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La battaglia di Benvenuto
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La battaglia di Benvenuto

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La battaglia di Benvenuto

Gregorio Papa, rimesso della presente paura, volgeva la mente a cose maggiori; convoca per l’anno seguente un Concilio a San Giovanni Laterano, e manda lettere circolari a tutti i Vescovi della Cristianità, affinchè intervenissero. Federigo adesso temendo che il suo credito non diminuisse in Lombardia, vi torna con buono esercito, e dopo di avere ad avventuroso fine condotte alcune imprese, assedia Faenza. Qui fu che mancatigli i danari mise in corso monete di cuoio, le quali in séguito, con raro esempio di fede, riscosse pel prezzo di un agostaro l’una, senza apportare il minimo scapito ai possessori. Guglielmo Ubbriachi Ammiraglio dei Genovesi imbarcava i prelati francesi riunitisi in Nizza all’oggetto di portarsi al Concilio. Federigo manda tosto il figlio Enzo o Giovanni colla flotta siciliana per collegarsi a quella dei Pisani, capitanata da Ugolino Buzzaccherini dei Sismondi, e muoversi contro la genovese. S’incontravano il 3 maggio 1241 le due armate nemiche tra il Giglio e la Meloria, e ne seguiva una fiera battaglia, nella quale i Genovesi furono disfatti, ed ebbero diciannove galere prese, e tre cacciate a fondo. I prelati si mandarono nelle prigioni di Puglia, dove si racconta che fossero legati con catene di argento. Ricchissima raccolsero la preda: la fama riporta che i Pisani e i Siciliani si dividessero a moggia il danaro. Come se poi questa ingiuria fosse poca, tanto si adoperò Federigo, che fece ribellare alla Chiesa Giovanni Colonna Cardinale di Santa Prassede, il quale condusse seco nella rivolta i castelli di Colonna, Lagosta, Palestina, Monticello, e più altri. Gregorio IX profondamente angustiato nell’animo, non potendo più comportare tanto acerbo dolore, moriva. Ora non è da dirsi a qual punto si sollevasse la superbia dello Imperatore. Il collegio dei Cardinali di sei soli individui si componeva. Celestino IV nominato Pontefice visse diciotto giorni: dopo lui la Chiesa stette per ben due anni vacante. Insoffribili erano ed obbrobriose le minacce e le villanie, che adoperava Federigo contro il consesso dei Porporati. Odasi un po’ con quali parole gli salutasse: «A voi figli di Belial, a voi figli di Efrem, a voi gregge di perdizione indirizzo la parola, a voi colpevoli di ogni umano sconvolgimento, pietra di scandalo di tutto l’Universo.» Nè andò molto, che lo percosse il gastigo: nel 24 giugno del 1243 fu eletto Papa Sinibaldo del Fiesco, Cardinale di San Lorenzo in Lucina, col nome d’Innocenzio IV. Appena Federigo lo seppe, che vôlto ai suoi cortigiani disse loro: «Di questa elezione noi abbiamo disavanzato assai, imperciocchè costui, che ci fu amico Cardinale, ci sarà nemico Pontefice.» Volendo però se fosse stato possibile nell’antica amicizia continuare, mandò suoi Legati ad Innocenzio per proporgli il matrimonio di una sua nipote con Corrado figlio dello Imperatore, purchè dal proteggere i Lombardi desistesse, ed il Legato che contro di lui predicava la Crociata richiamasse. Si condussero queste pratiche, ora più, ora meno lentamente, fino al 1244, nel qual anno, quando sembrava che fossero vicini a concludere, Innocenzio, avvertito che i Frangipani trattavano di rendere a Federigo le fortezze che tenevano al Colosseo, si traveste da soldato, fugge da Roma, s’imbarca a Sutri, e ripara in Genova sua patria. Se Federigo congiurava contro il Papa, questi dal canto suo non se ne stava. Dicesi, che fosse scoperta in quell’anno stesso una cospirazione ordita dai Frati Minori contro la vita dello Imperatore, e che la più parte di loro ne avessero le mani tagliate, e la testa recisa.

Il Papa, disposto di procedere affatto nemico contro di Federigo, convoca un Concilio a Lione per la festa di San Giovanni. Nel 28 giugno del 1245 ne fu tenuta la prima sessione nel Convento di San Giusto, assistendovi centoquaranta Vescovi. Cominciò Innocenzio esponendo i mali della Chiesa; la Russia, la Polonia, e parte della Ungheria, dai Tartari devastate; Gerusalemme presa dai Carismieni. Costantinopoli dai Vataci minacciata: tutti questi mali attribuisce a Federigo; di spergiuro, di empietà, e di eresia lo accusa. Taddeo da Suessa Legato imperiale, vedendo il Cancelliere Piero delle Vigne non levarsi a difendere il suo signore, sorge arditamente, scusa Federigo, e lo dimostra prontissimo a combattere contro gl’Infedeli. Innocenzio chiede sicurtà; Taddeo nomina i Re di Francia, e d’Inghilterra; il Papa gli ricusa. Nella seconda sessione Taddeo con apprestata orazione difende Federigo; qualifica per parte del suo signore, menzognero il Vescovo di Catania, che ripeteva le accuse del Pontefice, ed annunzia che lo Imperatore sta per comparire di per sè stesso al Concilio. Il Papa vuol pronunziare la sentenza; gli Ambasciatori inglese e francese lo costringono a concedere le proroghe per dodici giorni. Taddeo, tentati gli animi dei Cardinali, e trovatili tutti prevenuti in favore d’Innocenzio, avvisa Federigo, che si era avanzato fino a Torino, che non si affatichi di andare più oltre; essere la causa sua oggimai terminata. Sorgeva il giorno 17 di luglio, e col giorno si apriva la terza sessione. Si presentava Taddeo protestando incompleto il numero dei Vescovi, e perciò, dove fosse pronunziata sentenza, fino di allora frapponeva appello a più completo Concilio. Ciò nondimeno ributtate Innocenzio le proteste, pronunzia la sentenza contro Federigo come misleale vassallo della Chiesa, violatore dei patti giurati, sacrilego, eretico, e finalmente, secondo lo usato costume, chiudeva così: «Noi dunque che sebbene indegni teniamo luogo del nostro Signore Gesù Cristo; Noi, cui furono volte le parole di San Pietro Apostolo, tutto quello che avrete legato su la terra sarà legato in cielo; Noi, co’ Cardinali nostri fratelli, e il sacro Sinodo, deliberammo, essersi questo Principe reso indegno dello Impero, degli onori, e delle dignità. Dio pei suoi misfatti lo respinge, nè soffre ch’ei sia più Imperatore. Noi manifestiamo alla gente, siccome è legato dai suoi peccati, respinto da Dio, privato dal Signore di ogni dignità, e di queste cose anche con la presente sentenza lo priviamo; quelli che gli sono tenuti per giuramento sciogliamo; anzi per nostra autorità di più oltre obbedirgli vietiamo, non pure come ad Imperatore, ma benanche in qualunque modo pretendesse obbedienza, e lo anatema nostro fino di adesso decretiamo contro loro, che in qualunque modo, e sotto qualunque pretesto, lo sovvenissero ec.»

Pronunziata la sentenza, i Cardinali rovesciarono le candele, che tenevano accese, in atto di esecrazione; Taddeo da Suessa fuggì dal Concilio, percuotendosi il petto, ed esclamando «Giorno d’ira è questo! giorno di sventura e di sangue!» Giunge le novella a Federigo, che furiosamente levatosi in piè grida: «Chi è questo Papa che mi ha ributtato dal suo Sinodo? Chi è colui, che vuole toccar la mia corona su la mia testa? Chi è colui che lo può? Dove sono i miei gioielli? Presto, recatemi i miei gioielli.» Glieli recavano: aperta una cassetta, dove teneva diverse corone, ne tolse una, e se la pose in capo dicendo: «Oh! ella non è per anche perduta; nè Papa, nè Sinodo, me l’hanno tolta, nè me la torranno senza che sangue ne costi.»

Dopo questa sentenza Federigo non ebbe più un’ora di bene. Innocenzio spedì lettere circolari per ribellargli la Sicilia; tentò farlo morire per opera di congiura ordita dai figli del Gran Giustiziere Mora, dai San Severino, e dai Fasanella: andato a vuoto il tentativo, non cessò dalle insidie, anzi viepiù accendendosi in quelle istigò Piero delle Vigne, rimasto trascurato in corte dopo il Concilio, a ministrargli il veleno. Giaceva Federigo leggermente ammalato, allorchè Piero si dispose all’opera di perfidia: fattosi alla camera dove era l’Imperatore, lo confortò a bere certo liquore composto da un suo medico, e gli affermava che ne sarebbe tosto guarito. Federigo di tutto già consapevole assentiva; giunto che vide il medico, si volse a Piero e gli disse: «Piero, è questa la bevanda che l’amico porge allo amico ammalato?» Poi con aspetto feroce ordinava al medico gli desse la tazza; questi pauroso della vita finge sdrucciolare, cade, e la rovescia per terra: poco gli giovava il consiglio; lo sparso liquore fu verificato per veleno, ond’egli n’ebbe la testa mozza. Piero poi, privato degli occhi, e rinchiuso dentro un monastero, dà del capo nel muro, e miseramente finisce i suoi giorni.

Federigo, considerando sollevarglisi attorno tanti odii, timoroso di sè, chiedeva pace. San Luigi e la Regina Bianca intercedevano. Innocenzio per questa volta non ricusò; ma per condizioni di pace ordinava, che lo Impero di Germania concedesse a Corrado, il Regno di Napoli ad Enrico, entrambi suoi figli; ed egli si recasse a Gerusalemme. Mentre che questi accordi si trattavano, giunse la novella in corte della ribellione di Parma. Federigo, messa ogni altra cura da parte, intese con tutto l’animo a ricuperarla. Ell’era città importantissima per lui, perchè apriva comunicazione con Verona, Germania, e gli Stati di Ezzelino da Romano, potente capo dei Ghibellini in Lombardia. Accorso con ogni suo sforzo, la cinge di soldati, ordina guardarsi diligentemente le vie onde nessuna cosa potesse entrare, od uscire; poi innalzato un ceppo sopra un monticello poco distante dalla città, quivi ordina che giornalmente a vista degli assediati recidansi le teste di quattro cittadini parmigiani.

Sebbene tessendo la storia dei figli di Eva, veniamo necessariamente, e con infinito nostro dolore, a raccontare una serie di delitti, a Dio non piaccia, che per noi sieno celate le poche azioni che possono ridondare in onore di quelli. I Pavesi, che noi vedemmo costanti, ostinati odiatori dei Guelfi, non sostennero tanto scempio, e notificarono allo Imperatore che cessasse, altramente si partirebbero, imperciocchè essi erano venuti a fare da soldati, non già da carnefici.

L’Imperatore, quasi per anticipare quello che aveva in mente eseguire, ordinò si fabbricasse una città, alla quale pose nome Vittoria, per trasportarvi, quando che fosse, la gente di Parma espugnata, ed intanto disegnava di prendervi i quartieri da inverno. Correva il giorno diciottesimo di febbraio 1248, allorchè i Parmigiani, avendo saputo che Federigo si era allontanato con assai gente per cacciare col falcone, si disposero tentare disperata sortita. Non fu per questa volta la fortuna contraria ai generosi. Gl’Imperiali, assaltati allo improvviso, dopo leggera resistenza si danno alla fuga; ne segue strage infinita. Taddeo da Suessa, e il Marchese Lancia, caddero morti sul campo, tentando ritenere i fuggitivi: inestimabile tesoro venne in potere dei vinciiori, e la stessa corona imperiale. Federigo ritornava adesso tutto umile ad implorare la pace con Innocenzio, offrendo passare in Terra Santa; non si ascoltava. Allora vide quello che doveva considerare innanzi, cioè, che fino a tanto che ei fosse stato perdente, il Papa non si sarebbe piegato a meno severi consigli. Si volse dunque in Toscana, ed inasprito pei recenti disastri, ne uscì tutto sanguinoso di nefandi omicidii. Superato il castello di Capraia, dov’erano riparati gran parte di Guelfi, tutti fece annegare: al solo Zingane Buondelmonti per odioso privilegio (e stimò fargli favore) ordinò che si strappassero gli occhi, e si gittasse nelle prigioni di Puglia. Ma quasi che di ogni misfatto dovesse immediatamente pagare la pena, poco tempo dopo, il suo figlio Enzo combattendo a Fossalta contro i Bolognesi fu vinto e fatto prigioniero; nè mai in séguito per prego, o per minaccia, dal Comune di Bologna lasciato partire, e realmente trattato, visse ventidue anni in quella città. Federigo, tentato nuovo motivo per la pace, e nuovamente respinto, se ne andò in Puglia a macchinare nuove imprese, ed a prepararvisi, allorchè la morte lo giunse a Ferentino il 13 decembre 1230. Innocenzio così annunziava al mondo la sua morte: «Si rallegrino i cieli, esulti la terra, che il fulmine, di cui Dio da gran tempo ci minacciava, si è convertito con la morte di un uomo in freschi zeffiri, ed in limpide rugiade.»

CAPITOLO OTTAVO. MANFREDI

Lasciate questo canto, chè senz’esso

Può star la Storia, e non sarà men chiara:

Mettendolo Turpino, anch’io l’ho messo.

Orlando Furioso.

Se il fastidio di colui che ha percorso queste Storie giungesse alla metà di quello che ho avuto io nel compilarle, non dubito punto, che la soprascritta epigrafe dovesse essere con maggiore convenienza collocata innanzi il Capitolo settimo. Però, se il caso sta come ho detto, faccio qui solenne protesta, affinchè i versi citati si abbiano ad ogni effetto di ragione (per dirla co’ Legali) come anteposti al luogo menzionato. Se questa epigrafe poi sia, o no, valevole a scusarmi, io per vero dire non vedo ragione del contrario; perchè, se giovò all’Ariosto, come non dovrebbe giovare anche a me? Alcuno forse opporrà, ch’egli si trovò costretto a questo dalla cronaca di Turpino, e probabilmente avrebbe rigettati que’ racconti, laddove fosse dipeso dalla sua volontà. Ma ogni uomo, per quanto siasi ostinato a leggere poco, conosce, che la buon’anima dell’Arcivescovo Turpino aveva altro in testa, che contare novelle, e che quell’umore bizzarro dello Ariosto gli attribuiva di giorno ciò ch’ei sognava di notte. E di vero se così non fosse stato, come la Eminenza del Cardinale Ippolito da Este dopo avere letto il divino Poema lo avrebbe interrogato dicendo: – Messer Lodovico, da dove avete cavate tante frascherie? – Domanda, che svelò a un punto il bell’ingegno del Cardinale, e fu la sola ricompensa che Messere Lodovico ricevesse dalla manificentissima e liberalissima Casa d’Este, come dicevano allora i Cortigiani, perchè le Gazzette ufficiali e semi-ufficiali non erano state peranche inventate. Ma quand’anche queste ragioni non mi giovassero, non si creda mica, ch’io non ne abbia in pronto molte altre, e gravissime tutte. Potrei allegare per la prima quella che parmi, ed è la principale di ogni altra, – il piacere mio; poi per seconda, che la presente generazione ha l’anima assetata di tutti que’ libri che si distinguono col nome di Vite, e di Storie. Non ho detto subito Storie, perchè in oggi non è il libro che fa il titolo, ma il titolo il libro; e storia ormai non sappiamo più che cosa ella sia, in grazia di que’ tanti volumi di fatti ricavati all’impazzata da opere oltramontane, e oltramarine, male connessi, male esposti, e peggio narrati: volumi che nulla hanno d’italiano, nè il senno, nè la civiltà, nè la lingua; volumi che la stessa ignoranza guastano, facendola incapace di mai più istruirsi, o, quello ch’è peggio assai, dal proprio mal talento, dalla invidiosa mediocrità, e dalla implacabile presunzione, seminano odio, mietono ignominia, eterno riso dei nemici stranieri. Benedetta sia sempre quella nudità della mente che cerca, e può acconciamente imparare; maladetta la ignoranza presuntuosa e maligna, e cui la fomenta. – Ai tempi di Elisabetta Regina d’Inghilterra costumavano le dame aggirarsi per le vie con un lungo strascico di seta; oggigiorno le anime vanno a processione pel mondo con uno strascico sperticato d’ignoranza ribalda: ogni tempo ha le sue usanze! Elisabetta con una legge suntuaria ridusse gli strascichi di seta a due sole braccia; ma la ignoranza si ride delle leggi, e dei legislatori, e salta quanto vuole saltare, e urla quanto vuole urlare, chè non v’è prigione che la tenga, nè birro che la leghi; e ti misura a passetto quattro tomi o sei di Memorie storiche, o libri altri cotali. Confortiamoci dunque con la speranza che questa sia l’ultima piaga con la quale a Dio piace di toccare l’Italia; confortiamoci, dico, che anche quaggiù un Mare Rosso aspetti il brulichío delle cavallette storiografe, che si avventano alla buona messe, e fanno duro governo dei nostri campi fortunati; confortiamoci, che l’aere di questo cielo benigno un tempo alle imprese gentili, torni mortifero alle piante parasite che ci minacciano. Ai vecchi, che per esser fondo del secolo passato vanno tutti schifosi di posatura, e camminano curvi sotto le stoltezze del nuovo, le ignoranze dell’antico, e le presunzioni di ambedue i secoli, ormai minaccia la malattia, o più giovevole la morte. Ma non tutti tra i vecchi così, e dei giovani quasi nessuno: castissimi nell’anima, di quel senso che si sublima alle immagini del bello dotati, amano istituire gara di grandezza e di gloria, amano esercitarsi nelle lodevoli imprese, e mantenere intatto il sacro deposito del sapere, che i nostri grandi avi ci hanno tramandato. Onore! Onore ai magnanimi, che vivono nelle visioni della immortalità! Il fuoco della scienza, come quello di Vesta, arde scarso, ma eterno, e conservato da mani pudiche.

«Ordiniamo, che Corrado eletto Re dei Romani, erede del Regno di Gerusalemme, dilettissimo figliuolo nostro, ci succeda nell’Impero, ed in qualunque altro dominio in qualsivoglia modo acquistato, particolarmente nel Regno di Sicilia. A lui morto senza figli vogliamo succeda Enrico figliuolo nostro, ed a questo morto pure senza figli succeda Manfredi nostro figliuolo. Dimorando il mentovato Corrado in Lamagna, od in altro luogo fuori del Regno, Manfredi faccia le sue veci in Italia. e specialmente in Sicilia, dandogli pienissima potestà di fare tutti quei provvedimenti che potremmo far noi, come concedere terre, castelli, feudi, dignità, parentele ec. ec.. meno gli antichi demanii del Regno; ed abbiano Corrado ed Ennrico, o eredi loro, le cose che avrà fatte per rate e confermate. Item concediamo, e confermiamo al sopra detto Manfredi il Principato di Taranto, di Porto Rosito fino alla sorgente del fiume Brandano, non meno che le Contee di Montescaglioso, Tricarico e Gravina, le quali da Bari si estendono fino a Palinuro, e da Palinuro fino a Porto Rosito. Gli concediamo inoltre la Contea di Monte Sant’Angiolo con ogni titolo, onore, diritto, borghi, terre, castelli, villate, e pertinenze. In ogni altra possessione dalla Maestà Nostra concessagli nello Impero lo confermiamo, purchè di queste riconosca Corrado per suo sovrano signore ec.»

Questa era la volontà dello Imperatore, come si rileva dalle sue tavole testamentarie riferite da alcuni diligenti Storici, ma tale non era quella di Papa Innocenzio. Abbiamo veduto come la politica dei suoi antecessori consistesse tutta nell’impedire che l’Imperatore di Lamagna avesse dominio in Italia, e poichè non potè attraversare, che per mezzo del matrimonio di Gostanza con Enrico la casa di Svevia ottenesse il Regno di Napoli, ogni pensiero della Corte Romana fu vôlto ad impedire che si consolidasse in mano dell’Imperatore. Innocenzio non aveva altro sentiero a seguire. Quel potente amico vicino che volendo ti distrugge, riesce più pericoloso del nemico che puoi combattere con incerta fortuna. Innocenzio come uomo avveduto, e delle cose del mondo intendentissimo, accese le cupidigie dei Baroni napoletani. Ognuno di questi, sperando farsi signore assoluto, con l’antica lusinga della libertà andava sollevando i popoli, e diceva doversi trucidare il tiranno, e purgare il Regno dai Barbari. Manfredi dal canto suo sollecitava i popoli a rimanersi fedeli, gli onori e le gioie della lealtà esponeva, i suoi nemici ribelli appellava. Sono i nomi di ribelle e di tiranno nelle rivolte di per sè stessi senza significato, e senza rappresentanza morale nella mente dei popoli, ed aspettano la loro spiegazione dall’esito delle battaglie. Allora vedendo gl’imprigionamenti, gli esilii, le teste tagliate e confitte su pei pali, per quell’antica fratellanza, che corre nei loro cervelli tra pena e delitto, senza cercare più oltre danno il torto a chi è vinto. Il nome di riprovazione rimane a colui che ha dovuto cedere, l’altro ha purificato la sua infamia nella vittoria… poi la vittoria muta, chè il chiodo alla ruota della Fortuna nessuno pose fin qui, nè mai porrà, e con la vittoria mutano i giudizii degli uomini. Vinse Manfredi, e fu giusto; i Baroni vinti, e però scellerati. Alla morte dello Imperatore il Regno da un lato all’altro si ribellò, e Manfredi in meno di un anno lo ricompose in pace, ed eccettuate le città di Napoli e di Capua, tutte le sottomise. Fu quest›eroe figlio naturale di Federigo, e di una Marchesa Lancia di Lombardia, ma come si ricava dal suo testamento, avanti di morire legittimato. Bellissimo di corpo, di biondi capelli, ed occhi azzurri, come tutti gli altri della famiglia di Svevia; era la sua persona maestosa, il portamento gentile; di costumi liberale e cortese: sortì dalla natura ingegno maraviglioso, conciossiachè egli sapesse poetare a modo dei Trovatori, suonare, e nessuno degli adornamenti cavallereschi ignorò: del pari che suo padre Federigo parlò speditamente diverse lingue, e fu intendente di cose naturali, come si rileva dai libri su la Caccia, che di lui ci rimangono: cupamente ambizioso, stimò ogni mezzo, purchè conducente al suo scopo, lodevole: capace di calcolare ogni delitto e commetterlo, e celarne il rimorso: simulatore e dissimulatore destrissimo, sprezzatore degli uomini e di Dio, nel mentre che con istrano contrasto si mostrò sempre umano, magnanimo, e perdonatore generoso. La sua anima fu grande, ma tenebrosa; nessuno uomo al mondo ha mai tanto somigliato a Lucifero, allorchè ribellando parte del cielo al suo Signore ne portò la fronte in sempiterno solcata dal fulmine divino.

Corrado si apparecchiava a visitare il Regno di Sicilia, che il suo augusto genitore soleva chiamare prezioso retaggio: imbarcatosi a Porto Navone, alla estremità del Golfo Adriatico, su le flotte pisana e siciliana, giunse felicemente sul principiare dell’anno 1252 a Siponto in Capitanata. Gli occorse Manfredi con magnifica comitiva, e fattegli le dimostrazioni del più sviscerato amor fraterno gli narrò le imprese eseguite, i pericoli superati, e con diligenza gli espose le presenti condizioni del Regno. Corrado rispose, dovergli grazie infinite: lo pregò a volerlo sovvenire co’ suoi consigli, ed a non partirsi giammai dal suo fianco. Così in buona concordia andarono dapprima le cose. Si cominciava intanto ad imprendere la guerra. Corrado, aiutato da Manfredi e dai Saracini, occupava in breve Aquino, Suessa e San Germano; non dissimile da Federigo suo padre, rigidamente si conduceva co’ vinti. gli rifiniva con gravose imposizioni, e con atroci tormenti li trucidava. Manfredi poi mostrava compassionarli, spesso intercedeva per loro, più spesso li trafugava, tutti dei suoi danari sovveniva; già per lo innanzi que’ suoi modi cortesi toccarono i cuori dei Siciliani, nè poco contribuirono a sedarne i tumulti; ora poi, posti a contrasto con quelli di Corrado, tutti lo imploravano come loro protettore, e santissimo Principe lo dicevano, e che fosse divenuto il loro Re desideravano. Corrado, ch’era di natura sospettoso, s’ingelosì ben tosto di Manfredi. e cominciò a temerlo troppo potente, onde prese a spogliarlo dei feudi, limitarlo nei suoi attributi, e così in ogni modo umiliarlo e avvilirlo. Manfredi sopportava tutto con lieto volto, nè se ne mostrava punto crucciato; anzi in proporzione dei torti ricevuti pareva raddoppiare di ardore per sovvenirlo. Capua stretta di assedio cedeva adesso a Corrado, che levato subito il campo mosse contro di Napoli. Questa città tenne lungamente; alla fine, soverchiata da troppo maggior numero di forze nemiche, si arrese. Corrado vi esercitò atti di rabbia, atterrò le mura, condannò gran parte di cittadini alla morte, la Università instituita da Federigo rimosse e trasportò a Salerno: Manfredi era sempre lì a spargere balsamo su le ferite cagionate da Corrado, e a prodigare consolazione e sussidii: sembravano il genio del bene, e il genio del male, che si fossero uniti a percorrere la faccia della terra.

Il grido degli offesi Napolitani giunse fino ad Innocenzio IV, che considerando se un potente esercito sì fosse presentato alle frontiere del Regno avrebbe potuto agevolmente sottometterlo, tirando partito da quegli umori, spedì il suo Segretario Maestro Alberto da Parma in Inghilterra per farne proposta a Riccardo Conte di Cornovaglia, fratello di Enrico III. Riccardo ricusò il partito, scusandosi col dire, lui essere fratello d’Isabella ultima moglie di Federigo, ma infatti perchè nudriva ambiziosi disegni sopra l’Impero. Enrico III allora sollecitò Innocenzio a concederlo al suo figlio Edmondo, e di breve rimase concluso il partito, quantunque, come vedremo in appresso, non fosse mandato mai ad esecuzione.

Giungevano intanto novelle dello Impero a Corrado, per le quali sentendo come Guglielmo di Olanda si fosse ribellato, conobbe essergli di mestieri confermare con la propria presenza la fede vacillante dei Baroni tedeschi. Abbandonando la Sicilia temeva di Manfredi, molto e più temeva di Enrico, giovanotto di belle speranze, lasciato dal padre ricco d’infinito tesoro, preposto al governo delle Isole, al quale egli doveva cedere il Regno di Gerusalemme, o l’Arelatense. Troppi, come ognun vede, erano i vantaggi che resultavano dalla sua morte, perchè Corrado lo lasciasse vivere. Enrico chiamato a Melfi periva: Corrado finse sentirne immenso dolore, e Manfredi finse di crederlo.

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