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E Non Vissero Felici E Contenti
E Non Vissero Felici E Contenti
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E Non Vissero Felici E Contenti

5

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E Non Vissero Felici E Contenti

Eddie sbuffò. Era una cosa che poteva fare anche una persona da sola. Le aveva già spiegato che l’avrebbe potuto fare da solo, ma lei aveva insistito. E ora si ritrovavano a doversi vedere di domenica sera. Non ci sarebbe stato niente di male se questa domanda gliela avesse fatta Stefano, o Sergio. Ma lei. Lei era bella, giovane, profumata. Lo vedeva come un mentore, un uomo affascinante dall’aria sicura, decisa, forte. Ne era affascinata. Si vedeva lontano un miglio. Quando poteva si avvicinava eccessivamente a lui, le posava una mano sulla spalla con sensualità, malizia. E per lui sarebbe stato fin troppo facile abbandonarsi a lei, totalmente e irrazionalmente. Era un uomo, non un santo, ed era fatto di carne, ossa e cuore – un cuore che non batteva più da tempo ma che non era ancora morto.

«Eddie, ascolta. Io so che stai attraversando un momento difficile, con tua moglie. Ne parlano tutti, qui in ufficio. Voglio farti sapere che» disse con sensualità «io per te ci sono. Ci sono sempre.» Era il giorno dell’Immacolata, e lei si era recata in studio per finire una pratica con lui. Erano solo loro, in un edificio enorme. E lui l’aveva desiderata così ardentemente che fu un tormento alzarsi e scappare da lei con una scusa. Prima però aveva appoggiato le labbra sulla pelle candida del suo collo, ringraziandola.

Eccoli, i dannati vuoti spazio-temporali dove lui perdeva capacità di giudizio e percezione della realtà. Tornò in sé e digitò un messaggio.

“Sì, dai. A stasera. In ufficio. Porto la cena io.”

“A stasera, bye mon amour. Pensami.”

E nemmeno sapeva quanto lui l’avrebbe ascoltata. Mise le cuffie nelle orecchie e riprese una marcia veloce.

4

Sandi uscì all’ora di pranzo. Sarebbe andata a mangiare da una sua amica; avrebbe potuto persino trattenersi fino a cena: suo marito era fuori per lavoro, e sarebbe stato carino passare una serata tra amiche.

Passò dal negozio e comprò un paio di regali. Olivia aveva quattro figli, due femmine e due maschi, e i soldi non erano troppi, in quella casa. Sapeva, quindi, che i bambini sarebbero stati entusiasti di ricevere un pensierino. Per lei e l’amica invece prese una bottiglia di liquore alla mandorla; sperava aiutasse a lenire le sofferenze di due vite infelici. Quando bussò al portone malconcio, vecchio e con le vernice verde parzialmente scrostata era quasi l’una. Olivia aprì alla porta con un paio di occhiali grossi e scuri. Era una bella giornata di sole, sì, ma dentro casa le tapparelle lievemente spostate verso il basso creavano un’atmosfera cupa.

«Che diavolo accade, Olivia?» chiese con il cuore a mille Sandi.

«Oh, cara mia. Nulla di grave. L’ho sbattuto fuori di casa, tranquilla.»

«Ma… io… Io non capisco.» asserì confusamente Sandi, con un tono che andava dal rammarico alla desolazione.

«Oh, piccola, entra, ti spiegherò.»

Sandi varcò l’entrata, si tolse il cappotto e la guardò. Aspettava, cauta, che l’amica si sbilanciasse. I bambini giocavano in un’altra stanza.

«Oh, Sandi. So che con Eddie vanno male le cose. Ma non metterti con un uomo come Dario.»

«Ti ha picchiata?»

«Tra le altre cose…» mormorò, sconfortata Olivia. Era una combattente, una a cui non la si fa sotto il naso. Ma quella volta era triste, abbattuta.

«Ieri, dopo aver chiamato te, abbiamo fatto una cenetta romantica. Volevo dirgli una cosa. Una cosa importante, sì.»

«Sei incinta, vero?»

«Assolutamente sì. Credimi che non so come sia potuto accadere. Sono stata attenta come non mai. Ma è accaduto. Per tutto il mese ho avuto nausee, dolori allo stomaco, fiacchezza. Ho attribuito il tutto al ferro, non sto mangiando abbastanza carne. Poi ho fatto il test. E ho scoperto che, no, non era proprio la carne il problema. O meglio, era un pezzo di carne sì…» aggiunse, maliziosa. Riusciva a scherzare anche ora, in un momento drammatico, e triste, e disperato.

«E quindi?»

«Si è incazzato! Come una iena, oserei dire. Si è alzato dal tavolo e mi ha detto: “Non hai intenzione di smetterla di sfornare marmocchi come fanno le coniglie?”. Allora gli ho detto che non mi ero certo montata sopra da sola, per rimanere incinta. Ho visto un lampo d’odio nei suoi occhi ed è corso verso Matthias. L’ha preso e ha gridato: “Credi che io non sappia che questo non è figlio mio? Pensi che non abbia scoperto che te la fai con un altro?” Ovviamente era una scusa. Proprio Matthias, che è la sua copia sputata. Il bimbo ha urlato, lui l’ha schiaffeggiato… poi ha preso Linda. Anche per lei ha detto la stessa cosa; detto fra noi, Linda davvero non sembra figlia sua. Che Dio mi benedica, io nemmeno ci penso ad altri uomini. È già tanto se penso a lui mentre, con le gambe aperte, attendo che abbia finito per potermi dedicare alle mie faccende. Lei ha urlato, ha pianto e si è divincolata. Lui l’ha lanciata – lanciata nel vero senso della parola, che l’Inferno lo inghiotta – per terra. Io mi sono fiondata, l’ho colpito. Ma lui me le ha ridate. Poi ha detto: “Cresci i tuoi stronzetti da sola, me ne vado!” e io l’ho lasciato andare. Guarda…»

Indicò con un indice mangiucchiato la finestra che dava sul retro. Un falò bruciava, scintillante.

«Cosa bruci, Olivia?»

«I suoi fottutissimi impestati vestiti.» disse, soddisfatta. «Gli ho detto al telefono, a quel bastardo figlio di puttana, che lo sto aspettando a braccia aperte. E gli ho detto anche che se torna gli sfondo la testa con una mazza di baseball e lo seppellisco in giardino, per concimare i miei fiori. Che il suo corpo putrefatto alimenterà le mie rose. Ecco cosa gli ho detto. E che se tocca i bambini se ne pentirà amaramente.»

«Lui che ti ha detto?» si informò Sandi.

«Nulla, che credi? Mi ha presa alla lettera. Sa che non mento e che non ho paura. Io quel cervello bacato glielo tiro fuori dal cranio davvero, se torna. Ah, mi ha detto che anche lui ha un occhio nero. Gli ho fatto un occhio nero, capito? E cosa vuole? Un rimborso? Un mazzo di rose? Un paio di frasi di scuse? Bastardo stronzo.»

«Ah, be’. Sono felice che tu sia così.»

«Così come?»

«Così forte, Olivia. Così decisa.»

«Oh, io non sono né forte né decisa in questo momento. Io sono triste e amareggiata: non sono stata capace di difendere i miei figli, Sandi. Linda ha un livido nella gamba sinistra, e Matthias è nervoso, agitato. Gli altri due hanno solo guardato. Samuele se l’è vista brutta: è un guerriero, stava partendo per difendere la sorella; Dana non si è mossa, e dalla paura si è fatta la pipì nei pantaloni. Sono riuscita tardi a calmarla. Mi hanno chiesto se devono chiamarlo papà, ma ero troppo arrabbiata. Non sgridarmi. Gli ho detto che non devono chiamarlo proprio.»

«Oddio, e ora il bambino che aspetti… Come farai?»

«Oh, farò dolcezza. Ne ho sfornati altri quattro. Un quinto non sarà certo un problema. Che poi, detto fra noi, io ho chiuso con gli uomini.»

«Ah, ben fatto. Stasera non puoi berne, allora.» domandò Sandi, indicando la bottiglia di liquore.

«Oh no scordatelo. Io berrò succo d’ananas, ma tu puoi bere. Quando arrivi qui con una bottiglia vuoi ubriacarti per forza, non ti toglierò questo diritto. Mi piaci da morire, quando sei ubriaca. Non sei fredda e distaccata come al solito. Sei sveglia, attiva, espansiva. Sarà divertente.» sentenziò, infine.

Poi chiamò a raccolta i suoi bambini e insieme mangiarono pasta al forno, fettine di tacchino e tiramisù.

Sandi notò una tristezza nei loro occhi giovani che non aveva mai visto. La piccola Dana aveva gli occhi gonfi e rossi. E tremava, mentre con la manina chiara prendeva il cucchiaino con una piccola porzione di dolce. Lei la guardò e le sorrise, poco convinta. La bambina non rispose.

«Vi sono piaciuti i giochini, bimbi?» domandò per svegliarli da quel torpore e dalla delusione che sanno mostrare solo i bambini quando le certezze crollano come una casa malconcia sotto un uragano.

«Sì, ci sono piaciuti, zia.» affermò Samuele.

Con il camion – quel bellissimo camion verde e rosso – avrebbe certamente giocato di lì a poco anche se quella storia era ancora così vivida, e dolorosa, e pungente nella sua mente.

«Oh, forza bambini! Dite qualcosa alla zia. Raccontatele di quel cartone, come diavolo si chiama…» si perse Olivia.

Niente, proprio non lo ricordava. Un pomeriggio intero a sbattersi per quei protagonisti, e lei non rammentava come si chiamasse.

«Sto proprio uscendo di testa, ragazzi.» concluse, non senza una punta di amarezza. «Proprio ora!»

«Perché proprio ora, mammina?» domandò Linda.

«Niente tesorina, niente.»

Nessuno di loro sapeva del fratellino/sorellina che cresceva nel grembo della mamma; si sarebbero senza ombra di dubbio straniti: quella mamma forte e buona non faceva altro che dire che quattro figli erano molti. Sì, lo diceva mentre sorrideva, ma loro la vedevano la stanchezza nei suoi occhi, la voglia di dormire – anche solo cinque minuti – e il desiderio di fare un bagno caldo e lento.

«Frozen, mamma?» azzardò Dana. D’altronde ne avevano visti un paio, quella settimana.

«Ecco, quello. Raccontatele come è stato!»

«Bello.» chiuse, velocemente, Matthias.

«Come sei originale, figlio mio.» lo rintuzzò la madre, con sguardo severo. «Proprio un bel racconto.»

«Vogliamo andare di là, mamma, a giocare.»

«Anche io!» si unirono gli altri tre.

«Andate, andate a giocare, figli miei.»

«Ciao bimbi…»

«Ciao zia Sandi…»

Quando la porta della camera dei bimbi si chiuse Olivia si girò a guardare Sandi e le domandò, con voce roca: «Ma secondo te come stanno? Sono scioccati?»

«No, scioccati non direi, Olivia. Secondo me semplicemente si riprenderanno, ma hanno bisogno di tempo.»

«Tempo, e chi ne ha? Dammi un sorso di liquore…»

«Non puoi, Olivia.»

«Solo un sorso, che Dio mi perdoni. Mi serve. Mi aiuterà a dormire stanotte.»

E sorseggiò, calma, cercando di distogliere la propria mente dai pensieri. Forse era vero: serviva tempo… sia ai suoi figli che a lei. Ma serviva soprattutto che Dario non si avvicinasse a quella casa mai più. Lei non lo avrebbe permesso. Poi sorrise, pensando all’enorme mucchio di vestiti carbonizzati nel giardino. Il sorriso divenne riso.

«Che hai da ridere?» le domandò Sandi, divertita.

«Quello stronzo non ha nemmeno un vestito con sé! È uscito con una tuta e un giubbotto… probabilmente tornerà a prendersi la roba!» urlò, ridendo sguaiatamente. «E sai cosa troverà?»

«Un mucchietto di cenere?» azzardò lei.

«Esatto. Un cazzo di fottutissimo mucchietto di cenere!»

5

Eddie aveva pranzato da solo. Una scatoletta di tonno, una mozzarella e un paio di pomodori. Leggero e sano, non per scelta ma per incapacità dinanzi ai fornelli. Poi collassò qualche ora nel divano, accoccolato a Ted. Quel cane era tanto, troppo pigro. Ogni momento era buono per schiacciare un pisolino.

La sveglia del telefono, puntata per le 5 e trenta, suonò una canzone conosciuta. Lui aprì gli occhi, riposato. Poi si alzò e corse in doccia. Per le 7 meno un quarto doveva essere in ufficio, con la cena cinese ritirata già tra le mani. Si insaponò, velocemente, poi si risciacquò e uscì alla ricerca di un asciugamano. Si preparò come si trattasse di un’uscita, e poi si sentì in colpa per questo. Aveva messo un paio di pantaloni beige, una polo scura e una giacca sportiva marrone scuro. Si era fatto il gel, alzando i capelli chiari, e aveva messo il suo profumo migliore. In perfetto orario sedette nell’auto, diretto al take away cinese. Poi, procurato il cibo, si diresse all’ufficio. L’atrio era buio, probabilmente Giorgia non era ancora arrivata. Entrò con sicurezza in quei luoghi tanto conosciuti, poi avanzò verso la porta nella quale erano affissi tre nomi. Uno di questi era il suo. Si sbagliava. Giorgia era già lì: davanti a lei, mille pratiche e due bottiglie di birra.

«Ehi, scusa ti ho preceduto.» esordì, timidamente, lei.

«Oh, no. Ma figurati. Hai fatto bene.» rispose lui poco convinto. Quella storia che fossero entrambi lì, soli e ben vestiti gli sembrava sempre più sbagliata. La guardò. I capelli scuri e lunghi fino al limitare della schiena le davano una parvenza infantile, che veniva smorzata subito dalle linee sinuose del suo corpo. Notò, non con stupore, che anche lei si era acconciata in modo più preciso e sensuale del solito. Un vestito verde scuro con lo scollo pronunciato le fasciava il seno e le cingeva i fianchi; le scarpe scintillavano, e al collo portava un gioiello brillante capace di attirare l’attenzione. Quando i loro occhi si incontrarono – scuro e chiaro, uniti da un momento infinito, magico, inafferrabile – un brivido corse nella schiena di entrambi. Ma lui sapeva già che sarebbe successo, e si era preparato.

Si sedette dall’altra parte della scrivania e pose davanti a sé i fogli di cui disponeva, invitandola con un gesto della mano a fare lo stesso.

Lei, delusa e un po’ afflitta, obbedì a quel suo ordine.

«Allora, qual è il problema lo sappiamo. Dobbiamo solo stilare una lista di cose da sistemare. Grafici, statistiche. All’arrivo del cliente tutto dovrà essere in ordine.» esordì Eddie con voce ferma e pacata – dentro di sé il fuoco ardeva, ma riuscì a mantenersi composto.

«Io penso che dovremmo iniziare con questa scheda. La compiliamo?» lo interrogò, insicura, lei.

«Sì, facciamo questo.»

Lavorarono di gran lena per tre quarti d’ora. Poi un brontolio interruppe i loro conti minuziosi. Allora si sedettero a terra e aprirono le varie scatolette di carta contenenti cibo.

«Cosa sarà, questo?»

«Ah non chiedermelo! Mangia e basta. Se non sai non puoi preoccuparti.»

«Questa è la tua filosofia?» rise lei, divertita.

«Certo, lo è.» stette al gioco.

«Perché sei così triste, sempre?»

«Cosa intendi, Giorgia?»

Non credeva di essere sempre triste. Sì, talvolta era capace di perdersi nei suoi pensieri, soprattutto quando la sua mente decideva di vagare qua e là tra presente e passato. Dopo pochi minuti di vuoto, di nebbia, di ricordi, tuttavia, lui si riprendeva. Era simpatico, un burlone.

«Non fraintendermi. Tu giochi sempre, e con tutti. Sorridi sempre. Ma io lo vedo. Anche quando ridi di gusto il tuo sguardo è comunque cupo, come se ogni volta che fossi felice qualcosa ti ricordasse che non puoi esserlo, non a lungo almeno.»

Aveva ragione: nessuno se ne era mai accorto, ma le sue erano risate vuote, ingombre di macigni troppo pesanti da spostare. Il suo era solo divertimento apparente.

«Sì, hai visto giusto, Giorgia.»

Era inutile mentire, lei aveva guardato dentro i suoi occhi e aveva messo a nudo tutta la sofferenza.

«Se fossi mio non permetterei che tu soffra così tanto…» bisbigliò lei. Nel calmo ambiente vuoto le sue parole rimbombarono come fossero urlate.

«Ma non sono tuo.»

«E allora di chi sei? Di quella moglie che non ti ama e che non ami? Credi che non mi sia accorta che non porti la fede? Un giorno ti ho sentito parlare con Stefano. Eravate nell’ala relax, e io ero fuori. Sono stata ad ascoltare. Da quanto non ti tocca, Eddie? Da quanto non ti dice che ti ama, che vive di te, che sei l’unico uomo che amerà mai? Da quando non ti prepara il pranzo? Non ti ama. Tu sei perfetto e lei non capisce la fortuna che ha. Non capisce che sei un uomo d’oro. Quell’ingrata non sa che si perde. E io… io ti vorrei. Così tanto e in modo così totale. Tu non capisci! Sai cosa? Tu sei uno stronzo e lei è una stupida!» disse con rabbia.

Lui era livido di rabbia.

Le si avvicinò.

«Che cosa hai detto?» sussurrò, a mezzo centimetro dal suo viso.

«Tu sei uno stronzo e lei una stupida! Hai bisogno che ti vengano sturate le orecchie, o cosa?» lo sbeffeggiò lei.

Lui le tirò uno schiaffo. Sonoro e secco, sferzò l’aria come una frustata. Poi la guardò, pentito. Lei era offesa, umiliata. Era pronta ad andarsene. Fu allora che la baciò, con foga e rabbia. La baciò in modo rude. Non fu dolce, né mieloso. Fu un bacio aggressivo, che diede vita a una lotta silenziosa che li portò sul tappeto della stanza. Le mani di lui trafficarono nel vestito di lei fino a trovare il laccetto che lo teneva su. Lo sganciò. Lei gli sbottonò la camicia e gli baciò il petto. Mentre le mani si rincorrevano, si cercavano e si trovavano lui si bloccò, mentre il suo cuore si gelava.

Sandi urlava, disperata. Eddie non aveva nemmeno più lacrime da piangere. La piccola bara bianca era dinanzi a loro. Nella camera mortuaria dell’ospedale c’era assai freddo, ma nessuno tra loro cercò una giacca. La loro bambina – il loro piccolo angelo che ora diventava custode – non c’era più. Aveva solo sei mesi. L’avevano seppellita con un vestitino bianco con fiori ricamati. L’avevano coccolata e baciata, prima che il funzionario delle pompe funebri li avvisasse del triste momento: avrebbero dovuto chiudere il feretro entro cinque minuti. E ora erano lì; amici e parenti, con parole più o meno di conforto e tante frasi fatte, provavano a lenire quell’atroce sofferenza. Ma nulla avrebbe potuto liberarli da quel groppo nel cuore. Sandi, per la prima volta nella sua vita, era apparsa fragile, debole, pronta a rompersi. Per la prima volta nel suo viso non c’era ostentazione, né malizia, né sicurezza; c’era solo strazio. Lui le strinse la mano, ma lei non rispose alla stretta. Stava canticchiando la ninna nanna di Ginevra. Era un supplizio sentire quella cantilena. La strinse a sé mentre una consapevolezza faceva capolino nella sua testa: niente e nessuno avrebbe potuto riunirli, dopo quell’amara rottura.

«Io… Io… Io non posso farlo.» biascicò lui, rimettendosi in piedi. Il viso di lei era paonazzo, confuso. Si alzò, legò il vestito e si sistemò alla bell’e meglio. Poi lo guardò negli occhi e iniziò a piangere. L’espressione dissoluta di poco prima aveva ceduto il passo a un’angosciante senso di perdita.

«Perché piangi?»

«Piango perché sono io il problema. Sono sempre io.»

«In che senso?» la sollecitò lui, timoroso.

«Ogni volta che trovo un uomo, un uomo come te succede che io rovino sempre tutto! Che tu sia dannato, insieme a tutti gli altri miei demoni!» urlò con veemenza la giovane i cui occhi erano diventati due pozzi neri infernali.

«No, non hai capito affatto…» disse lui, con dolcezza, prendendo il suo volto tra le mani. «Io la amo, e questo mi basta. La amo follemente, senza razionalità né giudizio. La amo perché è la madre della mia bambina.»

«Hai una figlia?»

Era sconcertata, disorientata. Nessuno le aveva mai detto che lui aveva una figlia.

«La avevo.» mormorò con un filo di voce lui. «Ma è sepolta sotto un metro e mezzo di terra.» aggiunse, mentre nei suoi occhi si ravvisava un guizzo di pazzia.

«Mi dispiace.» bisbigliò lei, cauta. Ecco perché quell’aria perennemente angustiata.

«Me ne vado.»

«A domani.»

«A domani, sì.»

La lasciò lì, seduta in una scomoda poltrona, a pensare a quanto era stata stolta, ottusa. Si sentì sporca, immorale. Aveva sedotto per mesi un uomo che non voleva essere infastidito. E ora capiva perché. In quel momento le apparve chiaro come quella donna che lei guardava di nascosto andare a lavoro – quella stessa donna che non si curava del suo sguardo, altezzosa e presuntuosa – lo avesse in pugno. Per sempre.

6

Olivia mise a letto i bambini molto tardi, quella sera. Avevano passato l’intera serata a giocare con i giochi portati dalla zia Sandi. Olivia aveva sempre insistito che la chiamassero zia, anche se non ne capivano a fondo il motivo.

Sandi non era certo il tipo di persona che i bambini amano – di quelle che «Dai, facciamo un trenino!» o «Aiutatemi a fare le collane con le perline che indosseremo tutti stasera!». Era disinteressata a ogni aspetto dell’universo che non la riguardasse personalmente; era fredda, impersonale. Dava loro pacche nella schiena con il calore di un serpente della giungla. Ma la loro mamma la amava, quella donna stramba, o almeno la amava a suo modo – di quegli amori un po’ sofferti, ancor più preziosi perché strani, esclusivi.

Una volta mamma Olivia aveva detto ai bambini che lei li aiutava tanto e in vari modi. Poi aveva aperto il portafogli e loro avevano intravisto – non senza l’acquolina in bocca: avere soldi voleva dire leccornie, giochi – delle banconote da cento. La mamma guadagnava poco – «Il necessario!» soleva ripetere il suo spilorcio datore di lavoro – e tirare avanti non era semplice. Quel giorno era nata in loro una nuova stima per quella zia che non si interessava di chiedere loro come andassero le cose a scuola o come volessero il latte alle cinque del pomeriggio. Se ne infischiavano, semplicemente, di quelle strane regole. Tutta la loro vita era governata da leggi che di ortodosso avevano ben poco. Quel giorno, soprattutto, erano stati felici di vederla. Il papà era andato via – «Per sempre, mi auguro.» aveva affermato la mamma – e loro non erano né tristi né felici – l’amarezza per averlo visto andare via sbattendo la porta cozzava con la paura provata alla sola vista di quegli occhi assetati di sangue. Tuttavia una ulteriore compagnia non dava loro noia, anzi provocava sollievo.

Nella sala da pranzo Sandi e Olivia, all’una di notte, chiacchieravano ancora animatamente.

«Ti ricordi quando ti sei sposata?» chiese Olivia.

«Oh, sì. La sbornia presa il giorno dopo non la scorderò mai.»

Era il giorno che aveva scoperto che peggio dei liquori mischiati c’è solo la morte.

«E io lì, che ti mantenevo la testa. Eddie disperato, mentre tu gli spiegavi, pazientemente come solo una persona ubriaca sa fare, che non era lui il problema, ma tu. E in quel frangente ti accorgesti di avere le scarpe sporche di vomito e tutta quella tua sicurezza iniziale svanì.»

«Non mi ci fare pensare.»

Aveva già bevuto qualche bicchiere di troppo, e la testa iniziava a girarle vorticosamente.

I colori della casa variopinta di Olivia giravano, e giravano. E lei guardava il soffitto, stupita come un bambino davanti a un marchingegno mai visto. Olivia rise, di cuore e in modo fragoroso. Come Dio avesse fatto diventare amiche due persone così agli antipodi non si sarebbe scoperto mai. Una fredda, l’altra solare. Una seria, l’altra spiritosa. Una infelice – sempre e comunque, perché il mondo non girava intorno a sé –, l’altra perennemente grata a tutto. Olivia sapeva ringraziare Dio – o il destino, l’universo, la natura… insomma, qualunque cosa decida per noi – anche per il sole la mattina, o per i cornetti alla crema accompagnati dal cappuccino. Fermamente convinta che la filosofia esatta fosse quella del bicchiere mezzo pieno, fedelissima seguace dei saldi e innamorata dei dolciumi, Olivia era capace di amare incondizionatamente, senza se e senza ma. Sandi era tutt’altro. Non capiva le persone come Olivia – quelle che ridono senza un motivo, o che si danno agli altri in modo assoluto. Lei dava di sé piccoli pezzi, si concedeva a porzioni ridotte – quasi come se davvero il suo animo venisse dilaniato dall’eccessivo contatto con gli altri. Olivia era una delle poche persone che avrebbero potuto godere della sua vera essenza, delle sue preziose risa.

«Senti, Sandi… ma Eddie?»

«Non so dove sia.»

«E lo dici così? Senza interesse? È pur sempre tuo marito…»

«È mio marito, sì. Ma solo sulle carte.»

«Come siete finiti a questo? A farvi del male in questo modo, intendo. Abitate nella stessa casa, dormite nello stesso letto e vi guardate ogni santo giorno da quindici anni. Ma non vedete nulla; siete due spettri.»

«Olivia, le vicissitudini della vita spesso ti portano ad allontanarti e nulla – nulla! – si può fare per rendere le cose indolori o…»

«Piantala di fare discorsone con me, Sandi. Il tuo carisma ti aiuta ovunque ma non qui, in questa casa. Non con me. Ti conosco, sai?»

«E allora che diavolo vuoi sapere?»

Sandi si alzò, e camminava nervosamente per la stanza. Era quasi ubriaca.

«Si è rotto, tra di noi, Olivia! Si è rotto quando Ginevra si è alzata in volo, tra le nuvole. Si è rotto perché sono rimasta incinta una sola volta, e dopo sono stata più sterile di una sala operatoria. Non sono stata capace di dargli un altro figlio! Come pensi che mi senta? A cosa serve una donna il cui ventre si è esaurito? Lui voleva un altro figlio, un’altra ragione per vivere, per tirare avanti…»

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