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La Corona Bronzea
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La Corona Bronzea

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La Corona Bronzea

Lucia, scendendo le scale che riportavano verso la stanza in cui fino a poc’anzi era stata a colloquio con il Giudice Uberti, per cercare di calmarsi ripeteva a se stessa, nella sua mente, gli insegnamenti ricevuti dalla nonna e, in tempi più recenti, da Bernardino.

Conosci te stessa per prima cosa, comprendi l’Arte sin qui misteriosa. Sii disponibile ad imparare, con molta saggezza usa il sapere. Il tuo comportamento sia equilibrato, e il tuo parlare sia ben ordinato. E pure in buon ordine tieni il pensiero…

E sì, doveva ben ponderare le parole e tenere in ordine i suoi pensieri, per non aggredire il Domenicano a male parole e passare dalla parte della ragione a quella del torto. Prima di entrare nella stanza fece due respiri profondi, poi chiese al Giudice di lasciarla sola con Padre Ignazio. Uberti obbedì, anche se titubante, e uscì, chiudendo la porta dietro di sé.

Lucia infisse i suoi occhi nocciola in quelli celesti, quasi acquosi, del sacerdote, a volergli dimostrare che non aveva affatto timore di lui.

«Ministro di Dio, avete la presunzione di chiamarvi? È così che siete testimone del messaggio di Nostro Signore? Gesù è sceso in terra per salvare i peccatori. O mi sbaglio? E voi, invece di predicare l’amore, cosa fate? Godete nel gettare fango sulla povera gente o, peggio, nel vederla morire tra atroci sofferenze. Passino le vostre omelie domenicali in cui accusate presunte streghe di diffondere, con le loro pratiche, il morbo che sta decimando la nostra popolazione. Passi la vostra arroganza nel negare i conforti religiosi agli appestati in punto di morte. Passi anche il fatto che abbiate negato una degna sepoltura a dei cristiani, con la scusa di evitare la diffusione della peste. Ma torturare così una giovane indifesa è troppo. Vergognatevi, e fate ammenda!»

«È Santa Madre Chiesa che vuol questo. Dobbiamo combattere le eresie e il demonio, in qualsiasi forma essi si manifestino», le rispose Padre Ignazio, senza distogliere lo sguardo, a far capire a Lucia che stava accettando la sfida. «Io agisco per perseguire un preciso intento, far rispettare la Regola e le Leggi! Dal momento che attualmente, in questa città, nessun altro si prende la briga di farlo…»

«L’unico intento che perseguite, Padre Ignazio, sapete qual è? Quello di soddisfare i vostri porci comodi. Non crediate che abbia dimenticato quello che stavate per fare a me. Anche se mi avevate ridotto uno straccio, somministrandomi le vostre maledette droghe, ero perfettamente cosciente. Se quel giorno, nella mia stanza da letto, non fosse entrato mio zio, non avreste esitato ad abusare del mio corpo!»

Il Domenicano, colto nel vivo, arrossì in volto e abbassò lo sguardo. Poi cercò di difendersi.

«Non è così, mia Signora. I vostri ricordi sono offuscati. Io stavo solo cercando di fare un esorcismo, che alla fine riuscì. Ed è proprio grazie al mio intervento se siete qui e non siete salita su un rogo anche voi, perché ho esorcizzato il demonio che albergavate!»

«Balle! Tutte balle! Voi siete un falso, un bugiardo, e per di più un opportunista. Mi fate schifo. Sapete cosa penso di voi? Che siete un pervertito. E che siete un impotente! Già, un impotente, che si eccita solo vedendo la sofferenza. Ecco perché godete nell’assistere alle torture, perché solo assistendo a certe scene il vostro membro si erge!»

«Cosa dite, Madonna? State usando un linguaggio che non si addice di certo a una nobile damigella come voi! Vi assicuro che non è così. Il mio unico scopo è quello di far rispettare le leggi, quelle divine e quelle degli uomini. E non sono un impotente, seguo solo la regola del mio ordine, che mi impone la castità.»

Lucia aveva capito, dal tremore della voce del suo interlocutore che stava avendo la meglio, e così decise di lanciare l’affondo finale. Si slacciò il fiocco che stringeva al collo la sua camicetta e, con un gesto repentino e improvviso, l’aprì sul davanti, mettendo a nudo i suoi seni.

«E così, non siete impotente. Orsù, dunque, volevate il mio corpo! Prendetelo ora, che ve lo offro di mia volontà. E dimostrate di essere un uomo che sa amare dolcemente una donzella.»

Padre Ignazio, conscio della trappola in cui lo stava attirando la contessina, arretrò. Lì dentro erano loro due da soli. Sapeva bene che la giovane non si sarebbe fatta scrupolo di accusarlo di aver cercato di abusare di lei, anche con la violenza. E sarebbe stata la parola sua contro quella di lei.

«Copritevi, per favore! Non è corretto da parte vostra cercare di indurmi così in tentazione. Ditemi cosa volete che io faccia, e lo farò», disse con un filo di voce e la testa bassa.

«Lo sapevo che eravate un impotente», continuò Lucia, prendendo dal candelabro sopra la scrivania una candela accesa e porgendogliela. «Perché non provate a versare sui miei seni della cera bollente? Forse così inizierete a eccitarvi, e poi avrete finalmente voglia di possedermi. Ma no, vedo che ancora indietreggiate, vi allontanate da me. Oltre che un impotente, siete anche un vigliacco!»

«Basta, vi prego! Ve lo ripeto: ditemi quello che volete io faccia e lo farò!»

Il sacerdote vide con sollievo Lucia riporre la candela e riallacciarsi la veste, per poi proseguire il suo discorso. Sentiva il sudore imperlargli la fronte e scendere copioso lungo la schiena.

«Volete sapere la verità? Tanto siete un vigliacco e non avrete il coraggio di riferirla a nessuno. Non è Mira la responsabile della morte di mio zio, ma io. Sono stata io a ferirlo e provocarne la caduta dal balcone. E adesso che avete saputo, vi dico quello che voglio che facciate. Proscioglierete Mira dalle accuse di stregoneria. Direte che erano accuse infondate e riconsegnerete la mia ancella al Giudice Uberti. Fatto questo, iniziate a preparare i bagagli. Vi voglio lontano da Jesi, il più lontano possibile. Domani stesso manderò un messaggero al Santo Padre, ad Adriano Sesto, consigliando il vostro trasferimento in Alta Savoia. Lassù le eresie imperversano e un inquisitore come voi saprà bene il da farsi per combatterle. C’è bisogno di voi, in quelle terre di confine, per ricondurre all’ovile le pecorelle smarrite!»

«Il nuovo Santo Padre?», replicò Padre Ignazio, ora impallidendo visibilmente, sentendo tutte le sue certezze venir meno.

«Siete stato così indaffarato a servire la vostra Santa Madre Chiesa, da non essere neanche venuto a conoscenza del fatto che il soglio pontificio è stato occupato dal Vescovo Adriano Florensz da Utrecht, più di quattro mesi or sono? Dopo la morte di Leone Decimo, il conclave ci ha messo parecchio a eleggere il nuovo pontefice. Ma alla fine, ha scelto, e non il Vescovo di Firenze, Giulio De’ Medici, come forse voi vi aspettavate.»

«E quindi, la Chiesa è governata ora da un uomo vicino ai Riformatori? E il nostro legato pontificio? Quando giungerà in sede?» Padre Ignazio era del tutto scosso dalla notizia.

«Come siete mal informato, mio caro! Il Cardinal Cesarini è giunto da Roma già alla metà dello scorso mese di marzo, ma sembra che Jesi non sia una sede che abbia incontrato le sue grazie. Ha lasciato un suo vicario, ritornandosene ben presto in quel di Orvieto. Considerando la sua perenne assenza, le autorità civili ne hanno richiesto la sostituzione. Ma aspetteremo notizie da Roma, che di certo non tarderanno ad arrivare. Datemi ascolto, preparate i bagagli, prima che tutto il male che avete fatto si ritorca contro di voi. Ancora siete sotto la protezione di quell’abito che portate, ma credo proprio che quei panni, ben presto, vi saranno stretti.»

Padre Ignazio, non avendo più nulla da replicare, si diresse a testa bassa verso la porta, uscì passando accanto al Giudice Uberti senza neanche degnarlo di uno sguardo, e si dileguò per i meandri del torrione. Certo, in quei mesi era stato tanto concentrato nel dimostrare che Mira fosse una strega, che aveva perso del tutto il contatto con la realtà!

Ancora frastornata dal colloquio appena conclusosi e immersa nei suoi pensieri, Lucia neanche si era accorta che il Giudice era rientrato nella stanza, aspettando con pazienza che gli rivolgesse la parola. Sentì la frase uscire dalle proprie labbra come se fosse qualcun altro a parlare.

«Le accuse di stregoneria nei confronti di Mira sono cadute. Tocca a voi giudicarla. Siate clemente con lei!»

«La sua colpevolezza nell’essere stata responsabile della morte del Cardinale è ormai ampiamente dimostrata. E, per un assassino, la condanna è la morte. C’è poco da discutere. L’unica clemenza che posso riservarle è quella di un’esecuzione veloce e senza pubblico che assista. Mira verrà decapitata domattina all’alba. Non renderò pubblica la notizia. Sarà una questione tra lei e il boia.»

«L’unica cosa che chiedo è che non soffra», replicò Lucia, stringendosi nelle spalle.

«Un colpo netto, ben assestato, e la testa della giovane rotolerà sul selciato della Piazza della Morte. Mira non farà neanche in tempo a rendersi conto di non avere più la testa attaccata al collo.»

Lucia sentì le lacrime che stavano per prorompere dai suoi occhi, ma le ricacciò, avvertendo il loro sapore salato in gola. I suoi truci pensieri furono interrotti da un insolito clamore, che giungeva alle finestre dall’esterno, dalla Piazza del Palio e dalle vie limitrofe. Una folla di persone, provenienti dal contado, armate di forconi, coltelli e altri rudimentali attrezzi, stava entrando in città da Porta Valle e si dirigeva minacciosa verso la parte alta della città.

«A Palazzo. Raggiungiamo la Curia vescovile!»

«A morte il vicario del Cardinal Cesarini!»

«A morte il ladro, a morte l’usurpatore!»

Lucia, sentendo quelle frasi capì cosa stava per accadere, e capì che la situazione era davvero grave. Doveva far qualcosa per fermare quella gente e per evitare un inutile spargimento di sangue.

Una rivolta popolare, in questo momento, significherebbe la fine per questa città. Devo evitare che questi villani trasformino il centro in una carneficina. La popolazione è già stata decimata dalla peste, ci mancano solo le lotte intestine tra cittadini per ridurre Jesi al lumicino.





CAPITOLO 4

Il castello di Massignano era accogliente e sicuro, ma Andrea si era davvero stancato di addestrarsi contro il Mancino e i suoi sgherri. Non che la compagnia di questi uomini rudi gli dispiacesse. Spesso la sera beveva vino e giocava a dadi insieme a loro e più di una volta si era addormentato in preda ai fumi dell’alcol sul nudo pavimento, addosso agli altri sgherri. Certo, il Mancino, nonostante avesse perso da tempo l’uso del braccio destro, ci sapeva fare, e più di una volta gli aveva fatto volar via la spada dalle mani. Più passava il tempo e più i due diventavano amici, ma Andrea era un uomo d’azione, e un nobile per di più, e spesso si chiedeva quanto a lungo avesse dovuto sopportare quella semi prigionia, per far piacere al Duca di Montacuto, a dimostrazione della sua riconoscenza per averlo salvato dal patibolo. Da un giorno all’altro, Andrea aspettava che il Duca lo convocasse e lo facesse finalmente partire per il Montefeltro, dove avrebbe messo le sue qualità di condottiero nelle mani di un potente Signore. E già, non ne poteva proprio più di continuare a trascorrere il suo tempo in quella maniera assurda. Era come se il Duca ci facesse apposta a tenerlo in quella condizione di stallo, come se godesse del fatto di tenerlo inattivo il più a lungo possibile.

«Se il Duca non ha ancora organizzato il tuo trasferimento, si vede che c’è qualche ostacolo, materiale o politico che sia. Il mio padrone è un uomo accorto, anche se all’apparenza sembra una persona più rude di noi che lo serviamo. Ma quello che ha in più, rispetto a noi, è la capacità di far ragionare la sua mente», e il Mancino si toccò la tempia con il dito indice, a sottolineare questo suo concetto. «Vedrai, a tempo debito sarà tutto organizzato, nulla sarà lasciato al caso.»

«Gesualdo, anch’io so far funzionare bene la mia testa, e capisco solo che sono quasi quattro anni che sono qui, in questo castello, e le mie membra si stanno impigrendo. Se dovessi essere a tu per tu con un nemico, non so come andrebbe a finire… Forse non bene per me!»

Il Mancino, che aveva capito l’antifona, per non far precipitare il giovane Franciolini nella malinconia, balzò in piedi, afferrò la sua pesante spada con la sinistra e invitò l’amico al combattimento.

«Coraggio, allora, vediamo quanto sei arrugginito. Secondo me, quello che ti manca di più qua dentro è una donna. Inutile continuare a pensare alla tua Lucia, chissà mai se la rivedrai! Lascia fare a me e questa notte sarai in compagnia. Un uomo ha bisogno di sfogare non solo i muscoli delle braccia e delle gambe. Conosco un paio di servette che, al bisogno, sanno quello che fare per soddisfare un muscolo che da troppo tempo è in letargo! Basta elargirgli alla fine un paio di monete d’argento, ed è fatta», e scoppiò in una grassa risata.

Andrea, colpito nel vivo, impugnò a sua volta la spada e la incrociò con violenza con quella del Mancino.

«Brutto bastardo che non sei altro, per chi mi hai preso? Per uno che va a sgualdrine? Sono fedele alla mia amata, le ho giurato fedeltà che ero quasi in punto di morte. Lei ha curato le mie ferite e io la dovrei ricompensare con un tradimento?»

Gesualdo si sbilanciò indietro, mantenendosi ben saldo sulle gambe, e fece sì che la spada del giovane si abbattesse al suolo con fragore.

«Eh, l’amore gioca brutti scherzi! Sì, oggi sei proprio distratto, combatti molto male, amico mio. Sei fortunato di avere me di fronte e non un nemico, altrimenti saresti già spacciato.»

Andrea alzò di nuovo la spada e abbatté un nuovo fendente contro quella del Mancino, che la fece roteare, provocando lo sbilanciamento e la caduta a terra del suo avversario. In un attimo gli fu sopra, il filo della lama poggiato minaccioso al collo del giovane. Quest’ultimo, con un agile balzo all’indietro, si liberò della stretta e con un calcio fece volar via la spada dalle mani del Mancino. Poi si riappropriò della sua e ripartì all’attacco. Questa volta era Gesualdo in posizione di inferiorità. Gli sgherri che assistevano non erano nuovi alle scaramucce tra i due e scommettevano chi sull’uno chi sull’altro. In breve la ressa diventò incontrollabile: i due continuavano a battersi, inveendo l’uno contro l’altro, a volte anche gridando, mentre gli astanti continuavano a scommettere somme sempre più alte e incitavano alla lotta. Fino a che, all’improvviso, tutti si ammutolirono. Andrea e Gesualdo si resero conto che c’era qualcosa che non andava e smisero di combattere. Sollevarono la testa e si ritrovarono faccia a faccia con il Duca Berengario di Montacuto.

«Smettetela di giocare, voi due, e andatevi a rendere presentabili. Stasera avrete l’onore di cenare seduti alla mia tavola», sentenziò con voce autoritaria. Poi si girò sui tacchi e sparì lungo il corridoio, nella direzione da cui era venuto.

Di rado, nel corso di quei lunghi anni, Andrea era entrato nell’ala del castello dove risiedeva il Signore, il Duca di Montacuto. Erano stanze molto più ricche, sia in mobilia che in decorazioni, rispetto a quelle che era abituato a frequentare, nella parte della Rocca dove soggiornavano soldati, armigeri e servi, e dove lui a fatica aveva conquistato una camera con un pagliericcio, grazie all’intercessione di Gesualdo con il luogotenente del Duca.

Si contavano poi sulle dita delle mani le volte che Andrea si era trovato al cospetto del Duca. Va bene che quest’ultimo era spesso lontano dal Castello, in quanto passava molto tempo in Ancona, sia per tenere sotto controllo gli affari amministrativi della città, ora che aveva spodestato il Consiglio degli Anziani, sia per seguire da vicino i lavori di costruzione della cittadella fortificata, nuovo baluardo a difesa del porto. Fatto sta che, dal momento che il Duca lo aveva salvato dal patibolo con un preciso scopo, quello di inviarlo al servizio dei Malatesta di Rimini, si era aspettato di dover abbandonare quel luogo di ozi molto prima. E invece, sembrava che il Duca ci prendesse gusto a non riceverlo, quando per un motivo, quando per un altro, e a continuare a tenerlo in mezzo a quei barbari, che nulla avevano a che spartire con lui, con la sua nobiltà, con il suo lignaggio, con la sua cultura. Non aveva trovato nemmeno un libro da leggere per poter trascorrere il tempo in maniera degna, e l’unico passatempo era quello di allenarsi a combattere, cosa che gli era venuta davvero a noia. L’unico suo conforto era l’amicizia di Gesualdo che, nonostante le umili origini, riteneva un compagno fedele e saggio nel dispensare consigli. Il fatto, ora, di camminare a fianco a lui, lo rincuorava e infondeva nel suo animo il coraggio di cui aveva bisogno per affrontare l’eventuale colloquio con il vecchio Duca di Montacuto.

«Finalmente ci siamo. È di sicuro giunta l’ora di partire alla volta dei territori del Montefeltro, di combattere sul serio, di avere ai propri ordini uomini valorosi», diceva Andrea al suo amico, percorrendo un lungo corridoio, in cui i suoni dei passi erano attutiti da tappeti disposti sopra il pavimento, e ai rumori e alle voci non era consentito rimbombare, grazie a una serie di arazzi che tappezzavano le pareti. «Farò tutto quello che mi sarà ordinato, ma su un punto, su un solo punto, sarò intransigente con il Duca. Tu, Gesualdo, dovrai accompagnarmi. Sarai la mia guida e il mio braccio destro. Non voglio nessun altro accanto a me nel tragitto da qui a Rimini.»

«Mio giovane amico, tu sei forte e robusto, mentre io sono un vecchio invalido. Non credo che il nostro Signore acconsentirà a questa tua richiesta. Anche se non mi convoca ormai da tempo e non mi ha più affidato missioni dopo quella che entrambi conosciamo, il solo sapermi lontano da qui potrebbe essere motivo di cruccio per il Duca. Dai ascolto. Stai zitto e non avanzare sciocche pretese!»

«Stai zitto, tu! Sarai vecchio e invalido, ma combatti molto meglio e sei molto più astuto di un giovane guerriero. E poi...»

Le parole gli si smorzarono in bocca, perché erano arrivati alla fine del corridoio. La porta spalancata di fronte a loro mostrava la sala da pranzo, dove una lunga tavolata era imbandita con ogni ben di Dio. Due riverenti servitori tenevano aperte le pesanti tende di velluto rosso che fungevano da riquadro all’uscio. Al loro passaggio si proferirono in un profondo inchino, poi richiusero le tende una volta che gli ospiti ebbero varcato la soglia. Andrea e Gesualdo guardarono con meraviglia gli arrosti di pavoni, fagiani e faraone, le patate arrosto e le verdure lesse. Tutti i piatti erano abbelliti da decorazioni, in un tripudio di colori raro a vedersi. Per non parlare degli odori, che giungevano alle narici di Andrea a ricordargli i profumi che solo nella casa paterna aveva a suo tempo apprezzato, e che aveva quasi del tutto dimenticato. Il vino nelle brocche era rosso, del tipico colore scuro del vino del Monte Conero. Andrea avvertì una leggera gomitata, preludio del consiglio sussurrato dal Mancino.

«Vacci piano con il vino. Per uno come te, abituato a Verdicchio e Malvasìa, il Rosso Conero può essere pericoloso. Va subito alla testa!»

«Il momento favorevole potrebbe non durare a lungo, e quindi dobbiamo agire ora a sostegno del nostro amico Sigismondo Malatesta», iniziò a dire Berengario rivolto ai suoi ospiti, mentre addentava un coscio di pollo, tenendolo per l’osso, mentre l’unto dalla mano gli scivolava lungo l’avambraccio. «Ora che Leone X è morto, Urbino e il Montefeltro vanno strappate ai Medici e alla Santa Sede! Entro breve tutti i territori delle Marche, compresa la Marca Anconitana, dovranno essere riportati ai giusti equilibri. Sottomessi sì, allo stato della Chiesa, ma pur sempre con governi civili indipendenti. Purtroppo, il Duca Francesco Maria Della Rovere sembra essersi ritirato nella sua Senigallia, rinunciando a riconquistare il Ducato di Urbino, toltogli da Cesare Borgia e poi passato al nipote di Papa Leone X. Inoltre, i territori di Jesi sono nel più totale abbandono. Dopo la morte del Cardinal Baldeschi, è stato inviato un legato pontificio, che sembra non abbia tanto intenzione di governare la città, quanto di finire di ridurla allo stremo, alla miseria, approfittando della vacanza di un governo civile.»

A queste ultime parole, il cuore di Andrea fece un balzo. Il governo civile della città di Jesi era suo di diritto. Se il Duca di Montacuto voleva ristabilire gli equilibri politici, sarebbe bastato che lo avesse rinviato nella sua città, e ci avrebbe pensato lui a mettere a posto le cose e far rientrare nei ranghi questo famigerato legato pontificio. Che senso aveva mandarlo a combattere per il Signore di Rimini? Ma forse gli intenti del Montacuto erano ben altri. Forse gli avrebbe fatto comodo mantenere la situazione di disordine nella vicina Jesi, ora che aveva fatto fuori il Consiglio degli Anziani e aveva preso in mano il governo della Città e della Marca Anconitana. Magari, all’ultimo momento, avrebbe girato le spalle a tutti e avrebbe venduto Ancona al Papa per qualche decina di migliaia di fiorini d’oro. O forse si sarebbe alleato segretamente con il Duca della Rovere e avrebbe fatto fronte comune con lui, contro il Papa e contro lo stesso Malatesta, affinché quest’ultimo non avesse esteso le sue mire espansionistiche verso Sud. Chissà! Ad Andrea non sarebbe dispiaciuto ritornare a Jesi e poter rivedere la sua amata. Ma se neanche era stato informato della morte del suo giurato nemico, il Cardinal Baldeschi, figuriamoci se fosse passato per la mente del Duca farlo ritornare in patria. Per cui Andrea decise di rimanere in silenzio e seguitare ad ascoltare il ragionamento del Duca Berengario, portando distrattamente alla bocca alcune patate e assaporando la loro delicata bontà. Solo fino a pochi anni prima non si conosceva neanche l’esistenza di questo delizioso tubero, che era stato da poco importato dal Nuovo Mondo. Un servo gli versò del vino rosso nella coppa e lui lo trangugiò per accompagnare le patate lungo il loro percorso verso lo stomaco.

«Il Papa da poco nominato, Adriano VI, è un burattino, un fantoccio in mano all’oligarchia ecclesiastica, che ha fatto sì di spazzare via la casata dei Medici, che stavano prendendo troppo potere, finanche a Roma. Non credo che durerà a lungo, prima che Giulio de’ Medici escogiti qualcosa per farlo fuori e riprendere le redini dello Stato Ecclesiastico. Per cui dobbiamo sfruttare il momento, prima che sia troppo tardi. Domani mattina di buon ora, Andrea, partirai per Pesaro, dove prenderai il comando di una guarnigione dell’esercito di Sigismondo Malatesta. Guiderai questa guarnigione verso Urbino, mentre il Malatesta raggiungerà la stessa città da Nord con il resto del suo esercito, attraverso i territori del Montefeltro. Stringerete Urbino in una morsa, da nord e da sud e, sia Medici che occupano il Montefeltro, che il conte Boschetti che governa Urbino su incarico della Santa Sede, non avranno scampo. Tu, Gesualdo, accompagnerai Andrea fino a Pesaro. La strada è lunga e rischiosa, e tu conosci le vie migliori da percorrere. Farai in modo che Andrea giunga a destinazione il prima possibile. Poi tornerai subito indietro. Che non venga a sapere che per qualche motivo, valido o meno che sia, tu abbia seguito Andrea in battaglia. Entro quattro giorni ti rivoglio qui a castello, altrimenti…», e si passò due dita a strisciare la pelle del collo, simulando quello che avrebbe fatto la lama di un coltello premuto contro la giugulare.

Anche cercando con se stesso di non ammetterlo, Andrea aveva scorto brillare una luce di tradimento negli occhi del Duca, mentre questi parlava. Non si era mai fidato di lui, e ora anche meno. Quando poi lui e Gesualdo furono congedati e, uscendo, incrociarono due brutti musi di sgherri, che non si erano mai visti prima a corte, i timori di Andrea furono ancor più accentuati. Per fortuna il Mancino, in cui aveva cieca fiducia, nelle ore e nei giorni a venire, gli sarebbe stato accanto a difenderlo a costo della sua stessa vita.

«Secondo te chi sono quei due, Gesualdo? Sicari, forse? Tagliagole?»

«Non saprei. È la prima volta che li vedo. Ma le loro facce non ispirano alcunché di buono. Ma non parliamone qui. Vieni, andiamo a scegliere i cavalli per domattina. Nelle stalle potremo parlare tranquillamente.»

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