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La Corona Bronzea
La notizia, ancora sconosciuta alla maggior parte dei presenti, anche perché solo in parte vera, fece il suo effetto e il brusio cominciò a sollevarsi tra la folla, costringendo Lucia ad alzare il tono della voce, fin quasi a provare dolore alla gola.
«Come dicevo questo è un bene per noi. Abbiamo pieno diritto di cacciare gli esosi vicari del Cardinale. E lo faremo senza spargimento di sangue. Già so di avere l’appoggio del Papa, a cui ho inviato delle missive in proposito, tramite dei messaggeri che sono già in viaggio per Roma. Padre Ignazio Amici, il Domenicano Inquisitore, sta già facendo i bagagli, ma state certi che non sarà il solo a lasciare la città nei prossimi giorni. E avremo di nuovo un Vescovo Jesino, il Cardinale Ghislieri. Avanti, dunque, deponete le armi, tornate a casa e dormite sonni tranquilli. Anche perché – e questa è una solenne promessa da parte mia – domani mattina stessa varcherò quel portone, sì, il portone del Palazzo del Governo. Mi presenterò al Consiglio dei Migliori e reclamerò la carica che mi spetta di diritto, per essere stata promessa in sposa ad Andrea Franciolini: SARÒ IL VOSTRO CAPITANO DEL POPOLO!»
L’entusiasmo esplose tra gli astanti, chi era in ginocchio si sollevò, tutti abbandonarono attrezzi e armi che avevano in mano, qualcuno si diresse verso la giovane nobildonna per sollevarla e portarla in trionfo lungo Via delle Botteghe fino a Piazza del Mercato. Lucia, sollevata dalle braccia di alcuni energumeni, sorrideva, e il suo sorriso illuminava tutto e tutti. A un certo punto anche le campane delle varie chiese iniziarono a suonare a festa. Quando il corteo giunse dinanzi a Palazzo Baldeschi, Lucia chiese di essere messa a terra, perché era molto stanca e voleva rientrare nella sua dimora per riposare.
«Andate ora, e ritornate domani a festeggiare il nuovo Capitano del Popolo e il nuovo Vescovo di Jesi.»
Mentre la folla si disperdeva e Lucia stava per varcare la soglia del suo palazzo di famiglia, a molti non sfuggirono i movimenti là, all’ingresso di Palazzo Ripanti. Il vicario del Cardinal Cesarini stava facendo caricare in fretta e furia i suoi bagagli su un carro trainato da cavalli.
Quel bastardo ha mangiato la foglia e se ne sta già andando!, disse tra sé e sé. Meglio così. Non sono così sicura di poter controllare tutti coloro che reclamano la sua testa.
Le emozioni di quel giorno erano state tali e tante da far sprofondare Lucia in un sonno profondo, senza aver neanche cenato. Avrebbe desiderato fare un bagno caldo prima di coricarsi, ma a palazzo non aveva più neanche un’ancella che si prendesse cura di lei. Inoltre, col fatto che aveva preferito adottare per le bambine la residenza di campagna, aveva trasferito là la maggior parte dei domestici e nell’austero palazzo Baldeschi era rimasta ben poca servitù, per lo più maschile, che si occupava delle cucine e delle stalle.
Fu risvegliata da un insistente bussare alla porta della sua camera, che ancora non si era fatto neanche giorno. A fatica, si sollevò dal letto, si diede una sistemata alla bell’e meglio e aprì la porta di uno spiraglio, per vedere chi fosse che la disturbava a quell’ora insolita. Un giovane ragazzo, ancora imberbe, ma vestito di tutto punto in farsetto, calze braghe e con in testa un cappello dalla lunga piuma, fece una riverenza e cercò di scusarsi per l’orario, quasi balbettando.
«Scusatemi tanto, Madonna, ma quello che devo riferirvi è della massima urgenza. Mi manda il boia, dalla Piazza della Morte.»
A Lucia salì un groppo alla gola e la sua mente, da assonnata qual era, ritornò lucida all’improvviso, ricordandosi che quello era l’orario deciso per l’esecuzione capitale di Mira. Che stava succedendo? Perché mai il boia aveva mandato questo giovane a scomodarla?
«Attendi qualche istante, ragazzo. Mi rendo presentabile e sono subito da te. Accomodati in una delle seggiole lungo il corridoio. Faccio prima che posso.»
Si acconciò i capelli, indossò un abito sobrio che le concedesse libertà di movimenti, e in breve raggiunse il giovane nel corridoio.
«Allora? Cosa succede?»
«Il boia vi vuole in Piazza della Morte.»
«Perché mai?», rispose Lucia indignata. «Avevo detto chiaramente che giammai avrei voluto assistere all’esecuzione della mia ancella! Quindi, perché disturbarmi?»
«C’è un problema. L’ultimo desiderio di un condannato a morte è sacro e deve essere esaudito. Il boia non può procedere finché la vittima non sia stata soddisfatta. È una legge non scritta, ma per Gerardo, il nostro boia, è una questione d’onore.»
«E io cosa c’entro, di grazia? Quale sarebbe l’ultimo desiderio di Mira?»
«È questo il punto. La vostra ancella ha chiesto che voi le siate vicina in punto di morte. Dovete venire.»
«Non se ne parla nemmeno. Ho giurato a me stessa che non avrei mai più assistito a un’esecuzione capitale.»
«In questo caso sarò costretto ad andare a svegliare il giudice Uberti, che non ne sarà molto contento...»
Avendo capito l’antifona, e sapendo che in quei giorni era meglio non mettersi a piantare grane con le autorità della vecchia guardia, Lucia decise di seguire il giovane in Piazza della Morte. In fin dei conti, da lì a poche ore si sarebbe presentata a Palazzo del Governo e avrebbe per sempre dato il ben servito alle vecchie “cariatidi”, che ormai non avrebbero più continuato a ricoprire cariche pubbliche. Quindi era meglio non iniziare a inimicarsi giudice e quant’altri prima del tempo.
Camminando lungo via delle Botteghe nell’umidità dei primi albori, Lucia si strinse nel vestito percorsa da un brivido di freddo, nonostante si fosse già nel pieno della stagione estiva. Attraversò Porta della Rocca continuando a seguire il ragazzo che le faceva strada, ma quando intravide la sua giovane ancella, il cuore le fece un balzo, lo sentì pulsare in gola e non riuscì a trattenere le lacrime che cercavano di sgorgare dai suoi occhi. Mira aveva la testa già appoggiata sul ceppo. Il boia era lì a fianco a lei, col cappuccio in testa e la scure affilatissima poggiata in terra. Non aveva dovuto prendersi neanche la briga di raccoglierle i capelli della condannata in una coda o in una crocchia, in quanto il giorno precedente ci avevano pensato i torturatori di Padre Ignazio Amici a farglieli tagliare quasi a zero. La nobildonna si sentì addosso lo sguardo supplichevole della sua ancella e non poté fare a meno di avvicinarsi, carezzandole la nuca e avvicinando le sue labbra alla guancia della ragazza.
«Mira…»
L’ancella abbassò lo sguardo e si rivolse alla sua vecchia padrona con un filo di voce.
«Adesso posso morire felice. Ho voi qui accanto. So che mi avete risparmiato un più atroce supplizio e volevo ringraziarvi personalmente prima di morire. Pregate per me, e raccomandate la mia anima al Signore.»
Lucia prese la mano di Mira, le si avvicinò di più e le sussurrò delle parole all’orecchio, in modo che né il boia, né il ragazzo che l’aveva accompagnata potessero udire.
«Potrei risparmiarti anche questo di supplizio. Ho delle monete d’oro con me. Potrei pagare il silenzio di questi due. Posso mandare il ragazzo dal falegname a chiedergli di fare una cassa, dicendo che questo era il tuo ultimo desiderio: essere seppellita all’interno di un sarcofago. Il boia non ti ucciderà ma racconterà a tutti di averlo fatto. Gli farò riempire la cassa con delle pietre, in modo che pesi come se contenesse il tuo corpo, e la farò sistemare nei sotterranei della Chiesa della Morte. Nessuno andrà a guardarci dentro. Tu scapperai giù per la discesa e raggiungerai il convento delle Clarisse della Valle. Vestita da suora non ti riconoscerà nessuno. Lascia passare del tempo e poi allontanati da Jesi. Potrai rifarti una vita da qualche altra parte…»
«No, mia Signora. La morte non mi fa più paura. La mia vita finisce qui, oggi, su questa Piazza, su questo ceppo. Provvedete solo a che il mio corpo abbia una degna sepoltura.»
Mira rivolse lo sguardo verso Gerardo, annuendo con la testa. Il boia capì al volo. Il desiderio della condannata era stato esaudito, si poteva procedere. Lucia fece un passo indietro, lasciò la mano di Mira, mentre la scure si sollevava. Guardò gli occhi del boia attraverso i fori praticati nel cappuccio e le sembrò di scorgerli lucidi. Ma non fece in tempo a verificare la veridicità della sua sensazione, perché con un colpo secco lo strumento si abbatté sul collo della vittima. La testa rotolò sul selciato, mentre il resto del corpo fu scosso da convulsioni per alcuni brevi istanti, fino a che si irrigidì e cadde di lato. Gli schizzi di sangue provenienti dal collo sfiorarono Lucia, ma non una goccia andò a imbrattare le sue vesti.
Dopo un attimo di silenzio assoluto, si sentì in lontananza il canto di un gallo. Si stava facendo giorno, quando la Piazza della Morte fu attraversata da un grido prolungato, un grido proveniente dalla viscere di Lucia Baldeschi.
«Noooooooo…!»
CAPITOLO 7
Le cavalcature erano veloci e non temevano le salite, le discese e i sentieri in mezzo alla boscaglia. Così, per evitare il centro di Ancona, Andrea e Gesualdo avevano attraversato la stretta vallata tra le colline, erano risaliti per il Taglio di Candia e, lasciando sulla loro sinistra la Rocca di Montesicuro, erano discesi verso Paterno. Da lì, avevano raggiunto in breve il castello delle Torrette, possedimento dei pacifici Conti Bonarelli. Le porte del castello, come al solito, erano aperte, e pertanto Gesualdo fece cenno al suo giovane amico di attraversare il cortile interno senza fermarsi a dare tante spiegazioni.
«Ehi, voi! Rallentate e scendete da cavallo. Non conoscete le buone maniere, zotici villani?», li apostrofò una guardia, che già aveva preso una freccia dalla faretra e stava armando la sua balestra, mentre i due cavalieri sollevavano la polvere del piazzale facendo schizzare via impaurito chiunque si trovasse sul loro percorso.
Gesualdo sollevò il gonfalone con le insegne del Duca di Montacuto, invitando Andrea a fare altrettanto, a far capire con chi aveva a che fare chi si intrometteva sul loro cammino. La guardia li scrutò in cagnesco, sputò in terra, ma abbassò l’arma. In pochi istanti, i due sbucarono dalla porta settentrionale del castello e si ritrovarono sull’ampia sterrata che correva lungo la costa fino alla foce dell’Esino.
Ormai il sole era alto, quando Gesualdo rivolse per la prima volta la parola ad Andrea. Il mare, sulla loro destra, era attraversato dagli splendidi riflessi donati dai raggi solari. Era tale il bagliore che si rischiava di accecarsi rivolgendo lo sguardo alla distesa d’acqua. A sinistra la collina digradava ripida fino alla strada, a tratti con cenge rocciose, a tratti con le ultime propaggini di un intricato bosco di querce castagnole, rovere e roverelle.
«Fra breve saremo a Rocca Priora. È territorio Jesino, ma ho degli amici. Ci fermeremo a rifocillarci e chiedere notizie sulla sicurezza del percorso. Sappiamo bene che delle brutte facce dovrebbero essere passate prima di noi. Se è gente intelligente non si dovrebbe essere fatta notare. Ma ho avuto l’impressione che quei due fossero degli stolti», disse Gesulado tirando le redini e rallentando il suo palafreno.
Andrea si adeguò e i cavalli passarono dal veloce galoppo a un’andatura più moderata, a un trotto che costringeva i cavalieri a stringere le ginocchia e assecondare i movimenti degli animali.
«Stolti e ubriaconi, ma non per questo meno pericolosi, anzi!», replicò Andrea, dando un’occhiata alla rocca a cui si stavano avvicinando. «Guarda, Gesualdo! Non ti sembra strano? È un avamposto di confine, ma non ci sono scolte sul camminamento della guardia.»
Non fece in tempo a terminare la frase, che il suo destriero si impennò in quanto due frecce erano giunte sibilando e si erano conficcate nel terreno a pochi passi dalle sue zampe. Andrea dovette reggersi forte per non essere disarcionato, ma si mantenne in sella, gettò lo sguardo verso il suo anziano compagno e capì al volo quello che Gesualdo aveva intenzione di fare. Quest’ultimo fece scartare il cavallo sulla destra, fino a farlo girare su se stesso, per dare l’impressione al nemico che stesse battendo in ritirata. Andrea lo imitò, andandogli appresso. Ritornarono indietro per un breve tratto sullo stradone, poi piegarono verso l’entroterra e si immersero nell’intricata foresta ripariale, costituita per lo più da pioppi e salici. Mentre i pioppi svettavano in alto, i salici offrivano una buona protezione ai due cavalieri, che muovendosi con circospezione, cercando di fare in modo che il loro passaggio non agitasse le chiome degli alberi più di quanto non facesse il vento, raggiunsero il greto del fiume Esino, che in quel periodo dell’anno era piuttosto basso, per il fatto che la stagione era ormai asciutta da diverso tempo. Fecero immergere i cavalli in acqua per raggiungere l’altra riva e giungere alla Rocca senza attraversare il ponte che stavano per percorrere poc’anzi, quando erano stati attaccati.
«Fai attenzione. L’altra riva è costituita da terreni paludosi. I cavalli potrebbero affondare nel fango e saremmo costretti ad abbandonarli. E non sarebbe una buona cosa rimanere a piedi. Dobbiamo rimanere in acqua. Vedi quel canale? Porta l’acqua del fiume al vallo che circonda la rocca. Raggiungeremo il retro del castello attraverso il fossato. Ricordo che lì c’è una porta di servizio, che non sarà difficile scardinare. È una porta di legno, che permette di introdursi negli scantinati. Non sappiamo cosa sia successo. Forse i nostri due “amici” hanno colto di sorpresa le guardie e sono all’interno del castello, ma non ne sono sicuro. Ho udito con le mie orecchie che ci avrebbero atteso alla torre di Montignano, che è un presidio molto meno protetto ed è già in territorio di Senigallia.»
«E cosa pensi che sia successo qua?»
«Forse il castello, a nostra insaputa, è stato vittima di un attacco nemico, magari è caduto nelle mani dei soldati del Duca Della Rovere. Non lo so, ma di una cosa sono sicuro: che chiunque ci abbia tirato quelle frecce si trova all’interno della rocca. Non sono state lanciate dall’alto, dai camminamenti della guardia, ma da alcune feritoie che si aprono tra il primo e il secondo piano. Se abbiamo fortuna, entreremo nella Rocca dalle cantine e prenderemo di sorpresa questi nostri nemici, che secondo me non dovrebbero essere numerosi.»
«No, Gesualdo, potrebbe essere un suicidio. Non sappiamo con chi abbiamo a che fare, né sappiamo quanti uomini troveremo là dentro. Piuttosto cerchiamo di defilarci dal retro del castello e allontanarci verso nord.»
«Forse hai ragione, mio giovane amico. Vedo che hai la mente di un abile stratega, piuttosto che l’impulsività di un anziano guerriero come me, che cerca sempre lo scontro a qualsiasi costo. E questo è un bene.»
Intanto avevano raggiunto il fossato che circondava la rocca e ora si trovavano sotto il ponte levatoio, stranamente abbassato, nonostante le ostilità mostrate poc’anzi dall’interno. Sempre rimanendo in acqua e facendo il minor rumore possibile, aggirarono la costruzione, raggiungendo il lato che guardava il mare, su cui non si apriva alcuna finestra, al fine di non offrire facili accessi ai pirati provenienti dall’Adriatico.
«In questo punto non dovrebbe essere rischioso abbandonare il vallo», sussurrò il Mancino, cercando di tenere il tono della voce il più basso possibile. «Ci ritroveremo nel terreno ghiaioso che da qui giunge fino alla riva del mare.»
In effetti in quella zona il terreno non era paludoso, e i detriti portati dal fiume Esino nel corso dei secoli avevano formato una spiaggia di ghiaia e ciottoli, molto bella a vedersi, quanto insidiosa per gli zoccoli e per le zampe dei cavalli. Come gli animali furono all’asciutto, i cavalieri li spronarono per allontanarsi a un’andatura veloce, ma il fondo ghiaioso ostacolava i movimenti degli animali, che più cercavano di prendere il via, più affondavano tra i sassi. A un certo punto, il cavallo di Gesualdo si piegò sulle zampe anteriori, rimanendo inginocchiato: il cavaliere, sbilanciato in avanti, fu sbalzato dalla sella e si ritrovò a terra, per rimettersi in piedi con un’abile capriola. Ritornò al cavallo, riprese le redini, gli gridò di rialzarsi e saltò di nuovo in sella.
«Vedo con piacere che ancora sei agile come un giovanotto, nonostante l’età e nonostante tu abbia l’uso di un solo braccio. Complimenti. Avevo ragione a volere uno come te al mio fianco per questo periglioso viaggio!», fece Andrea, che nonostante la situazione non aveva perso lo spirito.
Ma il trambusto, il rumore delle zampe dei cavalli sulla ghiaia, le grida umane e i nitriti equini, non erano di certo passati inosservati dall’interno della rocca, dalla quale in quel momento stavano fuoriuscendo tre cavalieri bardati di armatura, con le celate strette in testa e con le lance in resta.
«Come volevasi dimostrare!», imprecò Gesualdo. «Le insegne sono quelle Roveresche. Scappiamo, finché siamo in tempo. Non ci tengo a essere infilzato dalle loro lance. Abbiamo un po’ di vantaggio. E anche i loro cavalli avranno difficoltà a galoppare sulla ghiaia. Mettiamo i nostri destrieri al passo e dirigiamo verso nord lungo la spiaggia. Se manteniamo la distanza non ci raggiungeranno. Appena possibile ci butteremo nell’entroterra e dirigeremo verso il centro abitato di Monte Marciano. Il Piccolomini si è sempre mantenuto neutrale, sia nei confronti di Jesi, che di Senigallia. Gli sgherri del Della Rovere non ci inseguiranno.»
Ma poco più avanti, sempre sulla spiaggia, verso nord, scorsero un gruppo di guerrieri a piedi, vestiti con casacche colorate, anch’esse riportanti le insegne del Della Rovere. Si udì una prima sorda esplosione, accompagnata da una nuvola di fumo. Andrea sentì un oggetto fischiare, passando veloce vicino al suo orecchio.
«Cos’era?», chiese al suo amico.
«Una palla di piombo. Hanno armi da fuoco. Fucili ad avancarica. Molto meno precisi delle frecce, ma molto più micidiali, se ti acchiappano.»
«Siamo stretti in una morsa, Gesualdo. Cosa facciamo ora?»
«Là!», rispose quest’ultimo che, con un colpo d’occhio, aveva già realizzato un piano. Una piccola fascia erbosa aveva conquistato una lingua di spiaggia e si dirigeva verso la collina, a breve distanza. «Quella è una buona via di fuga.»
Mentre altre palle di piombo fischiavano vicino alle loro teste, i cavalli, appena raggiunta la fascia di terreno più stabile, nitrirono soddisfatti, recuperando le forze e guadagnando in breve le falde della collina. Intanto anche i tre cavalieri nemici si erano lanciati al loro inseguimento, e ora quelle che passavano vicino alle loro orecchie non erano più palle metalliche, ma pericolose frecce, dalla punta affilatissima. Fortunatamente, i cavalli di Andrea e del Mancino erano ben più veloci degli altri, e non erano neanche appesantiti da cavalieri bardati da armature. I due amici spinsero i cavalli su per il ripido sentiero che saliva verso l’abitato di Monte Marciano. Quando giunsero alla sommità della collina, con il paese già in vista a poche leghe di distanza, si rigirarono verso il basso, e videro che gli uomini del Della Rovere non si erano avventurati oltre un certo punto.
«Come previsto, nei territori del Piccolomini non entrano. Per ora, abbiamo tratto in salvo la vita», affermò il Mancino.
«Per ora!», fu la replica di Andrea.
I due sgherri, Amilcare e Matteo, erano originari di un paesino montano nel territorio della Repubblica Serenissima di Venezia. Ponte nelle Alpi si trovava sulla strada Alemagna, che proseguiva verso nord, oltre i baluardi rocciosi delle Dolomie, fino a raggiungere le terre germaniche. Almeno una volta ogni due mesi gli abitanti del paese sconfinavano in Tirolo per fare scorta di birra. Alcuni di loro avevano cercato di imparare l’arte di distillare l’orzo e il luppolo per ricavarne il buon liquido ambrato e spumoso, ma data anche la difficoltà di comprendere la lingua degli amici tirolesi, non erano mai riusciti a ottenere un prodotto altrettanto buono come quello che andavano ad acquistare al di là del valico. Amilcare, che era particolarmente ghiotto di birra, ne aveva portato una certa scorta, che ormai però era agli sgoccioli.
«In queste zone, non so perché, la birra diventa imbevibile. È solo un’ora e mezza che stiamo cavalcando ed è diventata calda come il piscio», disse Amilcare, scolando l’otre ed emettendo un rumoroso rutto.
Lanciò il contenitore vuoto e floscio al compagno più giovane, che lo afferrò al volo e lo alzò sopra la bocca aperta, facendovi cadere le ultime gocce di liquido. Poi, deluso, lo agganciò dietro la sella. A Matteo, pur di mettere in corpo qualcosa di corroborante, andava bene anche il vino locale e così aveva arraffato un paio di otri di Rosso Conero dalle cantine del castello di Massignano. Si era reso conto che il vino rosso era buono anche se non era fresco, ma che se ne potevano ingerire quantità molto inferiori rispetto alla birra prima che iniziasse a girare la testa. Così, per il momento, cercava di non passarne al compare, che ne avrebbe bevuto in quantità esagerata senza rendersene conto.
«Ho ancora sete! Passami il vino, Matteo!», quasi gridò Amilcare rivolto al suo compare, incurante che stavano avvicinandosi alle mura del castello di Rocca Priora, dopo aver attraversato rumorosamente il ponte di legno che permetteva di superare il fiume Esino.
«Non se ne parla nemmeno!», rispose l’altro. «Dobbiamo rimanere lucidi, almeno fino all’ora di pranzo, per portare a termine la missione che ci è stata affidata dal Duca. Dopo che avremo infilzato allo spiedo il damerino di corte e la sua guardia del corpo, potremo festeggiare. Cerca di fare silenzio, piuttosto. Siamo sotto le mura del castello. Non vorrai mica tirarti addosso tutta una guarnigione di militi?»
Amilcare fece un gesto con la mano, come se volesse scacciare un fastidioso insetto.
«Il Duca ha detto che non dobbiamo preoccuparci, né qui a Rocca Priora, né quando saremo arrivati alla Torre di Montignano. Ha unto i cardini delle porte giuste e nessuno si curerà di noi. Vedi soldati che ci scrutano sui camminamenti della guardia?»
«No, ma questo non è che mi rassicuri. Saranno ben nascosti, ma ci stanno di certo osservando.»
«Ma non ci fermeranno. E alla torre di Montignano non troveremo nessuno. Avremo campo libero, prenderemo posizione, aspetteremo i due e li faremo secchi senza che neanche se ne accorgano. Un lavoretto semplice e pulito. Poi non resterà che tornare ad Ancona a riscuotere il compenso e via… Verso casa. Non vedo l’ora di ritornare alle nostre care montagne. E, appena possibile, stai sicuro che busserò alla porta del borgomastro di Vipiteno per fare una bella scorta di buona birra. Altro che vino!» E così dicendo emise un altro sonoro rutto in direzione di una feritoia sulle mura del castello, dietro la quale aveva avuto l’impressione di veder brillare occhi che osservavano la scena. Ma nessuno, dalla rocca, diede segno di vita e i due la superarono senza problemi. Avanzarono verso settentrione lungo la riva del mare, con i cavalli che faticavano un po’ ad avanzare nel terreno ghiaioso, fino a raggiungere il Mandracchio, un baluardo fatto ergere dal Piccolomini a difesa dell’entroterra dalle scorrerie dei pirati. Entrarono nella fortezza e fecero abbeverare i cavalli, poi si dissetarono essi stessi alla fonte di acqua fresca. Il piazzale, già di prima mattina era un andirivieni di persone di tutti i tipi, da contadini che con il carretto carico di frutta e ortaggi si dirigevano a vendere i loro prodotti al mercato di Monte Marciano, a signorotti locali che esigevano le decime dai contadini per continuare a coltivare i terreni di loro proprietà, ad armigeri che sellavano i cavalli, dopo averli accuratamente scelti nelle stalle. Uno stalliere si avvicinò a Matteo e Amilcare e, dopo aver superato il ribrezzo dovuto all’odore che essi emanavano, si rivolse a loro in maniera gentile.
«Avete forse bisogno di cavalcature fresche, messeri? Per due denari prendo i vostri cavalli in consegna e ve ne do in cambio due ben riposati. Quando ripasserete di qui, al ritorno, potrete riprendere le vostre cavalcature.»
«Non so se ripasseremo di qui al ritorno», replicò Matteo, facendo in modo che non fosse Amilcare a rispondere, essendo quest’ultimo molto più rude di modi rispetto a lui. «I cavalli sono del Duca di Montacuto, ed è meglio che glieli riportiamo. Ne va delle nostre teste. Piuttosto, dobbiamo raggiungere la torre di Montignano. Ormai non dovrebbe essere molto distante. Indicaci la strada migliore.»