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E Non Vissero Felici E Contenti
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E Non Vissero Felici E Contenti

5

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E Non Vissero Felici E Contenti

«Sai cosa dobbiamo fare?» disse lei, gli occhi spalancati e accesi. «Vieni con me!»

Si alzò e lo prese per mano. Lui non capiva. Lei si guardò attorno, guardinga, e lo spinse dentro il bagno delle signore. Una volta dentro lo baciò con foga e gli ricordò – per l’ultima volta – chi fosse Sandra Alti e perché facesse perdere così tanto la testa a tutti, malgrado lui questa capacità non l’avesse mai veramente dimenticata.

Uscirono poi dal locale, tirandosi per le mani, eccitati e felici come due adolescenti.

Mangiarono un gelato, poi corsero tra la folla cercandosi, trovandosi, rincorrendosi. Tutti ridevano, alla vista di quella coppia adulta che si faceva gli agguati, che urlava e si nascondeva. Nessuno capiva. Ma loro sapevano. A mano a mano che giungeva l’ora divenivano sempre più nervosi, inquieti. Era come se non vedessero l’ora che tutto avvenisse ma nel contempo che volessero prolungare quell’ora di libertà, di pace, di leggerezza.

Poi si guardarono. Un ultimo bacio fu scandito dalle campane che annunciavano la mezzanotte, e fu allora che camminarono mestamente verso la strada che avevano scelto con cura.

Stapparono un’altra bottiglia di champagne – che Sandi aveva comprato in un’enoteca proprio per quell’occasione – e bevvero alla grande. Poi si presero per mano, presero un respiro e saltarono dall’alto cavalcavia.

Qualcuno ha detto che tra il decidere di uccidersi e il farlo ci sia un momento – un solo, impercettibile e svelto momento – nel quale tutto si mette nuovamente in dubbio. Ecco perché spesso all’ultimo momento si chiede aiuto, o si fugge. È un ultimo barlume di speranza, di voglia di vivere e spesso è di vitale importanza. È la linea che divide l’essere vivi dall’essere morti. Sandi e Eddie avrebbero potuto pensare che a tutto c’è una soluzione, che ogni cosa si può risolvere. Invece le loro menti non ebbero quel momento di riflessione. Poco prima di saltare Sandi pensava a quanto avrebbe desiderato sapere la sorte del libro e all’eventuale titolo che avrebbe voluto dargli, mentre Eddie al fatto che quel cielo di mezzanotte venato di un rosso fuoco fosse fantastico.

E con i pensieri: “Diario di una passione mortale” e “L’avrei voluto nella nostra stanza da letto” finirono due vite, complesse e malate, in un certo senso, ma senza ombra di dubbio interessanti.

*

Ester e Miguel erano fatti, come al solito. Lei urlava per cambiare stazione alla radio e lui urlava perché non voleva che lei urlasse. Avevano un concetto di vita che oscillava dall’illegale al dannoso. Tutte le cose pericolose o schifose o moralmente inaccettabili li affascinavano. Non ricordavano l’ultima volta che avevano fatto l’amore da sobri e senza aver assunto droghe. Non l’avevano comunque mai fatto in un letto. Quando finivano la grana per bucarsi di eroina si inventavano qualcosa; era più difficile se finivi a rota – tutti potevano fare di te ciò che volevano, ed eri alla mercé di ogni idiota che passava – ma erano sempre riusciti a tirare su qualche soldo. Lei aveva già venduto da tempo tutto il suo oro; lo aveva unito a quello rubato a sua madre ed era uscito un gran gruzzolo. Lui non aveva né oro né madre che avesse oro, quindi non aveva avuto nemmeno l’opportunità di farlo. Insieme avevano messo su ebay gli elettrodomestici e i mobili. Ora vivevano in una catapecchia con un tavolo, un materasso maleodorante e scosciato e una televisione datata e polverosa. Da qualche mese lei doveva adescare gli uomini ricchi nelle stazioni di servizio; le faceva schifo e talvolta le veniva voglia di smettere di farsi solo per non vedere quelle facce eccitate, e sudate, e grasse. Ma poi si tornava al principio. Lui diceva di amarla, ma accettava di buon grado che vecchi pervertiti posassero le mani su di lei. «È per una buona causa.» si ripeteva. E non ci pensava. Se l’avesse fatto sarebbe precipitato nella tristezza della sua miserabile esistenza e non ne sarebbe uscito vivo.

Non erano altro che due poveri miserabili che, per un fortuito caso del destino, si erano incontrati. Non avevano idee, né prospettive. Nemmeno i loro nomi erano quelli reali.

Lei veniva da una famiglia perbene; padre avvocato, madre professoressa di italiano e sorella biologa, ricercatrice alla Sapienza di Roma. Un futuro angelico era stato scritto anche per lei, o almeno finché, a quindici anni, fu chiaro a tutti che una pecora nera ci vuole in ogni nucleo familiare. Iniziò con roba leggera, poi entrò in brutti giri: solita storia. I suoi, troppo perfetti per tutta quell’anormalità, con gli estranei non la nominavano neppure ma fra loro ne parlavano di continuo. Non sapevano quale fosse l’errore, cosa avessero fatto di male. Per fortuna l’altra figlia, con i suoi scintillanti risultati, oscurava l’insuccesso di avere una disgraziata in famiglia. Ogni tanto, tra un buffet di Natale e un Capodanno sempre con gli stessi facoltosi amici con la puzza sotto il naso, quando il senso di colpa si impadroniva del loro cuore di pietra la cercavano e le davano un paio di biglietti da cento euro; magra consolazione, dato che venivano usati solo per un ulteriore passetto verso la morte.

Lui era, invece, un bambino nato disagiato. Aveva assaggiato, fin da piccolo, il sapore del sangue nella bocca: non sempre i compagni della sua mamma erano capaci di amarlo. Era stata lei – la sua mamma, la figura che dovrebbe, in genere, adempiere al faticoso compito di rendere l’esistenza dei propri figli un incanto – a iniziarlo alla droga. D’altronde lei stessa era stata indirizzata da suo padre, trafficante di droga noto in tutto il circondario. Nemmeno se si fosse impegnata avrebbe potuto fare di meglio. Aveva messo al mondo cinque figli tutti di padri differenti, e aveva fatto in modo che ognuno di loro fosse abbastanza capace di mettersi nei guai prima di schiaffarli alla porta. L’unica sorellastra con la quale avesse stretto legami e alla quale voleva un gran bene era sparita anni prima; questo di certo non l’aveva aiutato.

Lui se ne era fatto una ragione. «È la vita…», diceva, con tono triste ma fermo.

Stavano insieme da anni; entrambi avevano altri amanti e spesso litigavano tanto da mettersi le mani addosso… tuttavia erano l’uno il porto sicuro dell’altro. C’erano, e in quel tipo di vita era già tanto così.

«Fanculo, abbassa questa merda!»

«Muori, maiale!» disse lei. Era mezzanotte ma aveva gli occhiali da sole. Muoveva la testa a ritmo di canzone e aveva chiuso gli occhi. Quella canzone parlava di amore e speranza; ascoltarla portava un po’ di luce nel buio di una vita vuota, senza senso.

«Eccheccazzo, sei sempre la solita stronza!»

«Senti,» disse lei, poco convinta «ti ho procurato la dose, sai? Quindi che vuoi da me? Minimo mi fai sentire la canzone di che cazzo mi pare…» concluse, perentoria.

Lui mise il muso, ma lei non se ne curò.

«Merda, c’è un cazzo di animale nella strada!»

«Frena!» urlò lei, in preda al panico.

Ma non ci riuscirono. Investirono quella carcassa scura. Poi, con un botto, si fermarono e scesero dalla macchina per vedere.

Nessuno li avrebbe potuti preparare per quello che avevano davanti.

Ester vomitò l’anima e litri di alcol su quei due corpi martoriati.

Gli occhi di Sandi erano aperti, vuoti, freddi e la testa, girata sul lato destro, era piena di sangue. Eddie era riuscito a chiudere gli occhi, prima di frantumarsi nell’asfalto di quella strada poco trafficata. Gli arti di ambedue formavano angoli irregolari.

«Chia, chia… Chiama… Chiama qualcuno!»

«Ester, qui ci vuole un carro funebre.»

«Non mi importa chi diavolo vuoi chiamare, Miguel! Chiama qualcuno… Oddio, oddio…»

Pianse a dirotto, chinata su se stessa.

Ancora non sapeva che quell’immagine l’avrebbe accompagnata per il resto della sua vita; non sapeva nemmeno che quella strada coincidenza degli eventi l’avrebbe salvata.

*

Arrivò un mare di agenti, paramedici e medici. A Ester venne data una coperta mentre Miguel giaceva svenuto in un’altra ambulanza. Ma nessuno si stupì di quel macabro ritrovamento. I corpi vennero chiusi in un telo di plastica scura e spediti all’obitorio.

Qualche giorno dopo Ester e Miguel si fecero una promessa: che quello fosse un nuovo inizio. Soprattutto dopo aver scoperto la verità.

PARTE PRIMA

Si dica ciò che si vuole! Il momento più felice di chi è felice è quando si addormenta, come il momento più infelice di chi è infelice è quando si risveglia.

Arthur Schopenhauer

1

Sandra Alti era una bella donna – di quelle belle donne che rimangono impresse nella mente di chi le trova nel suo cammino. Non aveva quella bellezza perfetta – stile Barbie, con capelli platino, occhi cielo e fisico asciutto – ma sapeva produrre invidia nelle donne ed eccitamento negli uomini. Procace e seducente, maliziosa in sguardi e frasi, mai ingenua – anche se sapeva fingere bene, il più delle volte, di esserlo… se non altro per attirare su di sé ancora più ammirazione – sapeva nascondere il suo egoismo dietro frasi di circostanza e finto interesse. Era sempre stata una prima donna, e mai e poi mai avrebbe ceduto trono, scettro e corona a qualcun’altra. Se non ti ascoltava non era mai perché era un po’ sorda – come talvolta sosteneva, seppur con poca convinzione, al fine di rendere le cose meno evidenti – ma perché semplicemente o non le interessavi tu o non si curava di ciò che avevi da dire. Le sue armi – infallibili e precise – erano un’estrema autostima – nessuno mai avrebbe potuto farle pensare che non valeva; chiunque ci avesse, in passato, provato, era finito in un bar malconcio a bere sulla sua stupidaggine – e un Gucci sui polsi. Non aveva un lavoro molto soddisfacente – faceva l’imballatrice presso una grossa azienda di giochi per bambini – ma aspettava, di continuo e senza mai perdere di vista l’obiettivo, la sua occasione come scrittrice. Erano anni che provava a scrivere; aveva iniziato una favola, un romanzo e un bel paio di racconti per bambini, tuttavia, puntualmente, si ritrovava a chiudere il PC e a tornare alle faccende domestiche. Le mancava quel non so che necessario per trovare l’idea vincente. Non si sarebbe arresa – «Mai!» aveva giurato a se stessa, qualche inverno prima – ma per ora si limitava a svolgere una vita annoiata e disinteressata. Suo marito Edmund Bellavista, per tutti Eddie, del resto aveva smesso di prenderla sul serio: lei non avrebbe nemmeno saputo dire perché, ancora, dopo tutti quegli anni, fossero ancora sposati, visto che l’interesse era finito da un pezzo.

Era proprio a questo che pensava, in quell’umida mattina di fine aprile, mentre, in mano un bicchiere di vino bianco, faceva un bagno caldo nella vasca a idromassaggio.

Pensava a quanto fosse infelice la sua esistenza. Una grande casa e due estranei che vi abitavano. Nulla di nuovo, nulla di speciale… nulla e basta. Il bagno, nei suoi colori tenui, era il luogo adatto per riflettere sul senso della vita. Un senso che, tuttavia, ora a lei sfuggiva: «Perché continuare a fingere?» concluse, stancamente. Poi pensò allo stipendio di lui – di netto superiore al suo – e tutte le soluzioni le giunsero al cervello annacquato di acqua e profumi per bagno.

«Sono a casa!» urlò Eddie, dal piano inferiore. Lanciò la borsa nella poltrona e si diresse in cucina. Nessuna risposta, ma ci era abituato. Solo cercava di avvisarla quando entrava in quella casa che era di entrambi; se non altro per non far succedere quello che era capitato qualche tempo prima.

Era stata una giornata faticosa in ufficio, ma era riuscito a terminarla in modo più indolore possibile. Non aveva avvisato Sandi che stava rientrando: solitamente quando faceva tardi dormiva da Sergio, suo amico e compare, ma quest’oggi, liquidata la sua solita proposta si era diretto verso casa. Aveva bisogno di un bel bagno e del suo letto.

Entrò in casa cercando di non fare rumore e si diresse verso il frigo bar. Prese una bottiglia di Montenegro e ne versò una quantità generosa in un bicchiere pesante di vetro, con quattro cubetti di ghiaccio. Poi si stravaccò nella poltrona verde del salotto, non prima di aver sbattuto sonoramente un ginocchio nel tavolino in vetro dinanzi a sé. Pochi minuti dopo fecero irruzione in casa sua due poliziotti. Fu allora che Sandi, pallida e nervosa, fece capolino dalla scala. Era furioso.

«Ora non posso nemmeno entrare quando mi pare in casa mia, Sandi? Vuoi sbattermi fuori?» domandò, stizzito.

«No, è che io…», lei non riuscì a terminare la frase. Si sentiva sciocca, in quel momento. Ora capiva. Certo: un ladro non avrebbe fatto tutto quel trambusto.

«Agenti, è mio marito, potete andare…» aggiunse, imbarazzata.

Uno degli agenti ci mise un secondo a digerire l’informazione, e Eddie capì subito perché. Sandi aveva una vestaglia in pizzo e la biancheria, rosso fuoco, brillava al di sotto. Non si era struccata dalla sera precedente, e la sua bellezza rifulgeva di luce propria, in quella scala buia.

«Fuori, per favore… vorrei discutere con mia moglie.» sbottò nervosamente enfatizzando, forse in modo eccessivo, la parola “moglie”.

«Ci scusi… arrivederci.»

«Che diavolo hai indosso? C’è un altro uomo, su con te?»

«Che diavolo dici? La metto per sentirmi sexy, dato che tu non sei capace di darmi questa semplice soddisfazione.»

«Ok, come ti pare.» terminò scortesemente lui, girandole le spalle.

Si riprese da questa visione passata, e aprì lo stesso frigo bar di quella notte. Stesso bicchiere, stesso liquore e stessa quantità di ghiaccio. Persino stessa poltrona. Chiuse gli occhi, distese i piedi e li poggiò sul tavolino. Era una brava persona, pratica e sempre gentile. Passionale e coraggioso, era anche tenace, non mollava mai. L’unica cosa che non avrebbe mai potuto – nemmeno con la forza dell’intero universo – migliorare era lo stato del suo matrimonio. L’aveva amata, e tanto anche e ancora, seppur di rado perché la distanza metteva delle barriere invalicabili tra loro, si ritrovava a desiderarla. Aveva una moglie bellissima ma era più a portata di mano la Luna che il suo corpo.

Sarà che quando una cosa si rompe non si riaggiusta mai per bene; sarà che le sofferenze non avvicinano, checché se ne dica; e sarà anche che il matrimonio di due persone così differenti non era destinato, dal primo giorno, a finire bene.

O sarà che per tenere unito un filo che passa per due persone è necessario che entrambi lo tengano; nessuno dei due era più disposto a farlo, e quel filo giaceva, esanime, nel mezzo.

Si sganciò la cravatta, e il primo bottone dei pantaloni. Dopo aver guardato un po’ di televisione si diresse, esausto, verso la camera da letto al piano di sopra.

Dormivano ancora insieme, non sapeva perché. Quel gesto sciocco, considerata la situazione, gli dava tuttavia un senso di normalità in tutto quel caos.

Si tolse, lentamente e senza far rumore, i vestiti. Poi alzò un lembo di coperta e si infilò accanto alla donna che aveva sposato circa 15 anni prima. La guardò di sfuggita. Un raggio di luna che penetrava dalla finestra le illuminava il volto pacato, tranquillo. Lui sperò stesse sognando. Avvicinò la mano per sfiorarla e subito un ricordo lo travolse, come un camion.

«Metti la mano sulla pancia, Eddie!»

«Quando? Adesso?» rispose, nervoso, lui.

«Sì, ora. Sai! Accidenti, hai perso il momento.» si espresse, infine, lei. La bambina si era momentaneamente calmata.

«Porca miseria…»

«Dai, tranquillo, fra un pochino si risveglia!»

«Come la chiameremo, Sa’?»

«Ah, non so… ho comperato un libro di nomi.»

Si alzò, goffamente. La pancia era bella grossa, mancava un mese e mezzo e già lei si sentiva una balena. Stare seduta le doleva: la bimba premeva sulle costole provocandole delle fitte atroci.

Gli porse un libretto arancione comprato da pochi giorni. Aveva annotato sui margini i nomi che l’avevano colpita.

«Samantha?» disse lui, inarcando un sopracciglio. Non gli piaceva.

«Bello, Sara. Anche Denise mi piace. Ma è più bello Ginevra.»

«Sì, Ginevra è un gran nome.»

«Allora permettimi di fare due coccole alla mia piccola Ginevra…» propose lui, con il sorriso sulle labbra.

Si distese accanto a lei e le posò la mano sulla pancia, massaggiando il punto dove sua figlia, beata e indisturbata, cresceva.

«Ma non sappiamo ancora se si chiamerà Ginevra…» si lamentò la donna, che però era estasiata dall’entusiasmo di suo marito.

«Ma dai, lasciami fare. Zitta, tesoro…»

E si addormentarono così, con la luce gialla dell’abat jour, un libro arancione accanto e un gran calore che li invadeva.

Tornò al presente, e l’assenza di quel calore percepito pochi istanti prima nella sua mente scostante lo ferì tanto da fargli montare la rabbia.

«Fanculo.» disse, fra sé. Con le lacrime agli occhi le diede la schiena e cercò di dormire.

Sandi, che quando lui era salito ancora non era totalmente addormentata, percepì la mano di lui vicina al suo viso e sentì l’imprecazione. Immaginò il disagio, la frustrazione dell’uomo. Avrebbe potuto girarsi, posare una mano sulla sua fronte e dirgli che andava tutto bene. Sarebbe stata una bugia, è vero, ma una di quelle menzogne bianche. Invece non fece nulla. Sospirò, piano per non farsi sentire, e si addormentò. Era finita fra loro, bisognava solo prenderne atto.

2

Il sole era già alto nel cielo, in quella tiepida mattina di primavera. Sandi si svegliò di soprassalto e guardò accanto a sé. Suo marito era uscito, probabilmente era già a fare jogging. Al suo posto Ted, il loro cagnetto beige, russava sonoramente.

«Ted? Teddy?» si rivolse a lui la sua padroncina, tentando, invano, di attirare la sua attenzione. Ma dormiva, e sodo anche. Girò il musetto peloso dall’altra parte, e sospirò.

«Va bene, quando hai voglia scendi…» finì brevemente lei, mentre si stiracchiava e usciva dalle calde coperte.

Una volta nella sala da pranzo bollì l’acqua e preparò una tisana di the al caramello. Poi si sedette con lo sguardo rivolto verso la finestra che dava sul prato, a pochi metri da lì. Era assorta nei propri pensieri quando il telefono trillò. Si spaventò, posò la tisana rovente e si diresse verso il telefono di casa.

«Pronto?»

«Oh, Sandi! Meno male che ti ho trovata…»

Sua madre. Bene, fantastico anzi. Trovava sempre il momento migliore, il più rilassante, e lo rovinava con le sua ciance inutili.

«Dimmi, mamma. Però sbrigati, sono pronta a uscire.»

«Mi dici sempre così! Sciagurata… Una madre ha bisogno di parlare con la propria unica figlia, di tanto in tanto. E mai che tu sia disposta ad ascoltarmi. E se avessi un problema grave? Se stessi morendo?»

«Mamma, non vivrai per sempre.» concluse, perentoria e secca.

«E quindi?»

«E quindi ti seppelliremo, quando morirai. Certo non ti lasceremo a marcire in casa tua, e nemmeno ti imbalsameremo.»

Sandi era scocciata: possibile che dovesse fare, ogni santa volta, la melodrammatica?

«Ah, be’ se mi dici così. Io ti ho cresciuta…»

La figliola prodiga, esasperata, piantò il telefono nel tavolino del soggiorno per poter andare a recuperare la tisana in cucina. “Tanto” si disse “si sta solo lamentando della vita e di me. I suoi due argomenti preferiti. Ne avrà per molto.”

Ciabattò flebilmente fino alla cucina, prese la tazza della Tour Eiffel – ricordo di Parigi e di quella notte magica, dolce e ardente insieme – e vi soffiò dentro.

«…come al solito nessuno si cura di me! Ti ho cresciuta, quando quel disgraziato di tuo padre se ne è andato! Pensi sia stato facile pensare a cambiare i tuoi pannolini e a lavorare? Io ero un’attrice! Una bellissima, talentuosa attrice di talento, sai, ne avevo da vendere!»

«Ah,» riprese Sandi, che nel frattempo aveva colto solo il senso generale di quel monologo infinito «quindi se non sei diventata famosa sarebbe colpa mia e dei pannolini che solevo sporcare? In questo caso, mi devi davvero scusare. Sono stata una figlia orribile; sporcarmi, mangiare, desiderare attenzioni: che ingrata!»

«Oh, Sandra, non fare la drammatica. Non ho detto questo!»

«Invece mi pare che tu l’abbia appena fatto. Che poi, perdonami se sbaglio, a quel che so io ti avevano già scartata quando ti venne su la pancia della gravidanza…» asserì poi, non senza una punta di cattiveria.

«Bene, devo andare. Ciao.» tagliò corto lei.

Carlotta era stata una donna meravigliosa – come la figlia, d’altronde – ma non aveva avuto molta fortuna né con la carriera né con la famiglia: il suo talento era stato presto smentito da numerosi agenti e l’uomo che all’epoca si portava a letto – e del quale si stava peraltro anche innamorando – aveva tagliato la corda non appena lei aveva pronunciato le parole bebè, culla e biberon. Aveva cresciuto quella figlia non voluta all’insegna dell’egoismo e della noncuranza, non mancando mai di sottolineare la sua frustrazione per quel ruolo, di ragazza madre lavoratrice, che così poco, secondo lei, le si confaceva.

La ragazzina, dopo le iniziali delusioni, si arrangiò; si creò una vita e sopravvisse, ma in cuor suo ammirava quella donna così elegante, fine, altera al punto che aveva finito per assomigliarle più di quanto avrebbe mai potuto ammettere. Ma adesso per mesi non si vedevano né si sentivano, e a Sandi stava bene così.

Si mise al PC. Anche quel giorno avrebbe provato a scrivere. Era, in fin dei conti, libera per il resto della giornata. Optò per una protagonista donna: si vantava di conoscere il mondo femminile in ogni sua sfumatura. Sbagliava, ovviamente: conosceva solo il versante cattivo delle donne – quello maligno, malizioso, fatto di inganni e menzogne.

“E Carola soffiò via il fumo della sigaretta, mentre il cielo si schiariva. Sarebbe, finalmente, tornata...”

«Dove? Dove deve tornare Carola?», si domandò ad alta voce, spazientita. Non trovò una risposta.

Che lavoro avrebbe fatto Carola? E perché la sua vita sarebbe stata così particolare? Riuscì a buttare giù, con fatica, 7 pagine e mezzo poi, esausta e svuotata, chiuse il computer. Accadeva sempre questo: trovava un nome, un luogo, una data e una potenziale storia nella sua mente ma poi si stancava; l’entusiasmo cedeva il passo dapprima alla monotonia e poi alla totale indifferenza. A quel punto il file veniva gettato nel cestino e mai più recuperato. Decise di non lanciare, metaforicamente e letteralmente, quel primo contenuto abbozzato in un cestino; magari si sarebbe rivelato utile. Sì, magari.

3

Eddie era completamente bagnato. Aveva corso almeno un’ora e mezza. Qualche mese prima aveva sentito una sua collega dire ad un’altra che aveva il sedere moscio e si era arrabbiato e offeso non poco. Lui aveva sempre vantato un fisico asciutto e una forma invidiabile, ma ora aveva i suoi anni. Invece di arrendersi al fatto che il suo sedere non avrebbe certo potuto sfidare le leggi della gravità aveva deciso di iniziare a fare jogging. Le prime volte era stato uno strazio, un trauma. Si fermava, dopo pochi metri di corsa, con il viso stravolto dal colore pallido-cadavere e con un fiatone che si sarebbe sentito dalla regione vicina. Ora aveva una buona media, si fermava di rado e non ansimava più come un moribondo. Fiero del fatto di avere riottenuto un sedere tonico e sodo, passava davanti a quelle megere delle sue colleghe ostentando una camminata sicura e diritta. Quasi sculettava e i loro sguardi erano scioccati.

Un “don” uscì dalla sua tasca della tuta. Prese il telefono cellulare e lesse il messaggio di Giorgia, la sua collega. Lui era uno dei 16 impiegati di un grosso studio commerciale, e sovente lavorava con lei. Più che altro, lui la guidava. Fresca di studi era stata spedita nel mondo del lavoro; non sapeva nemmeno allacciarsi le scarpe, ma lui la stava istruendo a dovere.

“Senti, Eddie. Dobbiamo riguardare quella faccenda del signor Consi. È necessario, lo sai, che sia pronta entro le dieci di domattina. Considerando che in ufficio arriviamo alle 9, credo che ci dovremmo vedere questa sera. Io sono libera, tu?”

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