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E Non Vissero Felici E Contenti
«Oh, tesoro. Io pensavo non ci aveste nemmeno provato, dopo la morte di Ginny.»
«Oh, sì! Per mesi! Anche se non ci guardavamo nemmeno più. Lo facevamo lo stesso, e puntualmente ogni mese le nostre speranze venivano smentite. E lui ha voluto smettere di provarci. “Mi fai schifo!” mi disse, un giorno. “Smettiamola di farci del male, basta.” aggiunse. E io rimasi così. Ero così dannatamente triste, afflitta. Non capivo quale fosse il problema. Poi mi sono arresa. E lui è cambiato; era dispiaciuto, dolce. Mi chiedeva, amabilmente, ogni mattina che colazione volessi o se avessi bisogno di qualcosa. Il suo sguardo tradiva compassione, pietà. Come se qualcuno potesse, sul serio, avere compassione per me! Porco!»
«Lo respingesti?»
«Ovvio, lo feci.» affermò con gli occhi stretti in due fessure e un’espressione soddisfatta sul viso. «Lo feci iniziando a odiarlo. Provai io compassione per lui. Perché la sua vista non mi provocava niente: né amore né dolore; né tristezza né gioia. Era un fantasma, per me.»
«Mi dispiace. Non sapevo.»
«No, lo so.»
Si sedette nuovamente. Lo scatto d’ira era passato. Ora rimaneva solo il vuoto di un’esplosiva esacerbazione fine a se stessa.
«Porca vacca, mi sento così male…» mormorò, più a sé che agli altri.
«Lo so, cavolo se lo so.»
«Ora dormirò.»
«Va bene, perfetto. Io starò nella stanza accanto. Proverò a riposare. Domattina ti sveglio alle 5 e trenta, così potrai correre a casa tua, cambiarti ed essere a lavoro alle 9.»
«Ok.» biascicò, poco convinta, l’amica.
*
Nella sua stanza poco distante dal salotto Olivia pensò a tutta quella faccenda. Forse Sandi era nata buona – del resto si intravedeva nei suoi occhi, di tanto in tanto e soprattutto nei giorni di profonda stanchezza, un lampo di gentilezza, una parvenza di empatia – per diventare poi quella donna senza cuore nel tempo, a causa delle delusioni e di complicate e caotiche odissee. Si girò nel letto, senza riuscire a prendere sonno. Pensò alla vita che aveva in grembo, a quel bambino che cresceva dentro di sé. Pensò al miracolo di avere dei bambini – con i loro giochi, i loro gridolini, la loro voglia di fare e i loro visini buffi sporchi di gelato. Poi pensò all’amarezza di Sandi – quella stessa amarezza che le aveva letto nel volto quando, pazza dalla furia, raccontava il calvario che l’aveva portata ad odiare il marito.
«Sì, nemmeno io l’avrei perdonato. D’altro canto l’ha ferita in un modo profondo e irrimediabile.»
Si ricordò la Sandi che conobbe tanti anni prima. Aveva 22 anni ed era fresca di studi. Era arguta, intelligente. Una laurea in Storia Antica e tanta voglia di sfondare. Aveva motivazione da vendere. Era una prima donna, Sandi; l’aveva persino invidiata e odiata per i suoi successi, per un lasso di tempo abbastanza lungo da garantirle l’inferno. Bella da morire e sagace all’inverosimile, riusciva, con le sue chiacchiere dense di sottili allusioni, ad ammaliare tutti. Poi era arrivato Edmund. L’aveva catturata con l’ironia e il brio. Lei, con lui, era riuscita a raggiungere un po’ di leggerezza e aveva perso, solo parzialmente, quell’espressione di superbia che le si dipingeva sovente in volto; lui aveva capito che nella vita si deve essere svegli e svelti. Era stato uno scambio equo, insomma. Avevano imparato l’uno dall’altra. Il mondo era ai loro piedi; poi era arrivata la bambina, e la sua prematura dipartita li aveva divisi e buttati nel baratro di una vita scarsamente appassionata e scandita solo dal rancore che, di tanto in tanto, tornava a farsi vivo. Lei allora si era fatta assumere in una grossa azienda, e fine dei giochi. Che sapesse, non aveva nemmeno più provato a scrivere – ma su questo non avrebbe di certo messo la mano nel fuoco.
«Certo,» mormorò malignamente nel buio «che se avesse saputo che lavoro avrebbe fatto da grande non avrebbe certo avuto quel nasino insù per tutto quel tempo!»
Poi, accortasi di quella sua infelice uscita, disse un’Ave Maria.
«Perdonami, oh Signore. Perché non solo ho peccato, ma peccherò ancora, lo so!»
Fu in quel momento che, presa dalla stanchezza, chiuse gli occhi e cadde in un sonno ristoratore privo di sogni.
7
Eddie si alzò. Non si era spaventato dall’assenza di Sandi. Aveva trovato un biglietto sul banco della cucina, la notte prima.
“Edmund, io vado da Olivia. Non so quando rientrerò. Magari mi fermo stanotte. Ciao.”
Il suo sguardo si era posato su quel freddo “Edmund”. Nessuno lo chiamava Edmund. Allora, scosso da un fremito, si abbandonò ai ricordi.
«Che diavolo vuoi da me, Eddie?»
«Cosa stai dicendo, Sandi? Voglio solo parlarti! Sei mia moglie, diamine!»
Era stato poco dopo che lui aveva iniziato a provare pena per lei: le aveva reso la vita un inferno, con questa storia di non riuscire ad avere altri figli. Voleva farsi perdonare. Ma, come al solito, si era innervosito, e l’avevano terminata a litigare.
«Non voglio che tu mi tocchi, nemmeno con un dito! Non ti facevo schifo?»
«Non essere sciocca. Ero arrabbiato, e amareggiato. Ma lo sai, ti amo. Ti desidero. Sono folle per te!»
«Muori! Sai una cosa? Eddie per me non esiste più. Per me, d’ora in avanti, sarai solo Edmund. Solo tuo padre ti chiamava Edmund, giusto? Quel tuo padre che ti ha rinnegato come fossi figlio del Diavolo in persona!»
«Che intendi dire?» rispose lui, mentre il sangue gli si gelava nelle vene. Provò ad avvicinarsi per abbracciarla, ma lei si scostò. Allora, in presa a un raptus, la tenne forte e la baciò. Voleva stringerla, sbatterla nel divano e scoparsela. Era questo che meritava per avergli detto quelle orribili parole. Ma la lasciò andare, consapevole che quella situazione l’aveva favorita lui stesso.
Le si girò, lo guardò con astio e si sistemò la spallina che lui aveva fatto scendere. Poi gli sputò in pieno viso.
«Edmund, puoi anche crepare per quel che mi riguarda.»
«Non sarà questa la tua fortuna.» chiosò lui. «Bisogna che tu mi uccida, sporca stronzetta.»
«Oh, non mi tentare. Non mi tentare.»
Era quasi pronto. Indossò le scarpe, la cravatta e si mise a tracolla la borsa del PC e dei documenti.
Quando arrivò in ufficio avvampò al ricordo della sera precedente. Scosse la testa, come per voler allontanare da sé quella verità tanto scomoda quanto pericolosa. Non avrebbe più dato peso alle parole di Giorgia. Non avrebbe riso alle sue battute e non avrebbe vantato una sua qualunque illuminante asserzione. Non le si sarebbe seduto accanto, durante il pranzo. L’avrebbe evitata, insomma, come si fa con peste e malaria. Del resto non voleva alimentare in lei quella stessa illusione che si era creata da sola – l’illusione che lui avrebbe potuto essere salvato: nessuno ne sarebbe stato capace, tantomeno lei.
Ma quando arrivò nei pressi del suo ufficio la vide chinata sulla sua scrivania. Per terra una scatola di cartone aperta conteneva pochi averi e altri ne doveva ancora accogliere.
«Giorgia?»
Lei si voltò. Era bella quanto la sera precedente, o forse anche di più – il fatto che lui non potesse liberarsi dei fantasmi del passato per averla la rendeva, ai suoi occhi, ancor più appetibile. Lo sguardo triste da cane abbandonato e la postura non eretta e forte ma china, debole furono come una pugnalata nel cuore, per Eddie.
«Perché metti le tue cose in una scatola?»
«Me ne vado, Eddie. E no, non pensare di farmi cambiare idea. Una settimana fa ho avuto una proposta di impiego. Ho chiesto qualche giorno per pensarci. Per questo ieri notte ho provato ad andare al sodo. Volevo capire se tu fossi nella mia stessa lunghezza d’onda. Ovviamente sai come è andata.»
«E dove andrai? In cosa consiste questo impiego?»
Per quanto gli dispiacesse, una parte di lui era sollevata: forse alla fine avrebbe finito per cederle, per donarsi a lei. Non lo voleva. Lei era giovane, bella, intelligente; lui avrebbe ucciso tutte le sue belle qualità, relegandola a una vita basata sull’arte di accontentarsi. Accontentarsi di un uomo privo di cuore, non capace di amare.
«Alla Spoline&Co.»
«Wow! Congratulazioni, Giorgia! È un gran studio… un traguardo notevole!»
«Già. Ora vai, hai del lavoro da fare.» aggiunse lei, girando il volto.
Piangeva singhiozzando; solo non vedere la sua faccia avrebbe, piano piano, lenito quel suo senso di delusione.
Lui accolse quella sua richiesta implicita e si allontanò a gran passi. Poco dopo la vide abbracciare qualche collega e andar via. Non si avvicinò nemmeno; quella storia, troncata sul nascere, doveva smettere di esistere anche nei loro pensieri.
«Eddie! Giorgia va via! Non l’hai nemmeno salutata! Non hai sentito? Ha un impiego alla Spoline&co. Cazzo che culo, santo cielo. È una vita che voglio passare lì,» disse Sergio sedendosi accanto a lui e lanciando una pallina da tennis contro il muro ripetutamente «ma zero che mi considerano. Secondo me usano il mio curriculum, che diligentemente faccio avere loro almeno una volta l’anno, come carta igienica. Poi arriva Giorgia che, per carità, è sveglia e quello che vuoi, ma è giovane e viene presa. Per me è perché ha un bel culo.» constatò con una punta di sessismo non indifferente.
«Sergio, lei è brava, molto brava. Avranno visto il potenziale.»
«Sei dalla sua parte e non dalla mia?» chiese non senza indignazione.
«Non c’è da essere da una parte o da un’altra, cavolo. È solo questione di capire che il potenziale c’era.»
«Perché non scherzi? Non ti esponi?»
«Che intendi dire?» lo rintuzzò lui, scocciato.
«Quando è arrivata abbiamo passato ore – ma che dico, ore? Giorni! – a ridere del fatto che finalmente, dopo Bessy, avessimo trovato un bel culo da veder passeggiare qua e là in ufficio. Sembra così ma questo lavoro è noioso, ti stressa. Grazie a lei bastava un’occhiata e tornava tutto a posto!»
«E che vuoi che ti dica? Siamo adulti, Sergio.»
«Avete fatto sesso!» capì il ragazzo.
Ora si spiegava tutto; i progetti dopo il lavoro, i messaggi, gli sguardi. Non era amicizia.
«Sei fuori strada, Se’»
«E allora dimmi! Spiegati!»
Si mise in attesa, posando la pallina e i piedi nella scrivania.
«Ci ha provato. Spesso. Ieri sera il culmine. Era bellissima, sexy e tutto il resto. Ci siamo strappati quasi i vestiti di dosso, eravamo furie e poi…»
«Poi?» impaziente, l’amico, lo incitò a continuare.
«Niente. Sai come sono. Le ho detto che…»
«Fammi indovinare. Le hai detto che alla fine ami tua moglie – malgrado sia una brutta stronza senza cuore capace di tagliare la gola a chiunque – e forse hai raccontato anche di tua figlia. Hai messo su quello sguardo e l’occasione è sparita. Ma sì, sai quale sguardo. Quell’espressione che ti esce quando sai che potresti essere felice ma decidi di non farlo, perché la vita è stata ingiusta e tu devi pagare per qualcosa che non è avvenuto per colpa tua.»
«Stai minimizzando la situazione.»
«Stronzate!» irruppe Sergio. «Le occasioni per essere felice non ti sono certo mancare, ingrato che non sei altro. Perché devi pagare? Perché tua figlia è morta?»
«No! Devo pagare perché la cattiveria di Sandi l’ho voluta io!»
«Ma per favore! Quella donna era una vipera anche quando l’hai conosciuta. Era l’arpia più maligna e bella di tutto l’universo. Ma tu eri felice e lei sembrava giovare della tua vicinanza. Per questo non l’ho ammazzata con le mie stesse mani, malgrado avessi già capito che ti avrebbe portato alla rovina.»
«Sergio, non esagerare!»
«Non esagerare? Tu non hai mai saputo come è morta tua figlia. Lei era lì e tu no. La bambina stava benone e poi…»
«Smettila!» si tappò le orecchie l’uomo.
«Non sto dicendo che è stata lei, non fraintendermi. Non so cosa sia successo, e nemmeno tu… ma nella tua testa ha sempre albergato il dubbio. Ecco perché l’avresti perdonata solo se ti avesse reso nuovamente padre!»
«E ho sbagliato! Molto! Ne pagherò le conseguenze!»
«Sei uno stolto, se pensi che Sandra Alti un giorno ti riprenderà tra le sue braccia… e tra le sue gambe.»
«Sergio…»
«No, non voglio sentirti. Svegliati, porca puttana.»
«Mi dispiace così tanto. Sarò pronto, lo giuro. La dimenticherò. Ma non oggi e non con Giorgia.»
«Ok, va bene. Scusa. Scusa davvero, non sono fatti miei e…»
«No, hai torto. Sono anche fatti tuoi. D’altronde sei tu che mi hai sollevato quando volevo solo morire. Solo mi serve un po’ di tempo.»
«Prendi il tempo che vuoi, amico. Io sarò qui.»
Prese la sua pallina da tennis e si diresse verso la sua scrivania.
«Se’?»
«Dimmi.»
«Non è morta per colpa di Sandi. Non è stata negligenza. Lo so che sembra cattiva, ma amava Ginevra. La amava quanto la amavo io.»
«D’accordo, d’accordo.» disse, senza convinzione.
«A dopo.»
«Già.»
8
Sandi era a lavoro. Dalla sua postazione doveva assicurare almeno 90 imballaggi all’ora. Prendeva un palmare nel cui display compariva una serie di numeri e cercava gli articoli corrispondenti. Poi li metteva nella scatola e la chiudeva. Era un lavoro di concentrazione. Non ci si poteva incantare o il nastro trasportatore che portava via le scatole avrebbe segnato il ritardo e si sarebbe perso il bonus-velocità.
Sandi amava dire che quel posto fosse un tempio del menefreghismo. Dei supervisori per chi stava sotto, è chiaro.
«A quante scatole sei, Sa’?» domandò Lavinia.
Lavinia aveva ventiquattro anni, era minuta e aveva un’aria divertente. Prendeva il lavoro seriamente, tuttavia ogni tanto, mentre i fatti suoi le attraversavano la testa, si scopriva a guardare il vuoto. Ecco perché non riusciva mai a prendere il bonus.
«Lavinia, muoviti o anche oggi ti sgrideranno. Siamo solo in due, malgrado ci sia lavoro per quattro o cinque. Ma dobbiamo arrangiarci così.»
«Speriamo che arrivi Gaetano!» mormorò, sognante.
«Sei folle?»
Gaetano era il supervisore di quell’ala. Comprensivo come un sociopatico, compassionevole come un pappone e bello come un attore. Ecco cos’era Gaetano. Ma se a Sandi non poteva fregare un piffero di lui e delle sue battute sarcastiche Lavinia usciva di testa ogni volta che lo vedeva.
«A quest’ora, di solito, è già passato a insultarci.» annunciò, enfatica.
«Ecco, infatti che poi… Ma per la miseria, parli del diavolo…»
«E arrivo io.» concluse con tono indifferente Gaetano. «Perché stavate parlando di me?»
«Oh, niente. Dicevamo che è un gran bel lavoro. Il lavoro dei sogni.»
«Fanculo, Sandi. Tu e la tua vena ironica mi fate schifo.»
«Gaetano, dai, scherziamo.» cercò di rimediare la buona, ingenua Lavinia.
«Zitta tu, scherzo della natura. E sbrigati o anche questo mese ti tolgo il bonus. Sei più lenta di un bradipo.»
«Gaetano!» urlò Sandi mentre Lavinia, in preda a un violento attacco di pianto isterico, lasciava la stanza.
«Sandi, è lentissima. È colpa sua se da sopra mi stanno sulle costole! Li vedo i tuoi risultati. Sei veloce, sveglia. Lei no. Ma non posso licenziarla. Un giorno mi ha detto: “Se mi licenzi faccio partire un’indagine.” Secondo lei mi stava facendo piacere. In realtà era un ricatto bello e buono.»
«Ah, be’. Certo. Mi spiace. È una brava ragazza. È solo un po’… sognatrice. Ed è cotta di te.»
«Quello lo so, ma non sono fatto per lei. Sono troppo grande e anche troppo tutto il resto.»
«Cosa intendi fare? Intendo per coprire lei visto che per un periodo non puoi licenziarla.»
«Manderò un altro. Per un periodo. Un paio di mesi, almeno.»
«Ah, bene. Ti prego, non sotto i 25 anni. Magari con un figlio, o con quattro cani da tirare avanti.»
«Perché?» domandò incuriosito e divertito lui.
«Perché deve avere bisogno del bonus!»
Risero insieme. Erano così, Sandi e Gaetano. Un momento si mandavano a quel paese, un altro si amavano visceralmente. Lui sapeva che il cuore di lei era fermo senza battere e lui non si offendeva alle sue lamentele strazianti.
«Vai in bagno e parla a Lavinia.» lo pregò lei.
«Non ci penso nemmeno,» si spaventò teatralmente lui «mi sbatte su un water e mi stupra.»
«Non fare l’imbecille.»
«Solo se mi dai un bacino.»
«Fottiti.» lo rimbeccò lei, alzando enfaticamente il dito medio verso di lui che ridacchiò.
«Ok, va bene. Ora vado. Accidenti.»
Si avviò a passi lenti verso il bagno delle signore, con un pacchetto di Kleenex tra le mani e qualche parola di conforto.
*
Qualche minuto dopo, con gli occhi rossi e il viso paonazzo, Lavinia fece il suo ingresso nella stanza degli imballaggi.
«Ah, bene. Ti è passata?»
«Oh, sì. Gaetano è stato così dolce che non hai idea. Mi ha detto che non voleva ma che era troppo stressato dalla vita. Sai si è appena lasciato con la sua fidanzata.» aggiunse, sognante.
«Lavinia, non ti illudere. Lui ha un altro tipo di donna in mente.»
«Oh, sì. Tranquilla. Me l’ha detto. Mi ha detto che io mi merito di meglio, e che non devo essere così fragile e sempre dolce. Mi ha detto: “Devi essere un po’ come Sandi!”»
«Come me? Oh, no, non esserlo.»
«Bella e forte. Tu sei il suo tipo.»
«Lui non è il mio tipo.»
«E che tipo hai in mente, tu? Donna del mistero…»
«Io non ho tipo, Lavinia. Non sono tipa da tipo. Sto bene da sola.» affermò categoricamente Sandi, con gli occhi abbassati sul lavoro.
«Ah, be’. Così bella e senza un tipo.»
«Lavinia, la prossima volta che fai tardi i capi usciranno di testa, lo sai.»
«Sì, ok. Mea culpa. Oh merda, mi si è bloccato il nastro.»
«Sei senza vergogna, Lavi’.» disse e liberò il nastro.
9
Era arrivato, senza che si accorgessero del tempo che scorre, metà maggio, tra il profumo dei fiori e il tepore di un sole che presagisce l’estate. Fece più caldo del solito, quell’anno, e i fuochi, uno dopo l’altro, vennero spenti nelle case di tutta la città. Sandi e Eddie avevano un camino in stile antico, con il legno – il quale incastonava le fiamme come pietre preziose – abbastanza lontano da non prendere fuoco ma tanto vicino da dare una visione d’insieme magica. Ora, da spento, non aveva certo perso la magia insita nei materiali pregiati e nell’ottima fattura.
Le giornate, lunghe e belle, facevano sì che tutti potessero passeggiare per i parchi o per la strada.
Sandi amava il caldo, il sole. Eddie un po’ meno, lui era per il gelo di dicembre – amava il freddo dell’inverno quando fuori c’è la neve e la si guarda da dentro casa con tra le mani una bella cioccolata fumante.
Ma chi amava di più il bel tempo era Ted, il loro meticcio. Saltava e correva per il giardino come un forsennato. Avevano fatto una buca e l’avevano riempita d’acqua: il suo mondo era questo. Poi, puntuale come un orologio svizzero, tornava dentro e si strusciava nei divani di stoffa che Sandi aveva trovato, anni prima, in un mercatino dell’usato a pochi spicci. Ma a loro due non importava: amavano quella bestiola che li faceva ridere. La amavano sempre – come sempre vanno amati gli animali, fedeli testimoni di giornate rese migliori da una leccata in pieno viso – anche quando non si svegliava in tempo e faceva la pipì nel grosso piumone del letto matrimoniale, o quando mangiava le ciabatte. La amavano persino quando abbaiava fino a far venire loro l’emicrania. Era l’unico raggio di sole, in quella buia casa sterile d’amore.
Spesso l’unico modo che avevano di rivolgersi l’uno all’altro era parlare con quella palla di pelo simpatica e sempre riconoscente.
Quando Eddie aveva trovato Ted nel vialetto di casa era esausto, magro, moribondo. Si trascinava per inerzia, sperando che un miracolo accadesse proprio a lui. Erano stati necessari molti giorni sotto flebo per poterlo rimettere in piedi, seppur debolmente. Ma reagiva; aveva una forza e un coraggio da leoni. Passo dopo passo, boccone dopo boccone, si era rimesso in piedi. Lui era parte di loro. Punto. Ora era trattato da signore.
Sandi e Eddie erano ambedue dentro casa, uno in una stanza l’altro nell’altra. L’antica promessa fattasi di passare meno tempo possibile l’uno con l’altra era stata mantenuta. Mai un attimo di vacillamento, mai un dubbio, o una parola che mettesse fine a quella guerra combattuta senza un fine.
«Esco.» disse all’improvviso Eddie senza aspettare la risposta di lei. Ma si stava giusto infilando la giacca che lei lo raggiunse.
«Senti, io non so in questi giorni può essere che vada da Olivia più spesso. Matthias e Samuele hanno la varicella.»
«No problem, Sandi.»
Rimase qualche minuto sbigottito davanti alla porta. All’improvviso quella stanza gli apparve in giorni più felici.
«Sandi? Che fai?» domandò Eddie alla bella moglie che aveva sposato appena qualche mese prima.
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