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La Corona Bronzea
Il Camerlengo si affacciò al terrazzo che dava sul piazzale sottostante e gridò, con quanto fiato aveva in gola, rivolto ai fedeli assiepati in curiosa attesa:
« Nuntio vobis gaudium magnum! Habemus Papam, eminentissimum et reverendissimum dominum Adrianus Florentz, qui sibi imposuit nomen Adrianus sextus. »
Voci e acclamazioni si levarono dalla Piazza sottostante, in attesa che il nuovo Papa si facesse vedere e parlasse alla folla dei fedeli. Mentre Innocenzo aiutava il nuovo Papa a vestire i paramenti sacri di rito, nella sua mente i pensieri scorrevano veloci. Questo Adriano VI non durerà molto, prima che qualcuno della famiglia De’ Medici ci metta mano. Ma che duri un mese, un anno o un secolo, nessuno potrà più accusare me. Da domani Innocenzo Cybo se ne ritorna a Genova.
Come tutti gli altri, anche il Cardinale Alessandro Cesarini fece i bagagli per ritornare nella sua sede, a Orvieto. Giuntovi il quattro marzo dell’anno del Signore 1522, lì per lì rimase un po’ interdetto dal fatto che la sua sede vescovile fosse stata arbitrariamente occupata dal suo collega, ma all’udire la proposta di quest’ultimo quasi non riusciva a credere alle sue orecchie. Lui che avrebbe fatto carte false per avere la Curia Vescovile di Jesi, lasciata vacante dal Cardinal Baldeschi, se la vedeva offrire su un piatto d’argento da chi ne era stato prescelto come titolare, solo perché legato ai luoghi in cui aveva trascorso l’infanzia. Incredibile, ma vero! Un’occasione di certo da non lasciarsi scappare. Suggellato il patto con lo Jacobacci, Alessandro Cesarini, desideroso comunque di riposarsi per qualche giorno, inviò un messaggero a Jesi, per preannunciare il suo arrivo e il suo insediamento alle autorità di quella città. Il messaggero giunse a Jesi solo il 12 Marzo, e il Consiglio Generale della Città, riunito per l’occasione nella Sala Maggiore del Palazzo del Governo e presieduto dal nobile Fiorano Santoni, prese atto della nomina – anche se il Cardinal Jacobacci sarebbe stato più gradito – e deliberò anche di riconoscere al Cesarini un vitalizio di 25 fiorini al mese. Tutto questo quando già il Cardinale era alle porte della città, per cui non si fece neanche in tempo a preparare una degna accoglienza al nuovo Vescovo, che si trovò a entrare in una città del tutto indifferente al suo arrivo. Il Cesarini non rimase deluso solo dell’accoglienza, ma anche e soprattutto del fatto di trovare città e contado in condizioni ben diverse da quello che si aspettava. Dopo il sacco subito dalla città nel 1517, erano seguiti alcuni anni di malgoverno da parte del Cardinal Baldeschi, che avevano ridotto la zona a condizioni di miseria mai viste a memoria d’uomo. Oltre ai danni e alle angherie che erano stati portati dagli eserciti invasori, la peste era tornata come un incubo a terrorizzare la popolazione. E così il Cesarini, che aveva ancora molti interessi nella zona di Anagni e Orvieto, ben presto iniziò a passare gran parte del suo tempo lontano da Jesi, adducendo come scusa i suoi assillanti impegni ecclesiastici presso la sede Papale , e lasciando in sua vece aspri vicegovernatori, che sapevano solo essere crudeli e tiranni nei confronti della popolazione.
Lucia si era data da fare, e non poco, per portare conforto agli ammalati di peste. Il morbo era giunto a Jesi con una cassa di canapa, proveniente dai mercati dell’oriente, acquistata a prezzo stracciato al porto di Ancona da una famiglia di “cordari” Jesini. Alcune famiglie residenti nel borgo di Sant’Alò erano rinomate da tempo immemorabile per l’abilità e la cura con cui fabbricavano corde. Avevano un sistema tutto loro per ottenere dalla canapa grezza cordini e corde di tutte le lunghezze e calibri, che venivano vendute al mercato a prezzi concorrenziali rispetto a quelle fabbricate in altre zone d’Italia. Non appena Berardo Prosperi, il capofamiglia, aprì la cassa per verificare la qualità della canapa acquistata da suo figlio e suo nipote, fu aggredito dalle pulci, che finalmente libere cercarono il loro pasto di sangue, a scapito di molti componenti della comunità dei borgatari. Le case dei cordari erano costruzioni basse, che formavano una fila unica, una attaccata all’altra, al bordo di un ampio piazzale, detto “prato”, dove quegli artigiani lavoravano, essenzialmente all’aperto. Avevano infatti bisogno di ampi spazi, dove allungare le fibre di canapa e intrecciarle fino a farle diventare corde, con l’aiuto di strani marchingegni dall’aspetto di ruote.
Lì per lì nessuno fece caso alle punture degli insetti, ci si era abituati, ma dopo qualche giorno Berardo e alcuni altri uomini e donne della borgata caddero malati, in preda alla febbre alta, e con bubboni in varie parti del corpo, chi sulla schiena, chi dietro al collo, chi sulla pancia. Il morbo aveva fatto presto a diffondersi da una casa all’altra, tutte attaccate come erano, e poi si era propagato verso la campagna. Ma ben presto era arrivato a colpire anche famiglie residenti in città, all’interno della cinta muraria.
Lucia aveva appreso a suo tempo dalla nonna come cercare di curare i malati di peste. Aveva sentito dire che ad Ancona, dove il morbo si era diffuso in maniera esponenziale, chi se lo poteva permettere si faceva ricoverare e curare nel “Lazzaretto”. Ma secondo lei non era un’idea molto saggia concentrare le persone ammalate in un unico luogo. Era meglio tenere isolato il malato nella sua casa, per evitare che contagiasse a sua volta persone sane, prendendo le opportune precauzioni ci si doveva avvicinare a lui. Quando doveva entrare nella stanza di un ammalato, Lucia si copriva ben bene con vestiti pesanti, ma solo dopo essersi cosparsa tutto il corpo con un unguento a base di citronella, basilico, menta, mentrasto e timo. L’odore che emanava era quasi nauseabondo, ma era un ottimo rimedio per non farsi pungere da pulci e pidocchi che, chissà perché, infestavano sempre le dimore degli appestati. Con un fazzoletto di seta, copriva anche bocca e naso prima di avvicinarsi al malato, al fine di evitare di respirare gli umori cattivi da questi emessi. La prima cosa da fare era far spogliare il paziente per osservare quante pustole avesse addosso e quale fosse il loro aspetto. Se erano dure e scure, esse andavano spalmate con un unguento a base di olio canforato e ittiolo, al fine di farle ammorbidire e maturare. Le pustole dovevano infatti esplodere e far fuoriuscire il loro cattivo contenuto, chiamato dai medici con il termine di “pus”. La febbre andava invece combattuta con infusi a base di corteccia di salice e con l’applicazione di pezze bagnate sulla fronte del malato. Tutta la casa doveva essere purificata con fumigazioni ottenute dalla combustione di olio di canfora, in cui erano stati messi a macerare per alcuni giorni rametti di cipresso, buccia di melograno e cannella. Lucia sapeva bene che se l’ammalato presentava difficoltà a respirare era condannato a morte sicura. Tanto valeva chiamare un sacerdote per fargli impartire l’estrema unzione. Ma nessun religioso, primo fra tutti Padre Ignazio Amici, si prestava a portare i conforti di rito agli appestati. Avevano tutti troppo paura di rimanere contagiati a loro volta. Se invece le pustole, nel giro di alcuni giorni, di solito una settimana, si ammorbidivano e lasciavano fuoriuscire i cattivi umori, dando origine poi a cicatrici, il paziente poteva considerarsi fuori pericolo e si sarebbe avviato alla guarigione. Quando un malato di peste moriva, tutte le suppellettili, mobili, letto, coperte e tutto ciò che era venuto a contatto, direttamente o indirettamente, con la persona infetta, dovevano essere ammassati davanti alla sua dimora e dati alle fiamme. I cadaveri non potevano trovare sepoltura all’interno delle chiese, ma venivano portati in aperta campagna e seppelliti in profondità, sotto un ampio strato di terra, meglio se argillosa.
Lucia aveva così portato aiuto a centinaia di ammalati, sia in città, che nei borghi e nelle campagne e, grazie alle precauzioni da lei prese non si era mai contagiata. Si sentiva soddisfatta, ma stanca. Percorrendo a ritroso la Via di Terravecchia, dopo essere stata a visitare un ammalato dalle parti della chiesa di San Nicolò, era dovuta passare al largo da diverse abitazioni, davanti alle quali ardevano i falò purificatori. L’aria della giornata estiva, già di per sé carica di umidità, era resa ancor più pesante dal fumo che aleggiava sulla città e in parte oscurava i raggi del sole. Giunta in Piazza della Morte, non poté evitare di pensare che, a giorni, un patibolo sarebbe stato di certo riservato alla sua ancella Mira, accusata di aver ucciso il Cardinale Artemio Baldeschi. Scacciò quel truce pensiero e si infilò dentro Porta della Rocca, guadagnando Via delle Botteghe, zona molto più gradevole e sana rispetto alle strade percorse fino a poc’anzi. Sembrava quasi che le antiche mura romane, rafforzate e ricostruite qualche decennio prima grazie all’ingegno dell’architetto Baccio Pontelli, avessero fatto da baluardo naturale all’epidemia di peste, che aveva colpito solo pochi abitanti del nucleo storico della città. Non appena guadagnato quell’ambiente confortevole, Lucia abbassò il fazzoletto attraverso cui aveva fin lì filtrato l’aria da respirare. Sciolse i capelli, lasciandoli liberi di scendere sulle sue spalle e lungo la schiene, poi con le mani diede una rassettata alla veste stropicciata. Certo, non aveva l’aspetto elegante che avrebbe imposto il suo rango, ma si sentiva più presentabile. In pochi passi raggiunse la Domus Verroni, si infilò sotto l’arco e cercò con lo sguardo Bernardino. Lo vide indaffarato a restaurare la sua bottega ma, quasi percependo il suo arrivo, fu lui il primo a chiamarla.
«Mia Signora! Che gioia vedervi qui. Come potete rendervi conto, lavoro ce n’è tanto da fare, ma ce la sto mettendo tutta. Credo che fra non più di un mese la stamperia potrà ricominciare a lavorare a pieno regime. E tutto grazie a voi. Devo esservi davvero riconoscente per tutto quello che avete fatto per me, e la prima opera che andrò a pubblicare sarà di certo il vostro trattato sui “ Principi di medicina naturale e guarigione con le erbe”. »
Lucia sorrise compiaciuta, ma Bernardino avvertì la forzatura di quel sorriso, che cercava di sovrastare la stanchezza che la attanagliava.
«Ma voi, Madonna, siete davvero stanca. Non vorrei rimproverarvi niente, ma penso che sia ora che ve la facciate finita di visitare tutti questi appestati. Prima o poi vi ammalerete anche voi. Non pensate alla vostra figlia Laura? E ad Anna, che per voi è un’altra figlia? Come potrebbero fare senza di voi? Siete l’ultima Baldeschi rimasta in vita, assumetevi le vostre responsabilità, una volta per tutte! E non solo nei confronti delle bambine, ma della città intera.»
«Oh, Bernardino, non ricominciate con le storie che devo riappropriarmi del governo della città. Ve l’ho detto: sono una donna, non me la sento di occupare un posto che è stato sempre spettante di diritto a un uomo.»
«Non c’è un uomo di questa città che valga la metà di quanto valete voi. Ne è dimostrazione ciò che avete fatto e state facendo per gli ammalati. Ma non basta. Non potete lasciare la città in mano a dei nobili incompetenti, che lasciano che il vicario del Cardinal Cesarini faccia i suoi porci comodi, terrorizzando città e contado, e pretendendo tasse e balzelli da uomini martoriati dalla miseria e dalla pestilenza. È ora di cacciare Cardinale e vicario, e solo voi siete in grado di farlo, prendendo in mano lo scettro che vi spetta di diritto. E poi c’è Mira! Vi siete dimenticata di lei? Avevate promesso di proteggerla, e invece il processo è andato avanti. E ora, per di più, c’è l’accusa di stregoneria per lei!»
«Cosa? Che state dicendo? Il processo nei confronti di Mira è portato avanti dal giudice civile, dal nobile Uberti, e…»
«Padre Ignazio Amici ha raccolto le testimonianze. Sembra che, mentre il Cardinale precipitava dal balcone, qualcuno l’abbia sentito gridare “volo, sto volando”, addirittura col sorriso sulle labbra. E quindi non c’è altra spiegazione se non quella che Mira abbia stregato il Cardinale. Credo proprio che, in queste ore, la giovane sia sotto le grinfie dei torturatori della Santa Inquisizione. Magari tra qualche giorno vedremo sorgere una catasta di legna in Piazza della Morte. Beh, per noi che conosciamo la verità, non sarebbe bello assistere alla morte di un’innocente, per di più in una maniera così atroce.»
Senza neanche ribattere, Lucia si rigirò indignata e si diresse a passo veloce verso il Torrione di Mezzogiorno. «Sia mai!», la sentì gridare Bernardino mentre si allontanava, più rivolta a se stessa che a lui. «Ho promesso che in questa città mai più nessuna donna finirà su una catasta ardente. E manterrò la mia promessa.»
CAPITOLO 3
Preparate orsù le pinze e tenaglie roventi, dopo accenderemo il rogo.
( Tomás de Torquemada)
Le guardie, riconoscendo Lucia e consce della sua autorità, non ebbero il coraggio di sbarrarle il passo. La contessina, paonazza in viso, entrò come una furia nel Torrione di Mezzogiorno. Si ritrovò in un androne deserto. Ogni tanto delle grida femminili, soffocate e attutite dalle spesse mura, giungevano alle sue orecchie. Di certo già stavano torturando Mira. Non sapendo dove fosse la sala delle torture, e non riuscendo a capire da dove provenissero le urla della ragazza, spalancò la prima porta che trovò. Il giudice Uberti era seduto dietro una scrivania, assorto a esaminare scartoffie. Sopra il tavolo spiccava un libro dall’elegante copertina e dal titolo scritto in caratteri cubitali “Malleus Maleficarum”.
«Nobile Dagoberto Uberti! Cosa significa tutto ciò? Avevate promesso di giudicare voi la mia ancella, e di essere clemente con lei. Perché, or dunque, consegnarla agli inquisitori? Avete ascoltato a suo tempo la mia testimonianza. Mira si è difesa, mio zio la stava aggredendo, e forse l’avrebbe uccisa. Lei lo ha solo ferito, e in maniera non grave. Il fatto che sia precipitato dal balcone è stato un caso, una fatalità, indipendente dalla volontà della ragazza. Ve lo ho detto e ripetuto: Mira merita una punizione, ma non la morte!»
Il Giudice Uberti, rispetto a qualche anno addietro, ai tempi del processo contro Andrea Franciolini, era visibilmente invecchiato. Profonde rughe solcavano il suo viso, la schiena si era incurvata e, per camminare, doveva aiutarsi con un bastone di legno di noce. Una grave forma di artrosi, testimoniata dalla deformità delle articolazioni delle mani, lo affliggeva. Anche la vista gli era calata notevolmente e per la lettura si aiutava con una lente di vetro montata su un supporto metallico. A quel tempo erano pochi, infatti, coloro che possedevano degli occhiali, che dovevano giungere da Venezia ed erano assai costosi. Sollevò la testa dalle carte e rispose a Lucia con voce pacata, quasi rassegnata.
«Vedete, mia Signora, ho studiato bene il caso, e mi sembra che ci siano molte, troppe incongruenze. Voi siete l’unica testimone, quindi dovrei fidarmi di quello che mi dite. Purtroppo, gli stessi fatti, raccontati da voi e raccontati da Mira, sono in netto contrasto. Voi asserite che vostro zio abbia sorpreso la vostra ancella a rubare nel suo studio. Ma, a parte i libri, lì c’era ben poco da rubare. E notoriamente, Mira non sa neanche leggere. Oltre tutto so bene che vostro zio teneva denari e preziosi in ben altre stanze. Credo invece che Mira sia entrata di proposito nello studio del Cardinale, sperando che, offrendogli il proprio corpo, sarebbe stata ben ricompensata.»
«Cosa volete insinuare, Giudice?»
«Non voglio insinuare niente. Cerco solo di ricostruire come sono andate le cose, e credo di essermi fatto bene il quadro della situazione. Vedete, abbiamo fatto esaminare da esperti il corpo di vostro zio, prima di ricomporlo per la sepoltura. A parte il fatto che non indossava le calze braghe, il Cardinale aveva il membro completamente ricoperto di una sostanza oleosa, un unguento. A detta degli esperti, trattasi di una sostanza a base di essenze vegetali, che solo le streghe sanno preparare. Ma veniamo al sangue di vostro zio. Voi dite che Mira lo aveva ferito in maniera leggera con un coltello, anzi, con un tagliacarte. Ma di sangue ce n’era in abbondanza, sparso per tutto lo studio, e poi intorno al cadavere, tanto che sembra che il Cardinale, più che per la caduta, sia morto dissanguato. Una sola ferita, ma che ha raggiunto in maniera precisa un importante vaso sanguigno. E quello che è strano è che Mira sarebbe dovuta essere molto più sporca di sangue di quanto non l’abbiamo trovata. Aveva sì i vestiti sporchi, ma se aveva colpito con tale precisione, doveva avere mani e braccia lorde di sangue. E invece così non era! E i vestiti? Non erano propriamente i vestiti di un’ancella, erano vestiti di più importante fattezza.»
«E da tutto questo cosa ne avete dedotto?», chiese Lucia, con la voce che iniziava quasi a tremare, per il timore che l’Uberti stesse per snocciolare la storia che la incolpava della morte del suo zio.
«Vedete», e il Giudice mise una mano sopra il Malleus Maleficarum. «Questo libro, fornitomi da Padre Ignazio Amici, mi ha illuminato. Scritto da due inquisitori tedeschi, Jacob Sprenger e Heinrich Insitor Kramer, qualche decennio fa, esso indica come riconoscere le streghe, a prescindere dai loro poteri. Tutte possono essere riconosciute da un segno indelebile che portano sulla pelle, un neo, una macchia, una voglia o una cicatrice, spesso nascosto dai peli delle ascelle, del pube, o magari dai capelli. Ecco perché gli Inquisitori, come prima cosa, fanno denudare la strega e le fanno rasare tutti i peli, per poter evidenziare questo segno. Ma per Mira questo non è stato neanche necessario. Lei ha un evidente neo in corrispondenza del labbro superiore, proprio sotto il naso, sopra il quale addirittura crescono dei peli. Padre Ignazio afferma che quello è un segno inequivocabile, e io, dopo aver letto questo testo, convengo con lui.»
«E tutto questo cosa avrebbe a che fare con la morte di mio zio?»
«Ne ha a che fare, più di quanto voi, anche come testimone, possiate immaginare. Il fatto che Mira sia una strega è confermato non solo dal neo, ma anche dalle vesti che indossava quel giorno. I soliti esperti che abbiamo interpellato ci hanno confermato che quelli sono abiti che indossano le streghe più potenti, abiti tramandati da generazione in generazione, da madre a figlia. E veniamo dunque alla ricostruzione dei fatti, come ormai è chiaro siano realmente avvenuti. Mira, forte dei suoi poteri, entra nello studio del Cardinale, con la chiara intenzione di sedurlo e di ammaliarlo. Lo scopo è quello di ottenere denari, molti denari, in cambio della prestazione amorosa. Il Cardinale ci cade, si lascia sedurre, si toglie le calze braghe e si prepara a giacere con la vostra ancella. Ma lei vuol aumentare ancor di più l’appagamento dei sensi della sua vittima, e usa l’unguento, per indurlo a un maggior piacere, e di conseguenza a una maggiore elargizione in denaro. Solo che quell’unguento, in dosi giuste aumenta il piacere della carne, ma in dosi eccessive provoca allucinazioni e visioni. No, Mira non vuole uccidere il Cardinale, è l’ultima delle sue intenzioni: non si uccide la gallina che produce le uova d’oro. Ma la situazione ormai le è sfuggita di mano. Chi ha impugnato il coltello per primo? Forse il Cardinale in preda all’obnubilazione, magari per fingere di minacciare la ragazza in un crescendo di gioco erotico. E lo usa anche per tagliarle le vesti al fine di denudarla. Ed ecco che allora la strega, sentendosi troppo a rischio, fa appello ai suoi poteri. Non tocca il coltello, ma lo guida con la forza magica dei suoi oscuri poteri. Solo con la forza del suo pensiero lo lancia contro la spalla del Baldeschi, in un punto ben preciso. Una sola ferita, ma mortale.»
«E poi?»
«E poi, il tocco finale. Apre la finestra e fa precipitare il Cardinale giù dal balcone, addirittura inducendolo a credere che fosse in grado di volare. E quindi, come giudicare questa donna? Quale punizione merita? Non è stata, come dite voi, semplice difesa. Sia pure che all’inizio non era sua volontà, ha ucciso, e lo ha fatto a ragion veduta. Per di più, grazie all’uso di poteri non comuni a tutti, ma specifici di donne che noi chiamiamo streghe. STREGHE! La morte è la meritata fine per un’assassina come lei. La decapitazione. Ma se è una strega, sappiamo bene che la fine che merita è un’altra.»
«No!», esclamò Lucia, che sentiva il cuore batterle forte nel petto al solo pensiero di vedere Mira agonizzante al di là di un muro di fiamme.
Proprio in quel momento, un grido più forte, proveniente dalla sala delle torture, giunse alle sue orecchie.
«Basta così, giudice! Conducetemi immediatamente nella stanza dove stanno torturando quella poveraccia. Quest’orrore deve avere termine subito!»
«Non ve lo consiglio, non è un bello spettacolo a cui assistere. Padre Ignazio e i suoi torturatori non si faranno certo intimidire dalle parole di una donzella, per quanto nobile sia…»
«È un ordine. Conducetemi nella sala delle torture!»
Il Giudice, intuendo che la giovane sapeva il fatto suo e che poteva avvalersi dei poteri che gli spettavano di diritto, per essere la discendente del Cardinal Baldeschi, nonché la promessa sposa di colui che ufficialmente sarebbe dovuto essere designato Capitano del Popolo, abbassò la testa e obbedì a Lucia. Guidò la giovane per scale e corridoi semibui, fino a raggiungere una possente porta, davanti alla quale due energumeni armati di lance sbarravano il passo a chiunque. Le grida di Mira erano ora vicinissime. A un cenno del giudice, i due sgherri si misero di lato e aprirono la porta. A Lucia sembrò di essere giunta all’inferno. La sua ancella Mira era stata legata sopra un tavolaccio, completamente nuda, con le braccia e le gambe divaricate a formare il disegno di una croce di Sant’Andrea. I peli del pube e delle ascelle le erano stati rasati e ora, mentre uno dei torturatori tirava le catene legate ai polsi e alle caviglie della ragazza mettendo in tensione le articolazioni di gambe e braccia fin quasi a slogarle, un altro, con delle grosse forbici, le stava tagliando i capelli, gettandoli in un braciere acceso. Nello stesso braciere, che emanava un fumo pestilenziale, erano stati messi diversi arnesi di tortura perché si arroventassero. Lucia, nonostante lacrimasse sia a causa del fumo che dello spettacolo cui si era trovata improvvisamente ad assistere, scorse Padre Ignazio Amici prelevare dal braciere una grossa tenaglia e avvicinare le branche incandescenti di quest’ultima a uno dei seni di Mira. Se non l’avesse fermato in tempo, le avrebbe afferrato il capezzolo con la pinza, arrivando fino a staccarglielo.
«Pervertito di un prete che non siete altro. Fermatevi. Che state facendo?», e gli afferrò il braccio che reggeva la pesante tenaglia.
Il Domenicano si girò e, con un sorriso sadico stampato in viso, riconobbe la giovane Lucia Baldeschi.
«Ah, mia Signora. Siete venuta ad assistere alla confessione della vostra ancella? Benvenuta! Ci siamo quasi, ancora poco e ammetterà tutte le sue colpe. In fin dei conti, siete voi che l’avete accusata ed è giusto che siate presente nel momento in cui si condannerà da sola.»
Visto che il Domenicano si era fermato, il torturatore che aveva tagliato i capelli all’inquisita, aveva preso in mano un affilatissimo rasoio, con l’intenzione di rasare la testa della malcapitata.
«Fermatevi, fermate tutto. Slegatela, vestitela e riportatela in cella. Non posso tollerare che una donna sia trattata in questa maniera.»
Il tono di Lucia era autoritario e tutti si fermarono. Anche Mira cessò di gridare. Ma Padre Ignazio la guardò con aria di sfida.
«Qui dentro sono io che comando. Lasciatemi finire il mio lavoro. Dobbiamo scoprire tutti i segni che Mira ha sul suo corpo e che dimostrano che è una strega. E poi dobbiamo ascoltare dalle sue labbra la sua piena confessione. Con quale autorità voi, contessina, volete intromettervi nelle questioni che riguardano la Chiesa e la Santa Inquisizione?»
«Con l’autorità che mi spetta di diritto e che in questo preciso momento reclamo!», gridò Lucia, con una forza d’animo che neanche sospettava di possedere. «Da questo istante sono il vostro Capitano del Popolo, e come tale ho il diritto di decidere anche sulla sorte di questa donna. Voi, carcerieri, eseguite subito quanto vi ho poc’anzi ordinato: slegate Mira, datele dei vestiti e riportatela in cella. Voi, invece, Padre Ignazio Amici, seguitemi nello studio del Giudice Uberti. Debbo parlarvi in privato.»