La Divina commedia / Божественная комедия. Книга для чтения на итальянском языке

La Divina commedia / Божественная комедия. Книга для чтения на итальянском языке
Полная версия:
La Divina commedia / Божественная комедия. Книга для чтения на итальянском языке
Canto XII
Era lo loco ov’ a scender la rivavenimmo, alpestro e, per quel che v’er’ anco,tal, ch’ogne vista ne sarebbe schiva.4 Qual è quella ruina che nel fiancodi qua da Trento l’Adice percosse,o per tremoto o per sostegno manco,7 che da cima del monte, onde si mosse,al piano è sì la roccia discoscesa,ch’alcuna via darebbe a chi sù fosse:10 cotal di quel burrato era la scesa;e ’n su la punta de la rotta laccal’infamia di Creti era distesa13 che fu concetta ne la falsa vacca;e quando vide noi, sé stesso morse,sì come quei cui l’ira dentro fiacca.16 Lo savio mio inver’ lui gridò: «Forsetu credi che qui sia ’l duca d’Atene,che sù nel mondo la morte ti porse?19 Pàrtiti, bestia, ché questi non veneammaestrato da la tua sorella,ma vassi per veder le vostre pene».22 Qual è quel toro che si slaccia in quellac’ha ricevuto già ’l colpo mortale,che gir non sa, ma qua e là saltella,25 vid’ io lo Minotauro far cotale;e quello accorto gridò: «Corri al varco;mentre ch’e’ ’nfuria, è buon che tu ti cale».28 Così prendemmo via giù per lo scarcodi quelle pietre, che spesso moviensisotto i miei piedi per lo novo carco.31 Io gia pensando; e quei disse: «Tu pensiforse a questa ruina, ch’è guardatada quell’ ira bestial ch’i’ ora spensi.34 Or vo’ che sappi[9] che l’altra fiatach’i’ discesi qua giù nel basso inferno,questa roccia non era ancor cascata.37 Ma certo poco pria, se ben discerno,che venisse colui che la gran predalevò a Dite del cerchio superno,40 da tutte parti l’alta valle fedatremò sì, ch’i’ pensai che l’universosentisse amor, per lo qual è chi creda43 più volte il mondo in caòsso converso;e in quel punto questa vecchia roccia,qui e altrove, tal fece riverso.46 Ma ficca li occhi a valle, ché s’approcciala riviera del sangue in la qual bollequal che per violenza in altrui noccia».49 Oh cieca cupidigia e ira folle,che sì ci sproni ne la vita corta,e ne l’etterna poi sì mal c’immolle!52 Io vidi un’ampia fossa in arco torta,come quella che tutto ’l piano abbraccia,secondo ch’avea detto la mia scorta;55 e tra ’l piè de la ripa ed essa, in tracciacorrien centauri, armati di saette,come solien nel mondo andare a caccia.58 Veggendoci calar, ciascun ristette,e de la schiera tre si dipartirocon archi e asticciuole prima elette;61 e l’un gridò da lungi: «A qual martirovenite voi che scendete la costa?Ditel costinci; se non, l’arco tiro».64 Lo mio maestro disse: «La rispostafarem noi a Chirón costà di presso:mal fu la voglia tua sempre sì tosta».67 Poi mi tentò, e disse: «Quelli è Nesso,che morì per la bella Deianira,e fé di sé la vendetta elli stesso.70 E quel di mezzo, ch’al petto si mira,è il gran Chirón, il qual nodrì Achille;quell’ altro è Folo, che fu sì pien d’ira.73 Dintorno al fosso vanno a mille a mille,saettando qual anima si svelledel sangue più che sua colpa sortille».76 Noi ci appressammo a quelle fiere isnelle:Chirón prese uno strale, e con la coccafece la barba in dietro a le mascelle.79 Quando s’ebbe scoperta la gran bocca,disse a’ compagni: «Siete voi accortiche quel di retro move ciò ch’el tocca?82 Così non soglion far li piè d’i morti».E ’l mio buon duca, che già li er’ al petto,dove le due nature son consorti,85 rispuose: «Ben è vivo, e sì solettomostrar li mi convien la valle buia;necessità ’l ci ’nduce, e non diletto.88 Tal si partì da cantare alleluiache mi commise quest’ officio novo:non è ladron, né io anima fuia.91 Ma per quella virtù per cu’ io movoli passi miei per sì selvaggia strada,danne un de’ tuoi, a cui noi siamo a provo,94 e che ne mostri là dove si guada,e che porti costui in su la groppa,ché non è spirto che per l’aere vada».97 Chirón si volse in su la destra poppa,e disse a Nesso: «Torna, e sì li guida,e fa cansar s’altra schiera v’intoppa».100 Or ci movemmo con la scorta fidalungo la proda del bollor vermiglio,dove i bolliti facieno alte strida.103 Io vidi gente sotto infino al ciglio;e ’l gran centauro disse: «E’ son tiranniche dier nel sangue e ne l’aver di piglio.106 Quivi si piangon li spietati danni;quivi è Alessandro, e Dionisio feroche fé Cicilia aver dolorosi anni.109 E quella fronte c’ha ’l pel così nero,è Azzolino; e quell’ altro ch’è biondo,è Opizzo da Esti, il qual per vero112 fu spento dal figliastro sù nel mondo».Allor mi volsi al poeta, e quei disse:«Questi ti sia or primo, e io secondo».115 Poco più oltre il centauro s’affissesovr’ una gente che ’nfino a la golaparea che di quel bulicame uscisse.118 Mostrocci un’ombra da l’un canto sola,dicendo: «Colui fesse in grembo a Diolo cor che ’n su Tamisi ancor si cola».121 Poi vidi gente che di fuor del riotenean la testa e ancor tutto ’l casso;e di costoro assai riconobb’ io.124 Così a più a più si facea bassoquel sangue, sì che cocea pur li piedi;e quindi fu del fosso il nostro passo.127 «Sì come tu da questa parte vedilo bulicame che sempre si scema»,disse ’l centauro, «voglio che tu credi130 che da quest’ altra a più a più giù premalo fondo suo, infin ch’el si raggiungeove la tirannia convien che gema.133 La divina giustizia di qua pungequell’ Attila che fu flagello in terra,e Pirro e Sesto; e in etterno munge136 le lagrime, che col bollor diserra,a Rinier da Corneto, a Rinier Pazzo,che fecero a le strade tanta guerra».139 Poi si rivolse e ripassossi ’l guazzo.Canto XIII
Non era ancor di là Nesso arrivato,quando noi ci mettemmo per un boscoche da nessun sentiero era segnato.4 Non fronda verde, ma di color fosco;non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti;non pomi v’eran, ma stecchi con tosco.7 Non han sì aspri sterpi né sì foltiquelle fiere selvagge che ’n odio hannotra Cecina e Corneto i luoghi cólti.10 Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno,che cacciar de le Strofade i Troianicon tristo annunzio di futuro danno.13 Ali hanno late, e colli e visi umani,piè con artigli, e pennuto ’l gran ventre;fanno lamenti in su li alberi strani.16 E ’l buon maestro «Prima che più entre,sappi che se’ nel secondo girone»,mi cominciò a dire, «e sarai mentre19 che tu verrai ne l’orribil sabbione.Però riguarda ben; sì vederaicose che torrien fede al mio sermone».22 Io sentia d’ogne parte trarre guaie non vedea persona che ’l facesse;per ch’io tutto smarrito m’arrestai.25 Cred’ io ch’ei credette ch’io credesseche tante voci uscisser, tra quei bronchi,da gente che per noi si nascondesse.28 Però disse ’l maestro: «Se tu tronchiqualche fraschetta d’una d’este piante,li pensier c’hai si faran tutti monchi».31 Allor porsi la mano un poco avantee colsi un ramicel da un gran pruno;e ’l tronco suo gridò: «Perché mi schiante?».34 Da che fatto fu poi di sangue bruno,ricominciò a dir: «Perché mi scerpi?non hai tu spirto di pietade alcuno?37 Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:ben dovrebb’ esser la tua man più pia,se state fossimo anime di serpi».40 Come d’un stizzo verde ch’arso siada l’un de’ capi, che da l’altro gemee cigola per vento che va via,43 sì de la scheggia rotta usciva insiemeparole e sangue; ond’ io lasciai la cimacadere, e stetti come l’uom che teme.46 «S’elli avesse potuto creder prima»,rispuose ’l savio mio, «anima lesa,ciò c’ha veduto pur con la mia rima,49 non averebbe in te la man distesa;ma la cosa incredibile mi feceindurlo ad ovra ch’a me stesso pesa.52 Ma dilli chi tu fosti, sì che ’n veced’alcun’ ammenda tua fama rinfreschinel mondo sù, dove tornar li lece».55 E ’l tronco: «Sì col dolce dir m’adeschi,ch’i’ non posso tacere; e voi non graviperch’ io un poco a ragionar m’inveschi.58 Io son colui che tenni ambo le chiavidel cor di Federigo, e che le volsi,serrando e diserrando, sì soavi,61 che dal secreto suo quasi ogn’ uom tolsi;fede portai al glorioso offizio,tanto ch’i’ ne perde’ li sonni e ’ polsi.64 La meretrice che mai da l’ospiziodi Cesare non torse li occhi putti,morte comune e de le corti vizio,67 infiammò contra me li animi tutti;e li ’nfiammati infiammar sì Augusto,che ’ lieti onor tornaro in tristi lutti.70 L’animo mio, per disdegnoso gusto,credendo col morir fuggir disdegno,ingiusto fece me contra me giusto.73 Per le nove radici d’esto legnovi giuro che già mai non ruppi fedeal mio segnor, che fu d’onor sì degno.76 E se di voi alcun nel mondo riede,conforti la memoria mia, che giaceancor del colpo che ’nvidia le diede».79 Un poco attese, e poi «Da ch’el si tace»,disse ’l poeta a me, «non perder l’ora;ma parla, e chiedi a lui, se più ti piace».82 Ond’ io a lui: «Domanda tu ancoradi quel che credi ch’a me satisfaccia;ch’i’ non potrei, tanta pietà m’accora».85 Perciò ricominciò: «Se l’om ti faccialiberamente ciò che ’l tuo dir priega,spirito incarcerato, ancor ti piaccia88 di dirne come l’anima si legain questi nocchi; e dinne, se tu puoi,s’alcuna mai di tai membra si spiega».91 Allor soffiò il tronco forte, e poisi convertì quel vento in cotal voce:«Brievemente sarà risposto a voi.94 Quando si parte l’anima ferocedal corpo ond’ ella stessa s’è disvelta,Minòs la manda a la settima foce.97 Cade in la selva, e non l’è parte scelta;ma là dove fortuna la balestra,quivi germoglia come gran di spelta.100 Surge in vermena e in pianta silvestra:l’Arpie, pascendo poi de le sue foglie,fanno dolore, e al dolor fenestra.103 Come l’altre verrem per nostre spoglie,ma non però ch’alcuna sen rivesta,ché non è giusto aver ciò ch’om si toglie.106 Qui le strascineremo, e per la mestaselva saranno i nostri corpi appesi,ciascuno al prun de l’ombra sua molesta».109 Noi eravamo ancora al tronco attesi,credendo ch’altro ne volesse dire,quando noi fummo d’un romor sorpresi,112 similemente a colui che veniresente ’l porco e la caccia a la sua posta,ch’ode le bestie, e le frasche stormire.115 Ed ecco due da la sinistra costa,nudi e graffiati, fuggendo sì forte,che de la selva rompieno ogne rosta.118 Quel dinanzi: «Or accorri, accorri, morte!».E l’altro, cui pareva tardar troppo,gridava: «Lano, sì non furo accorte121 le gambe tue a le giostre dal Toppo!».E poi che forse li fallia la lena,di sé e d’un cespuglio fece un groppo.124 Di rietro a loro era la selva pienadi nere cagne, bramose e correnticome veltri ch’uscisser di catena.127 In quel che s’appiattò miser li denti,e quel dilaceraro a brano a brano;poi sen portar quelle membra dolenti.130 Presemi allor la mia scorta per mano,e menommi al cespuglio che piangeaper le rotture sanguinenti in vano.133 «O Iacopo», dicea, «da Santo Andrea,che t’è giovato di me fare schermo?che colpa ho io de la tua vita rea?».136 Quando ’l maestro fu sovr’ esso fermo,disse: «Chi fosti, che per tante puntesoffi con sangue doloroso sermo?».139 Ed elli a noi: «O anime che giuntesiete a veder lo strazio disonestoc’ha le mie fronde sì da me disgiunte,142 raccoglietele al piè del tristo cesto.I’ fui de la città che nel Batistamutò ’l primo padrone; ond’ ei per questo145 sempre con l’arte sua la farà trista;e se non fosse che ’n sul passo d’Arnorimane ancor di lui alcuna vista,148 que’ cittadin che poi la rifondarnosovra ’l cener che d’Attila rimase,avrebber fatto lavorare indarno.151 Io fei giubetto a me de le mie case».Canto XIV
Poi che la carità del natio locomi strinse, raunai le fronde spartee rende’le a colui, ch’era già fioco.4 Indi venimmo al fine ove si partelo secondo giron dal terzo, e dovesi vede di giustizia orribil arte.7 A ben manifestar le cose nove,dico che arrivammo ad una landache dal suo letto ogne pianta rimove.[10]10 La dolorosa selva l’è ghirlandaintorno, come ’l fosso tristo ad essa;quivi fermammo i passi a randa a randa.13 Lo spazzo era una rena arida e spessa,non d’altra foggia fatta che coleiche fu da’ piè di Caton già soppressa.16 O vendetta di Dio, quanto tu deiesser temuta da ciascun che leggeciò che fu manifesto a li occhi mei!19 D’anime nude vidi molte greggeche piangean tutte assai miseramente,e parea posta lor diversa legge.22 Supin giacea in terra alcuna gente,alcuna si sedea tutta raccolta,e altra andava continuamente.25 Quella che giva ’ntorno era più molta,e quella men che giacea al tormento,ma più al duolo avea la lingua sciolta.28 Sovra tutto ’l sabbion, d’un cader lento,piovean di foco dilatate falde,come di neve in alpe sanza vento.31 Quali Alessandro in quelle parti calded’India vide sopra ’l suo stuolofiamme cadere infino a terra salde,34 per ch’ei provide a scalpitar lo suolocon le sue schiere, acciò che lo vaporemei si stingueva mentre ch’era solo:37 tale scendeva l’etternale ardore;onde la rena s’accendea, com’ escasotto focile, a doppiar lo dolore.40 Sanza riposo mai era la trescade le misere mani, or quindi or quinciescotendo da sé l’arsura fresca.43 I’ cominciai: «Maestro, tu che vincitutte le cose, fuor che ’ demon durich’a l’intrar de la porta incontra uscinci,46 chi è quel grande che non par che curilo ’ncendio e giace dispettoso e torto,sì che la pioggia non par che ’l marturi?».49 E quel medesmo, che si fu accortoch’io domandava il mio duca di lui,gridò: «Qual io fui vivo, tal son morto.52 Se Giove stanchi ’l suo fabbro da cuicrucciato prese la folgore agutaonde l’ultimo dì percosso fui;55 o s’elli stanchi li altri a muta a mutain Mongibello a la focina negra,chiamando «Buon Vulcano, aiuta, aiuta!»,58 sì com’ el fece a la pugna di Flegra,e me saetti con tutta sua forza:non ne potrebbe aver vendetta allegra».61 Allora il duca mio parlò di forzatanto, ch’i’ non l’avea sì forte udito:«O Capaneo, in ciò che non s’ammorza64 la tua superbia, se’ tu più punito;nullo martiro, fuor che la tua rabbia,sarebbe al tuo furor dolor compito».67 Poi si rivolse a me con miglior labbia,dicendo: «Quei fu l’un d’i sette regich’assiser Tebe; ed ebbe e par ch’elli abbia70 Dio in disdegno, e poco par che ’l pregi;ma, com’ io dissi lui, li suoi dispettisono al suo petto assai debiti fregi.73 Or mi vien dietro, e guarda che non metti,ancor, li piedi ne la rena arsiccia;ma sempre al bosco tien li piedi stretti».76 Tacendo divenimmo là ’ve spicciafuor de la selva un picciol fiumicello,lo cui rossore ancor mi raccapriccia.79 Quale del Bulicame esce ruscelloche parton poi tra lor le peccatrici,tal per la rena giù sen giva quello.82 Lo fondo suo e ambo le pendicifatt’ era ’n pietra, e ’ margini da lato;per ch’io m’accorsi che ’l passo era lici.85 «Tra tutto l’altro ch’i’ t’ho dimostrato,poscia che noi intrammo per la portalo cui sogliare a nessuno è negato,88 cosa non fu da li tuoi occhi scortanotabile com’ è ’l presente rio,che sovra sé tutte fiammelle ammorta».91 Queste parole fuor del duca mio;per ch’io ’l pregai che mi largisse ’l pastodi cui largito m’avea il disio.94 «In mezzo mar siede un paese guasto»,diss’ elli allora, «che s’appella[11] Creta,sotto ’l cui rege fu già ’l mondo casto.97 Una montagna v’è che già fu lietad’acqua e di fronde, che si chiamò Ida;or è diserta come cosa vieta.100 Rea la scelse già per cuna fidadel suo figliuolo, e per celarlo meglio,quando piangea, vi facea far le grida.103 Dentro dal monte sta dritto un gran veglio,che tien volte le spalle inver’ Dammiatae Roma guarda come suo speglio.106 La sua testa è di fin oro formata,e puro argento son le braccia e ’l petto,poi è di rame infino a la forcata;109 da indi in giuso è tutto ferro eletto,salvo che ’l destro piede è terra cotta;e sta ’n su quel, più che ’n su l’altro, eretto.112 Ciascuna parte, fuor che l’oro, è rottad’una fessura che lagrime goccia,le quali, accolte, fóran quella grotta.115 Lor corso in questa valle si diroccia;fanno Acheronte, Stige e Flegetonta;poi sen van giù per questa stretta doccia,118 infin, là dove più non si dismonta,fanno Cocito; e qual sia quello stagnotu lo vedrai, però qui non si conta».121 E io a lui: «Se ’l presente rigagnosi diriva così dal nostro mondo,perché ci appar pur a questo vivagno?».124 Ed elli a me: «Tu sai che ’l loco è tondo;e tutto che tu sie venuto molto,pur a sinistra, giù calando al fondo,127 non se’ ancor per tutto ’l cerchio vòlto;per che, se cosa n’apparisce nova,non de’ addur maraviglia al tuo volto».130 E io ancor: «Maestro, ove si trovaFlegetonta e Letè? ché de l’un taci,e l’altro di’ che si fa d’esta piova».133 «In tutte tue question certo mi piaci»,rispuose, «ma ’l bollor de l’acqua rossadovea ben solver l’una che tu faci.136 Letè vedrai, ma fuor di questa fossa,là dove vanno l’anime a lavarsiquando la colpa pentuta è rimossa».139 Poi disse: «Omai è tempo da scostarsidal bosco; fa che di retro a me vegne:li margini fan via, che non son arsi,142 e sopra loro ogne vapor si spegne».Canto XV
Ora cen porta l’un de’ duri margini;e ’l fummo del ruscel di sopra aduggia,sì che dal foco salva l’acqua e li argini.4 Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia,temendo ’l fiotto che ’nver’ lor s’avventa,fanno lo schermo perché ’l mar si fuggia;7 e quali Padoan lungo la Brenta,per difender lor ville e lor castelli,anzi che Carentana il caldo senta:10 a tale imagine eran fatti quelli,tutto che né sì alti né sì grossi,qual che si fosse, lo maestro félli.13 Già eravam da la selva rimossitanto, ch’i’ non avrei visto dov’ era,perch’ io in dietro rivolto mi fossi,16 quando incontrammo d’anime una schierache venian lungo l’argine, e ciascunaci riguardava come suol da sera19 guardare uno altro sotto nuova luna;e sì ver’ noi aguzzavan le cigliacome ’l vecchio sartor fa ne la cruna.22 Così adocchiato da cotal famiglia,fui conosciuto da un, che mi preseper lo lembo e gridò: «Qual maraviglia!».25 E io, quando ’l suo braccio a me distese,ficcai li occhi per lo cotto aspetto,sì che ’l viso abbrusciato non difese28 la conoscenza sua al mio ’ntelletto;e chinando la mano a la sua faccia,rispuosi: «Siete voi qui, ser Brunetto?».31 E quelli: «O figliuol mio, non ti dispiacciase Brunetto Latino un poco tecoritorna ’n dietro e lascia andar la traccia».34 I’ dissi lui: «Quanto posso, ven preco;e se volete che con voi m’asseggia,faròl, se piace a costui che vo seco».37 «O figliuol», disse, «qual di questa greggias’arresta punto, giace poi cent’ annisanz’ arrostarsi quando ’l foco il feggia.40 Però va oltre: i’ ti verrò a’ panni;e poi rigiugnerò la mia masnada,che va piangendo i suoi etterni danni».43 Io non osava scender de la stradaper andar par di lui; ma ’l capo chinotenea com’ uom che reverente vada.46 El cominciò: «Qual fortuna o destinoanzi l’ultimo dì qua giù ti mena?e chi è questi che mostra ’l cammino?».49 «Là sù di sopra, in la vita serena»,rispuos’ io lui, «mi smarri’ in una valle,avanti che l’età mia fosse piena.52 Pur ier mattina le volsi le spalle:questi m’apparve, tornand’ io in quella,e reducemi a ca per questo calle».55 Ed elli a me: «Se tu segui tua stella,non puoi fallire a glorioso porto,se ben m’accorsi ne la vita bella;58 e s’io non fossi sì per tempo morto,veggendo il cielo a te così benigno,dato t’avrei a l’opera conforto.61 Ma quello ingrato popolo malignoche discese di Fiesole ab antico,e tiene ancor del monte e del macigno,64 ti si farà, per tuo ben far, nimico;ed è ragion, ché tra li lazzi sorbisi disconvien fruttare al dolce fico.67 Vecchia fama nel mondo li chiama orbi;gent’ è avara, invidiosa e superba:dai lor costumi fa che tu ti forbi.70 La tua fortuna tanto onor ti serba,che l’una parte e l’altra avranno famedi te; ma lungi fia dal becco l’erba.73 Faccian le bestie fiesolane stramedi lor medesme, e non tocchin la pianta,s’alcuna surge ancora in lor letame,76 in cui riviva la sementa santadi que’ Roman che vi rimaser quandofu fatto il nido di malizia tanta».79 «Se fosse tutto pieno il mio dimando»,rispuos’ io lui, «voi non sareste ancorade l’umana natura posto in bando;82 ché ’n la mente m’è fitta, e or m’accora,la cara e buona imagine paternadi voi quando nel mondo ad ora ad ora85 m’insegnavate come l’uom s’etterna:e quant’ io l’abbia in grado, mentr’ io vivoconvien che ne la mia lingua si scerna.88 Ciò che narrate di mio corso scrivo,e serbolo a chiosar con altro testoa donna che saprà, s’a lei arrivo.91 Tanto vogl’ io che vi sia manifesto,pur che mia coscienza non mi garra,ch’a la Fortuna, come vuol, son presto.94 Non è nuova a li orecchi miei tal arra:però giri Fortuna la sua rotacome le piace, e ’l villan la sua marra».97 Lo mio maestro allora in su la gotadestra si volse in dietro e riguardommi;poi disse: «Bene ascolta chi la nota».100 Né per tanto di men parlando vommicon ser Brunetto, e dimando chi sonoli suoi compagni più noti e più sommi.103 Ed elli a me: «Saper d’alcuno è buono;de li altri fia laudabile tacerci,ché ’l tempo saria corto a tanto suono.106 In somma sappi che tutti fur chercie litterati grandi e di gran fama,d’un peccato medesmo al mondo lerci.109 Priscian sen va con quella turba grama,e Francesco d’Accorso anche; e vedervi,s’avessi avuto di tal tigna brama,112 colui potei che dal servo de’ servifu trasmutato d’Arno in Bacchiglione,dove lasciò li mal protesi nervi.115 Di più direi; ma ’l venire e ’l sermonepiù lungo esser non può, però ch’i’ veggiolà surger nuovo fummo del sabbione.118 Gente vien con la quale esser non deggio.Sieti raccomandato il mio Tesoro,nel qual io vivo ancora, e più non cheggio[12]».121 Poi si rivolse, e parve di coloroche corrono a Verona il drappo verdeper la campagna; e parve di costoro124 quelli che vince, non colui che perde.Canto XVI
Già era in loco onde s’udia ’l rimbombode l’acqua che cadea ne l’altro giro,simile a quel che l’arnie fanno rombo,4 quando tre ombre insieme si partiro,correndo, d’una torma che passavasotto la pioggia de l’aspro martiro.7 Venian ver’ noi, e ciascuna gridava:«Sòstati tu ch’a l’abito ne sembriessere alcun di nostra terra prava».10 Ahimè, che piaghe vidi ne’ lor membri,ricenti e vecchie, da le fiamme incese!Ancor men duol pur ch’i’ me ne rimembri.13 A le lor grida il mio dottor s’attese;volse ’l viso ver’ me, e «Or aspetta»,disse, «a costor si vuole esser cortese.16 E se non fosse il foco che saettala natura del loco, i’ dicereiche meglio stesse a te che a lor la fretta».19 Ricominciar, come noi restammo, eil’antico verso; e quando a noi fuor giunti,fenno una rota di sé tutti e trei.22 Qual sogliono i campion far nudi e unti,avvisando lor presa e lor vantaggio,prima che sien tra lor battuti e punti,25 così rotando, ciascuno il visaggiodrizzava a me, sì che ’n contraro il collofaceva ai piè continuo viaggio.28 E «Se miseria d’esto loco sollorende in dispetto noi e nostri prieghi»,cominciò l’uno, «e ’l tinto aspetto e brollo,31 la fama nostra il tuo animo pieghia dirne chi tu se’, che i vivi piedicosì sicuro per lo ’nferno freghi.34 Questi, l’orme di cui pestar mi vedi,tutto che nudo e dipelato vada,fu di grado maggior che tu non credi:37 nepote fu de la buona Gualdrada;Guido Guerra ebbe nome, e in sua vitafece col senno assai e con la spada.40 L’altro, ch’appresso me la rena trita,è Tegghiaio Aldobrandi, la cui vocenel mondo sù dovria esser gradita.43 E io, che posto son con loro in croce,Iacopo Rusticucci fui, e certola fiera moglie più ch’altro mi nuoce».46 S’i’ fossi stato dal foco coperto,gittato mi sarei tra lor di sotto,e credo che ’l dottor l’avria sofferto;49 ma perch’ io mi sarei brusciato e cotto,vinse paura la mia buona vogliache di loro abbracciar mi facea ghiotto.52 Poi cominciai: «Non dispetto, ma dogliala vostra condizion dentro mi fisse,tanta che tardi tutta si dispoglia,55 tosto che questo mio segnor mi disseparole per le quali i’ mi pensaiche qual voi siete, tal gente venisse.58 Di vostra terra sono, e sempre mail’ovra di voi e li onorati nomicon affezion ritrassi e ascoltai.61 Lascio lo fele e vo per dolci pomipromessi a me per lo verace duca;ma ’nfino al centro pria convien ch’i’ tomi».64 «Se lungamente l’anima conducale membra tue», rispuose quelli ancora,«e se la fama tua dopo te luca,67 cortesia e valor dì se dimorane la nostra città sì come suole,o se del tutto se n’è gita fora;70 ché Guiglielmo Borsiere, il qual si duolecon noi per poco e va là coi compagni,assai ne cruccia con le sue parole».73 «La gente nuova e i sùbiti guadagniorgoglio e dismisura han generata,Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni».76 Così gridai con la faccia levata;e i tre, che ciò inteser per risposta,guardar l’un l’altro com’ al ver si guata.79 «Se l’altre volte sì poco ti costa»,rispuoser tutti, «il satisfare altrui,felice te se sì parli a tua posta!82 Però, se campi d’esti luoghi buie torni a riveder le belle stelle,quando ti gioverà dicere «I’ fui»,85 fa che di noi a la gente favelle».Indi rupper la rota, e a fuggirsiali sembiar le gambe loro snelle.88 Un amen non saria possuto dirsitosto così com’ e’ fuoro spariti;per ch’al maestro parve di partirsi.91 Io lo seguiva, e poco eravam iti,che ’l suon de l’acqua n’era sì vicino,che per parlar saremmo a pena uditi.94 Come quel fiume c’ha proprio camminoprima dal Monte Viso ’nver’ levante,da la sinistra costa d’Apennino,97 che si chiama Acquacheta suso, avanteche si divalli giù nel basso letto,e a Forlì di quel nome è vacante,100 rimbomba là sovra San Benedettode l’Alpe per cadere ad una scesaove dovea per mille esser recetto;103 così, giù d’una ripa discoscesa,trovammo risonar quell’ acqua tinta,sì che ’n poc’ ora avria l’orecchia offesa.106 Io avea una corda intorno cinta,e con essa pensai alcuna voltaprender la lonza a la pelle dipinta.109 Poscia ch’io l’ebbi tutta da me sciolta,sì come ’l duca m’avea comandato,porsila a lui aggroppata e ravvolta.112 Ond’ ei si volse inver’ lo destro lato,e alquanto di lunge da la spondala gittò giuso in quell’ alto burrato.115 «E’ pur convien che novità risponda»,dicea fra me medesmo, «al novo cennoche ’l maestro con l’occhio sì seconda».118 Ahi quanto cauti li uomini esser diennopresso a color che non veggion pur l’ovra,ma per entro i pensier miran col senno!121 El disse a me: «Tosto verrà di sovraciò ch’io attendo e che il tuo pensier sogna;tosto convien ch’al tuo viso si scovra».124 Sempre a quel ver c’ha faccia di menzognade’ l’uom chiuder le labbra fin ch’el puote,però che sanza colpa fa vergogna;127 ma qui tacer nol posso; e per le notedi questa comedìa, lettor, ti giuro,s’elle non sien di lunga grazia vòte,130 ch’i’ vidi per quell’ aere grosso e scurovenir notando una figura in suso,maravigliosa ad ogne cor sicuro,133 sì come torna colui che va giusotalora a solver l’àncora ch’aggrappao scoglio o altro che nel mare è chiuso,136 che ’n sù si stende e da piè si rattrappa.