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La battaglia di Benvenuto
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La battaglia di Benvenuto

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La battaglia di Benvenuto

Ormai pronto a partirsi per Lamagna, Corrado la maggior parte dei Baroni aveva raccolto a Lavello col pretesto di magnifiche feste, ma in sostanza per ispiarne i sentimenti, e spengerli tutti alla occasione. Trapassarono le feste, e fu imbandito l’ultimo banchetto: sedeva Manfredi in faccia a Corrado, e con molte parole ora cortesi, ora amorose, lo lusingava; all’improvviso si levò in piedi, e vôltosi verso un donzello saracino gli disse: «Alì Haggì, pel Profeta che ha visitato, porgimi di quel buon vino col quale Federigo soleva propinare alla salute di sua casa.» Il Saracino gli porse un fiasco di argento, Manfredi n’empì una tazza (la sua era già piena), e la offrì a Corrado esclamando: «Alla salvezza di Svevia, all’Aquila nera in campo d’oro!» – «E all’Aquila di argento in campo azzurro!» rispose Corrado, e presa la tazza, vi accostò le labbra, e speditamente la vuotò. Manfredi era rimasto con la sua alla mano, e gli occhi senza sua volontà stavano fitti sul volto di Corrado; quando questi ebbe posato la tazza, egli accostò precipitosamente alla bocca la sua, quasi per nascondervi il volto, e la bevve ad un tratto. Poi ostentando una gioia smoderata chiese un liuto, ma nell’accordarlo spezzò le corde:– gettò lo istrumento e si pose a cantare: la sua voce era angelica, – ma confondeva i suoni, disordinava la musica; l’anima in somma era lontana da prestarsi a quegli ufficii. Finiva la festa, ed ognuno si ritirava al riposo. Manfredi pure andò a trovare il suo letto, ma s’egli vi trovasse riposo io non lo posso accertare. Non erano molte ore ch’ei vi giaceva, allorchè una voce traverso la porta gridò: «Messere il Principe, svegliatevi, accorrete, l’Imperatore si muore!» Manfredi balzato da letto si pone una maglia di ferro sotto le vesti, ed esce precipitoso. Giungeva al letto del moribondo… Il volto di questo, livido per la presente malattia, più livido per la ricordanza dei suoi misfatti, appariva veramente terribile. Sporgeva le labbra tutte annerite come lo assetato; i capelli avea ritti, grondava sudore. Manfredi si abbandonò sul letto percotendosi il seno, piangendo dirotto, e ad ora ad ora esclamando: «Oh! signor mio, ch›è questo mai?» – «Manfredi,» rispose a gran fatica il giacente «io muoio, e Dio sa come! abbi… almeno… pietà di mio figlio, Manfredi!…» Trasse un anelito, cadde riverso sul guanciale, e spirò.

Un uomo che non aveva mostrato dolore nè gioia, ma si era rimasto sempre allato dell›Imperatore, immobile come la statua di un Santo, trasse da parte Manfredi, e con parole tranquille gli disse: «Messere il Principe, fa mestieri provvedere: volete voi assumere il baliato del Regno?» – «Io dominare, Marchese Bertoldo?» rispondeva Manfredi: «oh! sono sazio, ma sazio assai delle cose della terra… Io vo› passare la rimanente mia vita a piangere il mio fratello.» – «Ben pensato, Principe: io co› miei Tedeschi sosterrò in Sicilia le ragioni di Corradino,» soggiunse Bertoldo. «Vi aiuti Dio nella impresa.» – «Amen,» – riprese l›Hochenberg, e si allontanò.

Si sospettò súbito di veleno, ma ora a nessuno tornava dirlo. Il paggio saracino, che solo non aveva interesse a celarlo, non fu più visto in corte; e così Dio gli abbia salvato l›anima nell›altro mondo, com›egli certamente in questo perdè la vita. Tentò il Marchese Bertoldo di Hochenberg con quella improvvisa domanda penetrare la mente di Manfredi, ma questi era più destro a celare che non il Marchese a conoscere. Aveva Bertoldo un senso sicuro di giudicare gli uomini pensando sempre alla peggio; Manfredi poi possedeva il genio della malignità. Il Marchese poteva essere appena inalzato all›onore di primo istrumento dei misteriosi disegni del Principe di Taranto.

L›Hochenberg siccome balio di Corradino spedì ambasciatori al Pontefice per implorare perdono. Rispondeva Innocenzio, volere prima di tutto essere messo in possesso del Regno, giudicherebbe dipoi qual dritto potesse avere Corradino su quello. Non si accettavano cotesti patti, le pratiche per la pace nuovamente si rompevano, la guerra ricominciava. Innocenzio, messo da parte le profferte fatte pel tempo passato ad Enrico d’Inghilterra, si consigliò di conquistare per sè il Regno di Sicilia. A tale intento raccolse in Anagni le milizie delle Repubbliche lombarde e toscane, quelle della Marca di Ancona, e più altre. Al punto stesso istigava i Baroni del Regno alla ribellione; ed in questo faceva buon frutto, perchè Manfredi o lo aiutava, o non lo impediva. Bertoldo travolto dalla necessità dei casi, considerando non essere omai in suo potere sedare quelle sommosse, propose da senno a Manfredi di cedergli il baliato. Il Principe finse da prima ricusare, ed ora con questa, ora con quella scusa, andava schermendosi: alla fine accettò, a condizione che il Marchese gli cedesse i tesori di Corrado, e andasse in Puglia a ragunare nuovo esercito. Bertoldo, toltosi da dosso quel grave carico di difendere il Regno, e di mostrarsi la prima persona contraria agl’interessi del Papa, non pure non tenne i patti, ma si manifestò avverso a Manfredi. Conobbe il Principe la disperata sua condizione, e lo errore commesso dell’essersi affidato a quegl’incostanti spiriti de’ Napoletani: ma opponendo la frode alla frode, prevenne Bertoldo; finse fare volontariamente quello a che tra poco sarebbe stato costretto, e andò a Cepperano ad umiliarsi al Pontefice. Narrasi che giungesse perfino a tenergli il palafreno per la briglia, quando valicò il Garigliano.

Gli accorgimenti di Manfredi non dovevano gran pezza durare; egli li aveva operati per sospendere i casi presenti, sapendo che da cosa nasce cosa, e il tempo la governa, e per dare a divedere all’Hochenberg che penetrava i disegni suoi, e poteva renderli vani. Infatti il Marchese pensando che il sottomettersi adesso dopo Manfredi non gli avrebbe fruttato molto utile, stimò meglio mantenersi nemico, ed aspettare occasione di vendere a caro prezzo la sua resa. L’occasione non tardò molto a venire. Vedeva Manfredi la petulanza dei fuorusciti napoletani, Morra d’Aquino, San Severino, che seco lui abitavano in corte del Papa; e con destrezza maravigliosa dissimulava, e gli oltraggi ricevuti altamente nell’animo imprimeva, divisando bene vendicarsene un giorno. Intanto Bonello di Anglone, suo capitale nemico, ottenuta dal Papa la investitura di parte del Principato di Taranto, per la strada di Alesina s’incamminava a prenderne possesso. Manfredi in quel giorno medesimo, avendo saputo che l’Hochenberg con lo esercito si avvicinava, mosse da Teano per andare ad abboccarsi con lui. Volle la fortuna, che per via s’imbattesse in Bonello, il quale tutto orgoglioso si avanzava tenendo la mano dritta del cammino. Manfredi scongiurava i compagni, affinchè adesso lo lasciassero stare, – non sarebbe mancato tempo a trarne vendetta; ma essi risposero, che non avrebbero consentito giammai che si facesse un tanto spregio al figliuolo dello Imperatore Federigo. Le due compagnie si accostavano, nè quella di Bonello sembrava volesse cedere; allora Marino Capece, uomo di natura avventata ed amicissimo di Manfredi, trascorse col suo destriero, e percotendo con la mazza ferrata le spalle di Bonello: «Scendi, schiavo,» gli disse «e fa omaggio al figlio del tuo Re.» Questo fu il segnale della battaglia; posero mano alle spade, e cominciarono a menare. Il Principe, da che non aveva potuto impedire che accadesse quel fatto, si studiò che riuscisse felice; e da franco cavaliere spintosi con incredibile furia addosso al Bonello, lo afferra al cimiero, gli scioglie la barbuta che gli difendeva la testa, e col pugnale gli sega la gola: i compagni di Bonello, visto quel caso, fuggono a precipizio. La nuova giunse tosto in corte del Papa, il quale, infellonito per la morte d’Anglone, spedì gente a perseguitare l’uccisore. Manfredi, stimandosi male sicuro all’aperto co’ suoi fedeli, si rifugiò nel castello dell’Acerra, dove rimase alquanti giorni. Bertoldo, visto Manfredi in disgrazia del Papa, gli si fece subito nemico, o con tutto il suo esercito ad Innocenzio si vendè. Il Marchese Lancia avvertì il suo nepote Manfredi, affinchè si partisse dall’Acerra. Manfredi adesso ramingo e profugo era venuto in parte che non aveva più terreno che lo sostenesse. Sperava ripararsi in Lucera, ma anche questa città era in poter dei nemici: nondimeno nessuno altro rifugio si presentava, e in ogni caso era forza tentare: ma torrenti, montagne e nemici, prima di pervenirvi si frapponevano. Chi avrebbe voluto correre tanto manifesto pericolo, e partecipare seco lui la presente sventura? Corrado e Marino Capece, singolare esempio di amore fraterno e di lealtà, risposero, stesse pure di buon animo, ch’essi come pratichi di que’ dirupi speravano in Dio di condurlo a buon salvamento. – Si posero in via. – Le cose andarono sul principio a seconda: fino a Magliano non incontrarono anima vivente. Giunti in questo borgo, trovarono una colonna dell’esercito di Bertoldo, quivi fermata con ordine di chiudere le vie di salute a Manfredi. Si accôrsero i fuggitivi dello imminente pericolo, e si dettero a traversare il borgo con molta accortezza. Già stavano presso ad uscirne con avventuroso successo, allorchè intopparono in doppio filaro di carri posto a capo del cammino: i soldati lasciativi a guardia domandarono chi fosse; la più parte del séguito di Manfredi stimandosi perduta, trasse le spade gridando: «Svevia! Svevia! Siamo qui per punirvi, traditori.» Si venne a un duro affronto, nel quale il caso, più che la prodezza, dispensò i colpi. Manfredi, i Capece, ed alcuni altri rimasti addietro, affrettando i cavalli giunsero sul luogo, e videro che i loro compagni, fieramente assalendo, ed i nemici ritirandosi, avevano reso libero il passo: al punto stesso sentirono un mormorio lontano di gente, che si affaccendava per venire in soccorso della guardia dei carri; quantità di fuochi errava qua e là pel borgo; poco più che tardassero, erano irrimediabilmente chiusi nel mezzo. Manfredi, quantunque conoscesse la morte imminente, spinse il destriero per soccorrere i suoi, ma Corrado Capece lo rattenne, e gli disse: «Voi perdete, Principe, e quelli non salvate; essi furono valorosi, ma imprudenti… spargiamo una lagrima sul destino loro, e partiamo.» Toccarono allora di sproni, e quanto più poterono veloci si allontanarono. Traversarono nei giorni seguenti per Bisacca, per Bimio e per Guardia dei Lombardi, e tenendo il sentiero più alpestro giunsero sul fare della notte a vista di Atropalda, castello dei Capece.


* * *

«Baiardo!» gridò Marino: che precorse Manfredi sotto il castello. Fu sentito un cigolío di chiavacci, un aprire d›imposte, un montare di balestra, e una voce tuonante, che domandò: «Chi viva?» – «Viva Svevia, e San Gennaro: cala il ponte, Baiardo; son Marino.»

Fu calato il ponte; e quando Manfredi ebbe posto il piè su la soglia, i due fratelli Capece scesero da cavallo, gli si prostrarono alle staffe, e dissero: «Messere il Principe, siete in casa vostra.» – «Se la fortuna non mi corre sempre nemica, spero potervi dire le stesse parole a Napoli nel castello capuano.»

Le mogli dei Capece con donnesca leggiadria fecero al profugo Manfredi tutte quelle accoglienze che seppero maggiori; egli volle che sedessero alla sua mensa insieme ai loro mariti, e qui dimenticando le passate e le presenti sventure si mostrò tanto gaio e scherzoso, che quelle gentildonne, vedendolo in séguito spessissimo volte a corte, affermarono, ch›ei non fu mai tanto giulio, quanto in quella notte di pericolo. Alla mattina, Manfredi, salutate le dame, ed ingrossata la scorta di alcuni cavalieri della gente dei Capece, si dipartiva. Giunse a Melfi, che gli chiuse le porte; Ascoli seguì l’esempio, ed uccise per giunta il Governatore, che gli si manifestava devoto. Un uomo meno magnanimo si sarebbe dato per vinto; Manfredi, più che mai fermo contro la fortuna, si volse a Venosa, che rispettosamente lo raccolse.

Era Lucera dei Saracini in podestà del Marchese di Hochenberg, il quale vi aveva lasciato a governarla Marchiso con ordine di tenerne sempre chiuse le porte. Marchisio eseguiva i comandi del suo signore, ma non gli valse il consiglio.

Manfredi, lasciata a Venosa la scorta, tolse seco i due fedeli Capece e il maestro di caccia di Federigo, e si dispose a partire per Lucera; scansò Ascoli e Foggia. La notte lo sopraggiunse su l’entrare di quella sterminata pianura, che anche oggigiorno chiamano Tavoliere della Puglia; il cielo minacciava burrasca, ma il Principe di Taranto non era uomo da arrestarsi per la paura di un cielo turbato: – si avanzavano; le tenebre aumentano, il vento cresce impetuoso; – di tanto in tanto grosse goccie di pioggia gli bagnano il volto. Allo improvviso cessò il vento; tutto fu un profondo silenzio: per quella solitudine nessuna altra cosa si ascoltava, meno l’alternare dei passi dei cavalli. – Venne un lampo, poi un tuono, e dietro uno scroscio terribile di grandine: il vento che aveva cessato, quasi mostrando di non volere essere il primo ad attaccare la battaglia con gli altri elementi, tornò ad imperversare pel cielo. I baleni si succedevano con tanta rapidità da sembrare un incendio continuato. Spesso i cavalli balzarono indietro spaventati; i cavalieri, comunque usi a vedere la morte, si facevano il segno di salute, e si raccomandavano a Dio, perocchè lo spettacolo della natura sconvolta spaurisca assai più dell’aspetto della morte. Qual fu in quell’ora l’anima di Manfredi? Se i suoi compagni avessero potuto fissarlo in volto, avrebbero conosciuto dalla penosa contrazione dei muscoli, dagli occhi smarriti, dal sembiante disfatto, che nel suo cuore passava una tempesta più fiera di quella che sovvertiva in quel punto e cielo e terra. Ma essi stavano troppo preoccupati per la propria vita, onde fare coteste osservazioni; e la voce di Manfredi non tremava, anzi ora gl’incoraggiva, ora con qualche bel motto gli rallegrava. Disse un antico filosofo, non so con quanta convenienza di senno, che l’uomo onesto in fondo della miseria è cosa degna degli Dei: io per me penso, che un grande scellerato, il quale senta tutto lo inferno del rimorso, e sollevi la fronte baldanzosa e serena, sia non il più bello, certo bensì il più maraviglioso spettacolo della umana natura. – Così camminarono una lunga via: si squarciò l’orizzonte rovesciando sopra la terra torrenti di fuoco; le case più lontane ne furono illuminate; Riccardo maestro di caccia esclamò: «Coraggio, coraggio, cavalieri, ecco qui presso il ricovero.»

«Quale?» domandarono tutti.

«Non avete veduto la casetta che vi sta dal manco lato a breve distanza? Venitemi dietro, chè ne conosco la via; la fece fabbricare per comodo della caccia la Maestà dello Imperator Federigo nostro signore.»

«Riccardo!» urlò involontariamente Manfredi «per amore del tuo Dio, non mi condurre a quella casa.»

«E dove volete passare la notte, messere il Principe? Che San Gennaro vi aiuti, sentite che grandine è questa? Venite, venite.»

Manfredi senza aggiungere parola gli tenne dietro: allorchè fu per passare la porta della casa prese pel braccio Corrado Capece per evitare di cadere.

«Principe, male v’incolse?»

«Nulla, Corrado, ho posto il piede in fallo.» E si avanzò.

Riccardo frugando così al buio rinvenne alcuni fasci di legna, li dispose sul focolare, trasse dalle tasche il focile, e suscitò un bel fuoco.

«Questa è fiamma veramente reale,» disse sorridendo Manfredi.

«Oh! ne abbiamo fatti di belli di questi fuochi, messere il Principe… quelli sì che erano tempi!… figuratevi, l’ultima volta ch’ebbi l’onore di servire la Maestà dello Imperatore vostro padre, lo vidi in questa medesima stanza… mi sembra proprio di averlo innanzi gli occhi… lì a canto a voi…»

«E’ parvi da durare questo tempo?» interruppe Manfredi.

«Messer sì,» rispondeva Riccardo. «Sicchè, com’io vi diceva, stava in questa stanza, e vi potrebbe essere anche adesso… e perchè no? Egli morì giovane, mi ricordo, giungeva appena a cinquantasei anni… e vivo io grazie al cielo, che ne ho sessanta, e sono un vassallo, poteva bene viver egli che ne aveva cinquantasei, ed era il più potente signore di tutta Cristianità; ma la fama mormorò allora che fosse avvelenato… Oh! quando poi c’entra il veleno, si muore anche dell’età del Re Corrado…»

«Santa Vergine! questo è un fulmine,» disse Manfredi segnandosi.

«Messer sì…» soggiunse Riccardo. «Raccontano molti, e l’ho inteso sovente dalla propria bocca di mio padre, buona memoria, che rammentando i morti dopo la mezza notte sogliono talvolta apparire… ma io non ho paura… io… E perchè dovrei averne?… per quanto mi venne dato, l’ho servito fedelmente sempre, in vita o in morte. Quantunque comprendessi benissimo, che la preghiera di un pover’uomo come sono io possa poco o nulla giovare alla grande anima di uno Imperatore, pure per quello che può valere le ho detto, e le dico la mia orazioncella. Insemina, se ora comparisse in mezzo di noi, io non avrei paura… no, non avrei paura…» e tutto timoroso si guardava d’intorno. «E voi, messere il Principe?»

Manfredi non potendo più sopportare quelle parole. si fece alla porta, guardò il cielo, poi chiamò i compagni e disse: «Mi pare che si metta al buono.»

«Certamente si mette al buono;» rispose Riccardo «tra mezz’ora non cade più pioggia… ma vedete come è mutato il vento!… come tirano di lungo que’ nuvoloni neri neri! – La tempesta va verso Napoli… Pazienza! là si trovano tanti buoni Santi, che ne avranno cura; ma qui non c’è prete che valga a esorcizzarla. Guardate in là, messere il Principe, come fa chiaro. Oh! ne abbiamo avute ben altre di queste nottate con l’augusta Serenità di vostro…»

«E sarebbe bene, Riccardo, che voi andaste con un po’ di strame, se ne trovate, altrimenti col mio mantello, ad asciugare i cavalli.»

«Parvi, messere il Principe? il vostro mantello del più bel verde cambraio, che io abbia visto al mondo! il mio fa più al caso di quelle povere bestie… eh! hanno fatto un bel fare… e poi il mio mantello è più asciutto del vostro, farò con questo.» E così dicendo Riccardo andò per quello che gli aveva comandato il suo signore.

Manfredi facendosi presso ai Capece, che se ne stavano ristretti intorno al fuoco: «Prodi cavalieri, e dilettissimi amici miei,» disse loro «io vengo a togliervi fino il piccolo conforto di asciugarvi le vesti: vedete che si guadagna a seguitare la fortuna del profugo! Tra poco torneremo a cavallo.»

«Principe, noi ci professiamo pronti a lasciare la vita per voi… le spose e i figli abbiamo di già lasciati.»

«Io per me spero che il Cielo mi sarà secondo, se non altro, per potere ristorare dei sofferti danni voi, generosi e fedeli amici miei.»

«Servire un cavaliere cortese come voi siete è di per sè solo una grande ricompensa. I nostri nomi, Principe, passeranno ormai nella memoria dei posteri uniti con indissolubile alleanza; saranno le vostre azioni le lodi nostre, e le nostre opere le vostre lodi: una gloria perenne ricadrà su noi tutti, nè i Trovatori canteranno di Manfredi senza che il nome dei Capece si trovi in qualche stanza della loro ballata.»

Manfredi gli abbracciò, e continuò seco loro a conversare, finchè udirono venire Riccardo che cantava:

«In sella, in sella, cavalieri armati,

Che l’araldo dell’arme ha dato il segno;

Stanno le vostre dame agli steccati,

Un scudo d’oro di vittoria è il pegno.»

Allora si levarono tutti: il cielo appariva in parte sereno; salirono i destrieri, e si riposero in via.

Sorgeva un bel giorno: gran parte dei Saracini stava raccolta sopra le mura di Lucera a cantare il Salè della Nuba matutina, allorquando videro di lontano venire per la pianura quattro cavalieri armati di tutte arme. Giunti che furono a tiro di balestra, tre si rimasero, ed uno si avanzò a testa scoperta in segno di sicurezza, alzando la mano senza guanto per denotare la pace.

«Pel capo di mio padre, parmi Manfredi!» gridò un Saracino.

«È la morte che ti percuota!» rispose un altro. «Chi sa in qual parte si trova adesso il nostro dolce signore!»

«Possano dirmi sette volte cane, e maladetta la mia generazione, se quegli non è il figlio di Federigo!» rispose un terzo.

«Perchè hai bevuto il sangue della vite, Hussein? Non lo aveva detto il Profeta, che il vino ammala il cuore, e ci fa simili allo stolto?»

«Baba Musah, perchè mi dici ebbro? E perchè accusi dei danni della tua vecchiezza il compagno che vede meglio di te? Questo t’insegna la sapienza degli anni? Guarda bene: non distingui l’aquila d’argento sul cimiero appeso all’arcione?»

«Arsullah! Sì certo, è un’aquila quella… Arsullah! È Manfredi davvero.»

«Manfredi, Manfredi,» suonarono a un tratto le mura: «Manfredi, Manfredi,» risposero i Saracini rimasti nei quartieri, e prendevano l’arme, e accorrevano, «Ecco il diletto signore, ecco il nostro Principe, che viene a soddisfare i nostri desiderii, e a riposarsi su la nostra lealtà: ch’egli entri, ch’egli entri prima che il Governatore se ne accorga.» gridavano tutti.

Manfredi era giunto sotto le mura: un Saracino gli accennò un canale pel quale scolava un rigagnolo dalla città; il Principe si getta da cavallo, e si appresta a cacciarsi giù pel condotto: – nol soffrono gli spettatori, si fanno alle porte, le scuotono, le percuotono; – gli arpioni agli urti continuati lasciano la presa, e le imposte traendosi dietro una spaventosa rovina cadono a terra. Marchisio, che già armato muoveva per contrastare Manfredi, vedendolo avanzarsi tutto minaccioso, mutato consiglio, gli s’inginocchia, e gli fa omaggio come a suo signore sovrano.

L’acquisto di Lucera mutò i destini di Manfredi; vi trovava infiniti tesori, i quali, diffusi con accortezza, gli produssero in breve un forte partito, perocchè in ogni tempo il danaro sia stato la prima provvisione per la guerra, e in ogni tempo si trovassero uomini i quali posero l’anima allo incanto pel maggiore e migliore offerente. Ora il Pontefice spediva a tutta fretta un esercito sotto i comandi del Cardinale di Santo Eustachio per opprimere Manfredi sul principio di quelle grandezze; gli teneva dietro Bertoldo. Manfredi si mostrava apparecchiato a combatterli. Il Marchese di Hochenberg, seguendo sempre quella sua doppia e finta natura, mandò un messo fidato a tenere segrete pratiche d’accordo col Principe di Taranto. Rispose questi che volentieri lo raccoglierebbe nella sua alleanza; averlo sempre tenuto per caro fratello, ed amico; conoscere egli di troppo la prepotenza dei casi per volere far carico a Bertoldo della sua passata condotta. Il Marchese non andò più oltre, e stimò avere con molta accortezza provveduto alle cose sue, perchè, se vinceva Manfredi, ei gli era amico segreto: se Innocenzio, ei gli era amico manifesto. Intanto supponendo il nemico fidente di quelle dimostrazioni, mandò molte colonne del suo esercito sotto il comando del suo fratello Oddo a prendere posizione sul contado di Lucera; il nemico però stava all’erta, e avuta notizia del fatto si pone arditamente in campagna, rompe Oddo, e lo incalza fino a Canosa; poi lasciatolo così malconcio in parte che non più possa riunirsi al grosso dell’armata, si fa contro Bertoldo, il quale, dopo due ore di ostinato combattimento costretto a cedere, fugge più che di passo verso Napoli col Cardinale Legato.

Questo Capitolo ormai troppo voluminoso ci costringe a tralasciare il racconto di una serie di piccole perfidie, e di piccoli fatti d’arme, quasi tutti tra loro somiglievoli, pei quali Manfredi, sotto il Pontificato di Alessandro IV, vinti gli esterni e gl’interni nemici, riconquistò tutto il Regno di Napoli. Più grave caso, e degno di memoria è quello pel quale Manfredi di Vicario giunse a farsi nominare Sovrano del Regno di Napoli; e qui lasciato Niccolò Iamsilla scrittore ghibellino, mi fa mestieri appigliarmi a Giovanni Villani di fazione guelfa. Narra dunque costui, «che Manfredi, vedendosi in istato ed in gloria, si pensò essere Re di Sicilia e di Puglia; e perchè ciò gli venisse fatto, si recò ad amici con doni e promesse i maggiori Baroni del Regno; e sapendo come del Re Corrado suo fratello era rimasto un figliuolo chiamato Corradino, il quale per diritta ragione doveva essere erede del Reame di Sicilia e di Puglia, pensò una frodolenta malizia per esser Re. Adunati tutti i Baroni, propose loro cosa si dovesse fare della signoria, perocchè egli avesse novelle come il suo nipote Corradino fosse gravemente ammalato, e da non potere mai reggere il peso di un Regno. I Baroni consigliarono che mandasse suoi ambasciatori in Lamagna per sapere dello stato di Corradino; e se fosse morto, od infermo, fino d’allora protestavano volere Manfredi per Re loro. A ciò si accordò Manfredi come colui che aveva tutto fintamente ordinato, e mandò ambasciatori a Corradino e alla madre con ricchi presenti e grandi profferte; i quali giunti che furono in Isvevia trovarono che la madre del garzone, Elisabetta di Baviera, come donna di gran cuore ed avveduta, gli facea buona guardia, tenendolo confuso con diversi fanciulli di sua età vestiti tutti ad un modo; e detti ambasciatori domandando di Corradino, Elisabetta, temendo di Manfredi, mostrò loro in iscambio un altro di detti fanciulli dicendo: questi è desso. Gli Ambasciatori gli fecero grande riverenza, e presentandogli doni, tra i quali confetti avvelenati, il garzone ne prese, e incontanente morì; onde credendo aver morto Corradino si partirono subito di Lamagna, e giunti a Vinegia fecero fare alla loro galera vele di panno nero, e tutti gli arredi neri, ed eglino medesimi si vestirono a bruno; ed arrivati in Puglia, come gli aveva ammaestrati Manfredi, fecero sembiante di gran dolore, e riferirono la morte di Corradino. Manfredi finse gran pianto, e a grido dei suoi amici, e di tutto il popolo, fu eletto Re di Sicilia, e a Monreale si fece coronare, gli anni di Cristo 1238.» Elisabetta di queste cose informata, mandò ambasciatori a Manfredi per fargli sapere che Corradino viveva, e che il suo retaggio era stato usurpato: rispondeva questi dicendo: «dal trono non potersi scendere se non che morti: stesse sicura, ch’ei lo conserverebbe per Corradino, ed anzi gli mandasse il fanciullo, ch’ei lo avrebbe nelle paterne virtù ammaestrato.»

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