… E poi c’è la storia della sorella del genovese…» stava per raccontare Mamiliano.
«Il genovese non è dei nostri!» lo interruppe Vittore.
«Il genovese fa parte della corporazione dei mercanti di stoffe. E riguardo alle figlie dei nobili, Mamiliano, so bene che sono storie vere; ma a noi cosa ce ne importa?» concluse infine.
Quel breve dibattito si chiudeva lì. In realtà menti più colte avrebbero potuto addurre accuse ben più concrete all’operato di Majone, ma persi tra il “non ci riguarda” e il “per sentito dire” decisero che avrebbero consegnato lo straniero all’Ammiraglio del Regno così da riscuotere la ricompensa.
«Dove mi portate?» chiese Alessio.
«Pare che Majone sia disposto a pagare per mettervi le mani addosso.» gli rispose Mamiliano, sin dall’inizio il meno propenso alla cosa.
Alessio, che aveva deciso di accettare quella missione per avere redente le sue colpe, che sarebbe stato disposto pure a morire per espiare il male che aveva commesso, adesso cominciava a provare nostalgia per la vita che stava per lasciare. Tuttavia, coerentemente alla sua prima decisione, non disse più nulla e con rassegnazione si fece condurre da quegli uomini sino alla tana del lupo.
Percorrendo l’ampia via Marmorea, incontrarono un paio di guardie della ronda. Uno di quei soldati corse subito verso la chiesa dove spesso si intratteneva a pregare Majone di Bari, per avvisarlo dell’avvenuta cattura. Ogni uomo in armi era stato infatti istruito che avrebbe dovuto condurre il ricercato direttamente al cospetto dell’Ammiraglio, ovunque egli si trovasse.
Non erano ancora giunti all’altezza dell’incrocio da cui si imbocca la via per la chiesa edificata da Majone – guarda caso costruita proprio accanto a quella di Giorgio d’Antiochia, il suo più illustre predecessore – che videro arrivare la guardia inviata prima.
«Al palazzo dell’Arcivescovo, presto!»
Ripresero perciò a percorrere la strada principale che divide il Cassaro, in direzione del Palazzo Reale.
Dopo un po’ passarono sotto l’abitazione di Giordano di Rossavilla e Alessio non poté fare a meno di pensare a come tutto fosse cominciato con l’inganno di quell’uomo e con l’illusione di ritrovare Zoe. Questa volta tutto taceva e Alessio sperò che il suo nobile rivale lo seguisse nella morte quella stessa notte, non riprendendosi mai più dalla sua malattia.
Giunti sulla piazza della Cattedrale svoltarono a destra, e qui, proprio sull’incrocio, aspettarono che la guardia entrasse nel palazzo dell’Arcivescovo, sito sul retro della grande chiesa, per avvertire l’Ammiraglio. Venne quindi fuori Majone, il quale, tutto concitato, si avvicinò agli uomini che tenevano in custodia Alessio. Vittore e Mamiliano trattenevano ancora il prigioniero per le braccia quando l’Ammiraglio lo prese per il mento e lo indusse a guardarlo negli occhi. Sorprendentemente, lo stupore colse Alessio più di Majone. Adesso il maestro d’arte era sicuro che sarebbe morto e probabilmente anche quella stessa notte. Ecco infatti svelata l’identità dell’uomo che lo aveva aggredito alla locanda!
La notte in cui era stato ucciso il gaito Luca, Majone si trovava al piano superiore di quello stesso edificio ed era in compagnia di una donna, presumibilmente della stessa signora affidata alla cura dell’eunuco, ovvero la Regina. L’Ammiraglio temeva la testimonianza di Alessio più di quanto Alessio temesse la testimonianza dell’Ammiraglio. Le voci sulla tresca tra il primo uomo del Re e la Regina erano diffuse in tutto il Regno, ma, di fronte ad una prova del genere, per certo neanche l’indolente Guglielmo sarebbe rimasto indifferente.
Alessio strizzò gli occhi e spalancò la bocca per la meraviglia di quell’incontro. Majone invece incattivì lo sguardò e digrignò i denti.
«Che questa bestia non viva oltre questo momento!» sentenziò, indicando in tal modo alle sue guardie quale fosse il prossimo ordine da portare a termine.
Strapparono dunque Alessio dalle mani di Vittore e lo condussero per altri luoghi. Lo sfortunato artista passò ora dinanzi all’ingresso del palazzo dell’Arcivescovo e qui, vedendo stazionare sulla strada tutto il seguito dell’Ammiraglio e credendo che questi avessero a che fare con Ugone, il prelato a capo di Palermo, supplicò:
«Signori, vi prego, lasciatemi parlare col Vescovo; sono anch’io un uomo di religione!»
Quelli lo fissarono con apparente indifferenza e tornarono a guardare davanti a sé, verso Majone. Intanto alle spalle di questi si udiva il rumore delle sbarre che la servitù stava mettendo alle porte del palazzo, richiudendo l’ingresso con un’inconsueta premura.
Alessio, che di fronte alla morte non voleva più morire, puntò i piedi sui basoli della strada e gridò:
«In nome di Dio, aiutatemi!»
«Non date peso a quel greco!» urlò Majone, rivolgendosi ai suoi sulla porta e preoccupato che il condannato ne dicesse una di troppo.
Adesso Alessio si concentrò sulla lama della spada che già una delle guardie aveva sguainato. Pensò che morire trafitto fosse meno doloroso e infamante che morire impiccato. Ora si attaccava a quest’unica consolazione, mentre uno dei due soldati indicava all’altro l’imbocco di una stradina, lì dove il condannato sarebbe stato ucciso.
«Signore, che la morte copra i miei peccati non redenti!» esclamò il maestro d’arte, guardando il cielo.
E poi, rivolgendosi alle guardie, pregò:
«Vi chiedo solo di avere una sepoltura…»
Ma quelli, saraceni di lingua araba, non compresero nulla, né le parole di Alessio né che da quella notte, quella del 10 novembre 1160, tutto sarebbe cambiato.
PARTE II – LA MANO DI MALACHITE
Capitolo 8
1156 (551 dall’egira) Balermus e dintorni
La folla si stringeva compatta attorno alla scena, senza dir parola e senza commentare. In molti erano infatti i saraceni che osservavano silenziosi, oltre le spalle delle guardie reali, oltre quella coltre di fumo che si innalzava al cielo congiuntamente alle loro preghiere. Sulla sponda sinistra della foce del wādī al-‘Abbās[27 - Wādī al-‘Abbās: nome del fiume Oreto durante il periodo arabo.], appena fuori dalle mura della città, quel giorno del 1156 il boia aveva appiccato un fuoco che non sarebbe durato fino a sera… ma che tuttavia avrebbe continuato ad ardere per anni nel cuore di Amjad.
Per ogni giovane islamico non esiste ricordo d’infanzia più importante del khitān[28 - Khitān: circoncisione rituale islamica.], e per Amjad, che immaginava la circoncisione come una sorta di festa in suo onore, quel giorno della sua fanciullezza sarebbe stato ancor più cruciale.
Suo padre era appena morto in battaglia mentre combatteva nell’esercito di Re Ruggero contro l’Imperatore d’Occidente. Sua madre se n’era andata poco dopo, dando alla luce la piccola Naila. E così Amjad e Naila erano finiti nelle mani dello zio, un uomo tanto povero quanto spietato. Questi, dichiarando di non poter togliere il pane dalla bocca dei figli per darlo agli estranei, aveva infatti deciso che avrebbe coperto le spese per crescere la piccola Naila con i proventi derivati dalla vendita di Amjad. L’aveva dato ad un mercante e questi, valutando che il bambino era bello, fine e dalla voce aggraziata, l’aveva rivenduto agli agenti del Palazzo del Re. Ed ecco arrivare quel giorno, quando all’età di nove anni era stato convocato per il khitān. Amjad non poteva saperlo, ma, in luogo del suo prepuzio, i medici di corte stavano per rimuovere ciò che gli avrebbe impedito d’ora in poi di essere considerato un uomo. Amjad era stato evirato, sfregiato nella sua virilità, affinché potesse comparire nelle stanze private dell’harem. In seguito, poche settimane dopo, aveva subito anche il battesimo, ricevendo un nuovo nome: Mattia, come l’apostolo chiamato a sostituire il traditore di Cristo.
Per un ragazzino di nove anni la vita di corte, con i suoi sfarzi e la sua opulenza, esercitava sicuramente un fascino irresistibile. Quando Amjad accarezzò le sue morbide vesti di seta, quando assaggiò la prelibatezza dei cibi del Re, quando si ritrovò a maneggiare l’oro e i gioielli destinati alle concubine, si convinse che la sua vita fosse migliorata.
Verso i quindici anni cominciò ad attirare le attenzioni degli uomini che gravitavano attorno alla figura del Re. I suoi modi raffinati e la sua pelle liscia costituivano una sfiziosa deviazione rispetto alle usuali donne di malcostume. Così Amjad crebbe in fama e potere, e ben presto, poco più che ventenne, giunse nelle camere della nuova principessa, una ragazza sedicenne di nome Margherita, proveniente dalla Navarra e data in moglie all’erede Guglielmo. Di Margherita ne divenne presto il confidente e, quando lei venne incoronata Regina, rifulse parte di quella gloria divenendo uno degli eunuchi più potenti e vicini al Re. Per Amjad, tuttavia, esisteva pure un’altra donna, una che in cuor suo destava quel sentimento d’amore che per forza di cose non poteva essere accompagnato dalla passione. E proprio perché Amjad non sapeva cosa fosse la passione per una donna, proprio perché non aveva altro a cui attaccarsi se non all’affetto di sangue, che cominciò a legarsi morbosamente alla sua giovane sorella. La tolse dalle grinfie dello zio, il quale per certo l’avrebbe venduta una volta raggiunta l’età più conveniente, e la fece trasferire in un ricco appartamento del Cassaro, nel cuore di Palermo. Diede così a Naila comodità, servitrici e opportunità come mai lei avrebbe potuto avere. Inoltre, recarsi settimanalmente in casa della sorella divenne per lui più che una ragione di vita. Amjad amava Naila e quasi ne idolatrava la bellezza; mai e poi mai avrebbe permesso a qualcuno di sfiorarla.
Se da un lato Amjad aveva dato il suo cuore a Naila, dall’altro aveva riservato la passione agli uomini. Ne esistevano molti nella vita dell’eunuco, ma non con tutti aveva voluto abbandonarsi ai vizi della carne, dal momento che, se l’avesse fatto, quello strumento del potere che era il letto, si sarebbe trasformato in un semplice oggetto di piacere privo di scopo. E così, diventato più potente di molti degli uomini del Re che avevano favorito la sua scalata, adesso si sarebbe dato solo a chi avrebbe potuto renderlo influente anche al di fuori del Palazzo, così che la propria ascesa superasse il limite imposto dall’esclusività della corte.
L’occasione sembrò presentarsi quando a Palermo giunse da Sfax[29 - Sfax: città costiera dell’Ifrīqiya (Africa), ubicata nell’attuale Tunisia e chiamata in arabo Safaqīs.] un certo saraceno, un uomo ormai di una certa età che per brevità venne appellato col nome di Forriāni. Costui aveva ricevuto la nomina di ‘amil[30 - ‘Amil: letteralmente “agente”. Incaricato governativo che riscuoteva la jizya e le altre tasse.] della sua città dal Re di Sicilia, ma, dichiarandosi con umiltà troppo vecchio per governare, aveva passato le redini al figlio. Si era dunque recato a Palermo come ostaggio a garanzia dalla fedeltà del suo luogotenente ed erede. Forriāni era ovviamente un uomo potente e riverito in tutta l’Africa siciliana, e farselo amico avrebbe significato avere una base sull’altra sponda del Mediterraneo, così da provare ad approntare un qualche affare commerciale privato. Essendo comunque costui anche un uomo religioso, ligio e scrupoloso dell’ortodossia coranica, Amjad comprese presto che i metodi che gli erano tanto cari non avrebbero funzionato. Nacque tuttavia un’amicizia, un sodalizio in cui Forriāni parve interessato a voler strappare Amjad dal peccato, dall’avidità e dalla fede cristiana. L’‘amil di Sfax era una persona carismatica e persuasiva, e così, molto presto, riuscì a redimere Amjad dal peccato e a ridestare in lui i precetti religiosi d’infanzia. Fece leva in modo particolare sul sopito sentimento d’identità razziale del giovane, quel suo essere saraceno che era stato cancellato con una banale e imposta aspersione d’acqua sul capo. Inoltre lo fece riflettere sul fatto che fare gli interessi dei saraceni avrebbe significato favorire la sua amata Naila, in quanto lei non aveva mai smesso di far parte della stirpe dei mori di Sicilia. E così, alla fine, guidato nei gesti e nelle parole da Forriāni, nascosti nelle stanze dell’ospite, Amjad tornò ad inchinarsi verso La Mecca e a recitare la shahādah[31 - Shahādah: testimonianza di fede islamica che corrisponde alle parole “Testimonio che non c’è divinità se non Allah e testimonio che Maometto è il Suo Messaggero”.]. Il giovane eunuco riscopriva in tal modo di avere un Dio e si attaccava sempre di più ad un padre; tale divenne Forriāni per lui.
Sennonché, giunto il 1156, Omar, figlio e sostituto dell’‘amil di Sfax, volle ribellarsi al giogo di Guglielmo, e come gesto emblematico di tale decisione fece massacrare i cristiani della città, non risparmiandone neppure uno.
La notizia giunse rapida a Palermo, così come rapida fu la convocazione a corte del garante di Omar… ovvero suo padre… ovvero Forriāni.
Fu allora che Amjad, immaginando quali sviluppi si sarebbero potuti configurare per il suo mentore e padre spirituale, volle incontrarlo prima che comparisse davanti a Guglielmo.
Forriāni se ne stava presso uno dei giardini del Re, in quel Palazzo della Favara[32 - Favara: palazzo reale in stile islamico, fatto edificare dall’emiro Ja’far e riadattato da Re Ruggero. Il suo nome risale all’arabo “Fawwara”, che significa “fonte che ribolle”. Oggi è conosciuto anche come castello di Maredolce ed è ubicato ai piedi del monte Grifone, ad est dell’antico nucleo di Palermo. Era ritenuto una delle residenze più raffinate dei sovrani normanni e i suoi giardini erano famosi per bellezza e splendore.] tanto caro agli Altavilla. Qui rimaneva sorvegliato a vista, benché a distanza, dalle guardie reali. Fissava da un’ora il cielo e l’orizzonte, perso sotto un palmeto e andando e venendo con le mani dietro la schiena.
«Mio padre e amico, dimmi che le notizie che giungono da Safāqis sono mendaci.» esordì Amjad, tutto concitato e preoccupato.
«È tutto vero, fratello mio.»
«Che la slealtà di tuo figlio perisca con lui!»
«No, Amjad, no… Omar mi condanna a morte, è vero, ma consacra la mia e la sua anima ad Allah.»
«Maestro, tu parli dell’opera di tuo figlio come del più eccelso degli atti che un credente debba compiere.»
«È così, Amjad. Credi che per Omar sia facile sapere che suo padre è come se fosse già morto?»
«Se ha fatto quel che ha fatto è perché egli non si cura dell’uomo che l’ha concepito…»
Forriāni riprese a camminare e, portando uno strano sorriso sul viso, cominciò a spiegare:
«Potrebbe mai un padre sacrificare un suo figliolo?»
«No, Maestro.»
«E potrebbe mai un figlio sacrificare suo padre?»
«Se io fossi stato tuo figlio non l’avrei mai fatto.»
«Ma se io te l’avessi chiesto, Amjad… se ti avessi fatto giurare per il sangue che ci lega di non curarti di me e di agire per il bene dell’Islam?»
«No, Maestro, io non l’avrei fatto.»
Forriāni si fermò e, mettendo le mani sulle spalle del suo giovane amico, gli disse:
«Hai ancora tanto da imparare, Amjad caro… Non esiste opera più meritoria del martirio, e per Omar questo dono è il bene più grande che potesse farmi.»
Dunque Amjad capì l’essenza di quel discorso.
«Hai chiesto a tuo figlio di ribellarsi al Re e di non curarsi di te?»
«Glielo feci giurare prima di partire.»
«Al cuore di tuo figlio è stato legato il peggior fardello che un uomo possa sopportare!»
«Ho addestrato bene il mio ragazzo e per lui sarebbe un fardello maggiore dover portare il disonore per aver disubbidito alla mia parola.»
«Quanto coraggio, Maestro mio!»
«Intollerabili sono le voci che giungono dall’Ifrīqiya[33 - Ifrīqiya: regione corrispondente all’attuale Tunisia e ad alcune parti dell’Algeria e della Libia. Letteralmente “Africa”, essendo il termine derivato da ciò che i romani e poi i bizantini definivano Africa (provincia d’Africa).]. I contingenti cristiani del Re di Sicilia non mostrano alcun rispetto per la razza nostra, e numerose sono le voci delle angherie e dei soprusi che sono costretti a subire le donne e i bambini delle città sulla costa. Come potremmo continuare a lavare le nostre mani con l’acqua della purificazione se intanto la nostra coscienza è sporca dei patti conclusi con questi infedeli? Come potremmo continuare ad inchinarci per la ṣalāt[34 - Ṣalāt: la preghiera canonica islamica, recitata obbligatoriamente dai musulmani osservanti cinque volte al giorno ed anticipata dall’adhān (il richiamo alla preghiera) del muezzin.] se intanto abbassiamo il capo di fronte a questi miscredenti? Non possiamo permettere che la condizione dei nostri fratelli divenga come quella dei credenti di Sicilia. Palermo è ancora piena di minareti, è vero… e si ode ancora il canto del muezzin; ma a quale prezzo? Ho conosciuto un fratello proveniente dalle campagne… questi piangeva mentre mi narrava di come i suoi figli siano stati pronti a rinnegarlo pur di abbracciare la religione dei cristiani, una fede ben più conveniente e rimunerativa da queste parti. I re di Sicilia sviano i fedeli con il fascino dell’oro, ma nei villaggi i baroni non mostrano sempre la stessa condiscendenza; pur di non incorrere nello svantaggio sociale si preferisce allora l’abiura della retta via. È giunto il momento, Amjad, e così ho pure mandato a dire ad Omar.»
L’eunuco della Regina prese a piangere, commosso da tanto coraggio e col cuore spezzato per via della sicura condanna a morte del suo mentore.
Più tardi Guglielmo chiese a Forriāni di richiamare all’ordine il figlio, ma, com’è facile immaginare, l’anziano ‘amil negò l’intromissione. L’ostaggio, un tempo consegnatosi volontariamente come prigioniero, venne quindi rinchiuso e messo ai ceppi.
Dato che Forriāni dimostrava di non tenere per nulla alla sua vita, Gugliemo pensò allora che le armi potevano ancora essere evitate facendo leva sull’amore che un figlio dovrebbe nutrire per suo padre. Non era certo l’impressione del sangue che una guerra comporta a far tentare l’ultima a Guglielmo, ma il costo di un nuovo conflitto, qualcosa che in quel momento non poteva permettersi, impegnato com’era in Terraferma a sedare la rivolta dei baroni ribelli e a respingere la coalizione del papa e dell’Imperatore d’Oriente. In barba quindi alla giustizia di cui erano meritevoli le vittime cristiane mietute dal nuovo carnefice saraceno, Guglielmo mandò un messaggero fino a Sfax, recando minacce come ricompensa alla disubbidienza e promesse come premio ad un nuovo giuramento di sottomissione. Ma Omar, avendo già informato gli amici del padre che la volontà di questi era il martirio, ne organizzò il funerale, sorreggendo una bara vuota e mettendola in bella mostra sulla spiaggia, affinché il messaggero dei siciliani sulla barca potesse recepire una risposta esplicita.
Fu così che al ritorno dell’inviato del Re a Palermo, Guglielmo decise di attuare la punizione per colui, che a suo discapito, aveva deciso di tradire i giuramenti. E fu così che ebbe luogo l’esecuzione descritta poc'anzi, quel rogo che Amjad contemplò con orgoglio e con la promessa che la causa dei saraceni di Sicilia sarebbe stata onorata fino alla fine, così come Omar stava onorando quella dei credenti d’Africa.
Capitolo 9
Inverno 1159/1160 (554 dall’egira) Balermus
Nel giro di pochi anni tutte le città d’Africa appartenute ai siciliani finirono per ribellarsi. A Sfax seguirono Gerba[35 - Gerba: isola dell’Ifrīqiya, oggi ubicata nella Tunisia meridionale.], Tripoli d’Occidente[36 - Tripoli: in arabo Ṭarābulus. Città storica dell’Ifrīqiya ed attuale capitale della Libia. Chiamata anche Tripoli al-Gharb o Tripoli d’Occidente per differenziarla dall’omonima città libanese.] e molte altre. All’ingresso del 1159, di quell’impero che era stato il simbolo della grandezza di Ruggero, rimaneva solo Mahdia[37 - Mahdia: città costiera dell’Ifrīqiya, ubicata nell’attuale Tunisia. Antica capitale della dinastia ziride, chiamata in arabo Mahdiyya.]. Tuttavia né Omar di Sfax, figlio di Forriāni, né gli altri capi locali che si erano scossi di dosso l’ingombrante giogo dei cristiani, riuscirono a mantenere a lungo il loro potere. Se alcuni di questi infatti furono in grado di resistere al contrattacco dei siciliani, non poterono nulla contro Abd al-Mu’min, califfo degli almohadi[38 - Almohadi: dinastia berbera di religione musulmana che dominò il Maghreb e la Spagna dal XII al XIII secolo.]. Questi giunse dall’Andadus[39 - Andalus: nome con cui gli arabi chiamavano la Spagna musulmana. Il termine si è conservato nel nome della regione più a sud della penisola iberica.] e dal Maghrib[40 - Maghrib: in arabo letteralmente “occidente”. Oggi il termine indica tutta la metà del Nordafrica occidentale, ma nella lingua araba si intende in senso stretto il Marocco.] per sottomettere tutto ciò che gli capitasse a tiro, e nella seconda metà del 1159 cinse d’assedio la fortezza di Mahdia, presso la quale si rifugiavano i cristiani e quei saraceni che gli erano avversi.
Benché il presidio cristiano fosse sotto ogni aspetto in svantaggio rispetto agli almohadi, esso poteva contare sulle formidabili difese della città e sul valore dei soldati, il fior fiore degli uomini in armi del Regno. Abd al-Mu’min, accompagnato da Hasan, l’emiro ziride[41 - Ziridi: dinastia berbera di religione musulmana che dominò l’Ifrīqiya dal X al XII secolo.] di Mahdia cacciato da Ruggero anni prima, circondò allora per mare e per terra la penisola su cui sorge la città. Era una questione di tempo e presto la fame sarebbe sopraggiunta, piegando pure i più abili ed irriducibili soldati siciliani. La richiesta d’aiuto partì veloce per la corte di Palermo, ma la flotta di Guglielmo fu avvistata solo dopo molti giorni.
Il naviglio cristiano era numeroso, esperto e potente; perfino Costantinopoli aveva dovuto chinare il capo di fronte alle galee siciliane. Comandava la flotta un certo gaito – così come ormai venivano chiamati i capi, o per dirla all’arabesca i qā’id – di nome Pietro. Questi era un eunuco saraceno convertito al Cristo per avidità e convenienza, e asceso al ruolo di comandante.
Guardando la fila di centocinquanta galee giungere dall’orizzonte, perfino Abd al-Mu’min, la cui fede lo portava sempre a valutare l’impossibile, ammise che sul mare non vi fosse speranza alcuna di battere i siciliani. Il califfo fece perciò schierare sulla spiaggia l’esercito e si preparò ad un prossimo sbarco. Quel giorno, tuttavia, pure il vento gridava Allahu Akbar[42 - Allahu Akbar: letteralmente “Dio è il più grande”. Si tratta di un’espressione araba comune nel mondo islamico e presente nel Corano, nel ṣalāt e nell’adhān.], soffiando avverso ai cristiani. E così, quando i saraceni si accorsero della difficoltà con cui i siciliani arrancavano controvento, saltarono a bordo e ingaggiarono lo scontro. Dopo non molto il gaito Pietro se ne tornava con la coda fra le gambe, avendo tremato innanzi alla marea umana dei soldati sulla spiaggia, avendo perso alcune imbarcazioni, volendo preservare il resto della flotta, e forse – e di questo l’avrebbero accusato in patria – non volendo combattere contro un così glorioso servitore di Allah… Dio degli almohadi e segretamente Dio suo.
Abd al-Mu’min sapeva che la flotta di Guglielmo sarebbe tornata. Adesso, però, tentennava a dare il colpo di grazia sul presidio, temendo che se avesse compiuto un massacro su quei cristiani, avrebbe innescato la vendetta della corte di Palermo, la quale probabilmente si sarebbe rivalsa sugli stessi mori di Sicilia. Poi, inaspettatamente, giunse tra le sue mani una missiva… ed allora gli fu chiaro cosa fare.
A Palermo, Amjad si adoperava per la sconfitta del suo signore, e come la più abile delle spie e il più spregiudicato dei traditori, si muoveva nell’ombra per favorire in tutto e per tutto Abd al-Mu’min. Egli, essendo il confidente della Regina, poteva usufruire di un canale privilegiato dal quale recepire le informazioni più sensibili. Non che la Regina presenziasse alle sedute della Curia Reale[43 - Magna Curia: organo centrale dell’amministrazione pubblica nel Regno di Sicilia.], ma presenziava allo stesso letto di Majone e da lui poteva sapere molte cose.
Un giorno Margherita di Navarra, guardando il suo amante rivestirsi e avendo nelle orecchie i racconti di terrore che giungevano da Mahdia, chiese:
«Sono sicura che voi non avreste fallito di fronte a quel sanguinario predone.»
«Se il gaito Pietro ha mancato il colpo, ben poco avrei potuto io.»
Dunque la Regina, ancora distesa sul letto, allungò una mano per trattenere Majone, come se paventasse un qualche pericolo in quella stanza.
«Temo che il Re mandi voi questa volta!»
«Vostro marito si cura più dei propri sollazzi che della perdita del presidio di Mahdia.»