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Capitolo Sei
Capitolo Sette
Capitolo Otto
Capitolo Nove
Capitolo Dieci
Capitolo Undici
Capitolo Dodici (#ulink_3c57193d-0172-528b-b5bb-16741073ae02)
Capitolo Tredici (#ulink_1e38112f-482f-59b4-a291-16f748b41abc)
Capitolo Quattordici (#ulink_a2dda2b0-ca61-5c46-8948-9f7768cfe5da)
Capitolo Quindici (#ulink_aa70a9b4-4d26-5c58-8d72-ee06c7238c2a)
Capitolo Sedici (#ulink_5ecdf6e2-0061-58d2-abf9-f3c0de7b82b4)
Capitolo Diciassette (#ulink_a945ccd2-6feb-536e-b1c4-d771bf2aa557)
Capitolo Diciotto (#ulink_9806eb25-c196-5e5d-9fa6-429b53caff2f)
Capitolo Diciannove (#ulink_dbab05e8-1211-5624-a786-b9f5be5d5aed)
Capitolo Venti (#ulink_cfe0d81e-6939-5c3f-b554-d9552d25d4e2)
Capitolo Ventuno (#ulink_c59703c2-0555-5413-b0d5-8aaeb12f1ba3)
Capitolo Ventidue (#ulink_8f304740-6d8c-57f5-bcdd-a2035276d4ab)
Capitolo Ventitré (#ulink_f2c1925e-fc03-56e3-a8b4-6e960c597c6d)
Capitolo Ventiquattro (#ulink_f2ba42f1-65e7-55bc-96d2-e6a24cb2ccd7)
Capitolo Venticinque (#ulink_427d0321-cb8e-5d59-bc56-88641228fd36)
Fine
Capitolo Uno
Tornai in Birmania in una mattina tropicale del giugno 1941. Avevo lavorato come marinaio sulla nave Katanga, che era attraccata sul fiume Irrawaddy, a Mandalay, camminai sotto piogge sparse fino al vecchio Nadi Myanmar Hotel.
Chiesi la stanza 706 e l'impiegato della reception mi guardò sorpreso quando aprii il pugno mostrandogli la chiave di quella stanza. Si girò a fissare il muro di armadietti polverosi, uno per ogni stanza dell'albergo, poi toccò la chiave nella scatola della stanza 706. L'omino magro mi guardò, con gli occhi spalancati.
“Milleseya,” sussurrò, ‘magico’. O voleva dire ‘mago’?
Non importa. Ero troppo stanco per spiegare perché avessi un duplicato di quella chiave da otto anni. Magico andava bene per ora; un giorno avrei potuto spiegare.
Qualche minuto dopo, il fattorino era al centro della stanza 706, tenendo la mia valigia bagnata e gocciolante con entrambe le mani. Nonostante il suo ampio sorriso, non riusciva a nascondere il dolore che gli velava gli occhi e gli corrugava la fronte. Le articolazioni gonfie e deformate delle sue dita e il modo in cui appoggiava meglio il piede destro quando camminava, suggerivano un grave caso di artrite reumatoide. Dubito che avesse più di trent'anni, troppo giovane per una malattia così debilitante.
Fece una domanda in birmano. Lo fissai per un momento, cercando di districare la traduzione nella mia testa. Qualcosa a proposito di farmi oscillare nell’armadio. No, i miei vestiti — voleva appendere i miei vestiti nell’armadio.
Scossi la testa e cercai in tasca dei soldi, poi tirai fuori una manciata di monete e per un momento mi ritrovai completamente confuso.Un tempo capivo perfettamente le denominazioni dellerupie, ma in quel momento mi ci volle tutta la mia concentrazione per ricordare; sediciannassono unarupia,e quattropaisesono un’anna. Leannase lepaiseerano fatte di bronzo e avevano i valori approssimativi in moneta americana di due centesimi per un'anna e mezzo centesimo per unpaise. Le monete da una rupia erano pesanti, fatte d'argento, e valevano circa trentadue centesimi.
Scelsi un'anna lucida e, dopo aver dato un'occhiata alla sua faccia sorridente, ne aggiunsi un'altra. Quando gli porsi le due monete, posò con cautela la mia valigia e accettò la mancia con grande riverenza. Mi ringraziò per i soldi, poi mi fece un basso inchino uscendo dalla stanza e chiudendo la porta.
Aprii la valigia sul pavimento e con mia sorpresa trovai i vestiti all'interno asciutti. Mi tolsi quelli umidi, li appesi nell'armadio e mi infilai una camicia e dei pantaloni puliti. Abbottonai la camicia, e dopo aver preso il mio kit da barba in bagno, andai alle finestre.
Dei soavi raggi di sole penetravano da una fessura tra le nuvole e illuminavano il balcone come un palcoscenico che prendeva vita per il secondo atto. Aprii la portafinestra e uscii per vedere la città di Mandalay bagnata dalla pioggia.
Sotto di me, i risciò schizzavano lungo i ciottoli, spingendosi tra la folla di pedoni. Le ragazze della servitù pedalavano con le loro biciclette verso i quartieri residenziali. Una contadina si sforzava al giogo di un carretto a due ruote pieno di meloni gialli, polli starnazzanti e oche strombazzanti. Un ragazzino con la testa rasata e la veste arancione brillante balzò dopo aver accarezzato un cucciolo randagio e raggiunse di corsa i suoi fratelli scalzi, che marciavano con precisione militare verso una vicina pagoda.
Vedere le donne affrettarsi a sbrigare le loro faccende di sotto, mi procurò una sorda fitta di tristezza. Kayin avrebbe avuto circa ventisette anni ora, e chiunque di loro avrebbe potuto essere lei, iniziando la sua routine quotidiana. Mi chiesi cosa avesse fatto per tutti questi anni.
I panorami e i suoni dell'antica città mi interessavano molto, ma non era la città del 1941 che prendeva vita quel martedì mattina a tirarmi il cuore: era la Mandalay del 1933. Erano passati otto anni, ma la sua immagine era solare come la scena della strada sottostante. Quante volte io e lei avevamo passeggiato insieme lungo...
Un forte bussare alla porta mi fece trasalire. Nessuno sapeva che ero tornato a Mandalay, ma pensai subito a Kayin.
Gli inglesi la chiamavano ‘Eurasiatica’, sangue misto, un'intoccabile. Sua madre era birmana e suo padre un soldato scozzese delle Highlander. Era un bombardiere d'artiglieria nella prima guerra mondiale, assegnato ai lancieri del Bengala. Kayinaveva ereditato la figura minuta di sua madre e i tratti asiatici dalle tinte tenui, insieme agli occhi del padre, blu come il cielo del porto di Aberdeen nel mese di maggio...
Bussarono di nuovo, più forte e con grande urgenza. Quando aprii, fui colpito da una rabbiosa raffica di parole birmane che arrivarono così velocemente che non capii quasi nulla di quello che disse. La donna era sulla sessantina e mi era vagamente familiare, ma troppo vecchia per essere Kayin. L'esplosione raddoppiò quando le sue mani si agitarono in aria per animare l'arringa. Il suo sguardo non incontrò mai il mio, ma piuttosto guizzava oltre il mio orecchio sinistro, come se la sua rabbia fosse diretta ad un'altra persona da qualche parte dietro di me.
La povera donna era afflitta da un grave caso di ipertelorismo, una condizione medica in cui gli occhi sono troppo distanti fra loro. In aggiunta alla deturpazione della donna, il suo viso era compresso verticalmente a sinistra perché le mancavano tutti denti da quel lato. La furia delle sue emozioni contorse i suoi lineamenti irregolari in una maschera di rabbia intensa.
Volevo chiudere la porta in faccia all'arpia dai capelli grigi, ma lei anticipò la mia azione facendo un passo verso di me, quasi inciampando su qualcosa ai suoi piedi. La sua mano ossuta afferrò il bordo della porta reindirizzando la sua ira verso il basso e continuando il suo rimprovero con la sua lingua affilata.
Abbassai lo sguardo per vedere cosa avesse causato la sua rinnovata ira. Davanti alla donna c'era una bambina. Spaccato e arrotolato sulla sua spalla, pendente da una cinghia di cuoio, portava un materassino da letto in bambù. Con il viso all’insù, mi guardava con la serenità di unangelo, ignaro della tempesta verbale che infuriava sopra la sua testa.
Il mio polso reagì con fluttuazioni voltaiche quando mi resi conto che la vaga familiarità della vecchia donna era duplicata, ingigantita, nel volto della bambina. Aveva sette o otto anni, e il suo viso era, in contrasto con quello della donna, il più perfetto possibile. I suoi lineamenti erano perfettamente simmetrici, come se fossero stati disegnati con cura da un maestro scultore o da un ritrattista esperto. Il naso, gli occhi e la bocca erano perfettamente posizionati sulle morbide curve di una tela a forma di cuore. I lunghi riccioli scuri cadevano in turbini per incorniciare le dolci e innocenti guance fulve. E i suoi occhi... che affascinanti occhi blu.
La voce della vecchia mi assalì ancora una volta. “Kayin” fu una delle poche parole sputate che riuscii a riconoscere. Cercai di tradurre il suo rapido birmano in inglese, ma lo interpretai come:‘andato e passato’... ‘tu, fannullone, buono a nulla, maledetto, vai via, figlio americano di arraffa-biscotti’... ‘Rama non è morto e mi ha resala Salvatrice di tutti i bambini perduti’... ‘non posso, ma solo nutrirmi da ieri’.
Cercai di interromperla per chiederle di Kayin, ma lei chiuse la porta, lasciando la bambina dentro con me. Il battito dei piedi nudi della donna percorse il corridoio, poi svanì..
Io e la bambina ci fissammo, il suo viso senza la minima traccia di emozione e il mio, immagino, con un'espressione incredula per quello che era appena successo. Sentire la donna pronunciare il nome di Kayin mi aveva colpito duramente, ma cercai di ammorbidire la mia espressione per la bambina.
Ero appena riuscito a riorganizzare il mio shock in un'espressione gentile quando sentii un leggero tocco alla porta.
"Grazie al cielo, è tornata a prenderti".
Aprii la porta e presi la ragazza per la spalla, spingendola delicatamente fuori in quelle che mi aspettavo fossero le braccia aperte di una vecchia donna pentita. Con mia sorpresa, non c'era nessuno, almeno non all'altezza degli occhi. Ma quando abbassai lo sguardo, apparve un'altra bambina! Una copia esatta della prima, compreso il materassino. Le due si guardarono per un momento, senza sorpresa, con un faccino sereno. Poi, all’unisono, si voltarono a guardarmi.
Mi affacciai sopra di loro, dando un'occhiata lungo il corridoio. Non vidi nessuno; né la vecchia, né un fattorino, né altri ospiti. Poi controllai entrambi i lati della porta, assicurandomi che un terzo o quarto bambino non stesse aspettando per lanciarmi quello sguardo così innocente dagli occhi blu. Le ragazze copiarono ogni mio movimento, guardandosi attorno, poi di nuovo verso di me, ma né loro né io vedemmo altri bambini.
Grazie a Dio!
Le ragazze si presero per mano e mi superarono nella stanza. Andarono al divano di rattan imbottito, si sedettero e si sistemarono, con i piedi nudi penzolanti nell'aria. Capii dai rigonfiamenti irregolari delle loro stuoie arrotolate che non servivano solo per dormire, ma portavano anche tutti i loro averi. Le due ragazze le sistemarono sulle proprie ginocchia e si accomodarono sul divano.
Chiusi la porta e mi sedetti sulla sedia di rattan di fronte alle ragazze. La sedia accanto a me era vuota, ma piena di una presenza spettrale. Era quasi come se Kayin fosse morta e mi avesse lasciato due piccole copie di sé.
"Cos'è successo?" Non volevo che la domanda si disperdesse nell'aria; avrei voluto rivolgerla alla sedia vuota.
Quando guardai le ragazze, non vidi segnali di comprensione alle mie parole.
"Cos'è successo a Kayin?"
Sapevo che le ragazze dovevano essere nervose, spaventate, o almeno incuriosite dal magro straniero davanti a loro. Con la mia carnagione cinerea, gli occhi infossati e la struttura sottile, non ero un granché da vedere. Ma anche alla loro giovane età, avevano già imparato l'abilità asiatica di non far trapelare alcuna emozione dalla loro faccia. Tuttavia, mi sembrò di vedere un impercettibile tic in un occhio della ragazza sulla destra.
Mi appoggiai alla sedia, guardandole. La mia mente vagava, a volte senza meta, ma sempre tornando all'incubo senza fine degli otto anni che avevo perso.
Non ricordo quando avevo notato per la prima volta i miei sintomi. Forse quando Rajisoffriva l'astinenza da morfina dopo averla operata. Avevo una leggera febbre, respiro corto, niente di cui preoccuparsi. Intorno a me c'erano uomini che soffrivano e morivano a causa di ferite orribili, e Raji aveva passato l'inferno. Perché avrei dovuto preoccuparmi di una leggera febbre?
"Ora facciamo visita al bagno".
Venni scosso dai miei ricordi di Little Miss Right Side, che mi parlava nel suo inglese britannico quasi perfetto.
"E quando usciremo", disse sua sorella, "potremmo avere un po' di fame, probabilmente".
Sbattei le palpebre. Lo fecero anche loro ma non si mossero dalla loro posizione sul divano, in attesa, presumo, del permesso di andare in bagno.
"Sì, certo". Indicai dall'altra parte della stanza una porta chiusa. "Lì c'è il gabinetto. Andate pure, se volete".
Scesero dal divano senza dire una parola e si diressero rapidamente verso il bagno. Notai che si erano portate dietro i materassini, tenendoli stretti.
Mentre le ragazze erano in bagno, tornai al punto in cui mi trovavo prima che bussassero alla mia porta, camminai ed esaminai le caratteristiche della stanza come una fotografia sgualcita e consumata di un lontano passato. C'era la familiare scrivania, un tavolino basso tra il divano e due sedie, un letto con comodini e lampade a destra e a sinistra, immagini di montagne, uccelli e diRe Rama IV alle pareti. Una zanzariera pendeva sopra il letto, ordinatamente legata all'indietro durante il giorno.
La finestra con le tende e le porte francesi si affacciava sulla strada sottostante. Il piccolo balcone era rimasto com'era anni prima, appena sufficiente per ospitare due amanti così presi l'uno dall'altro che quasi non notavano se il cielo fosse soleggiato o coperto.
Rimasi ai piedi del letto, guardandolo come se potesse prendere vita davanti ai miei occhi. Il copriletto era nuovo, ma la testiera e il disegno batik di qualche tempio locale erano gli stessi. Anche i comodini e le lampade erano gli stessi. La vecchia toppa sul paralume sinistro era ancora lì, ma ora discretamente rivolta verso il muro.
I momenti passavano, ma io ero fermo, non potevo muovermi. Traballavo su una corda tesa di emozioni, lottando per restare in equilibrio. Due bambine, belle e innocenti, ma senza la loro madre. Perché la vecchia le aveva portate a me e non a Kayin? Perché affidarle ad unestraneo invece che alla loro madre? L'unica cosa che mi venne in mente era che non poteva portargliele perché era malata, o scomparsa, o... no, non volevo più pensarci.
È stato sciocco da parte mia chiedere la stessa stanza, il piccolo spazio che io e lei avevamo condiviso per una piccola, intensa settimana. Perché questa volta non era occupata quando sono arrivato? Almeno così avrei potuto evitare tutto l'inutile tormento sentimentale.
Andai alla portafinestra e rimasi lì, con le braccia incrociate sul petto. Il piccolo balcone appariva proprio come otto anni prima. La nostra prima notte insieme, Kayin ed io avevamo portato le due sedie là fuori, ci eravamo stretti e ci eravamo seduti vicini. Avevamo parlato finché il cielo dell'est non si era schiarito da un blu profondo ad un tenue grigio tortora.
Un rumore arrivò dal bagno. Qualcosa cadde nel lavandino di porcellana. Sferragliava come un lungo oggetto di metallo, tintinnando avanti e indietro finché qualcuno non lo fermò. Poi qualche parola sommessa, seguita da un paio di risatine. Cosa stavano facendo?
Capii cosa doveva essere l'oggetto metallico: il vecchio bisturi del mio kit da barba. Ma cosa ci stavano facendo? Lo strumento era estremamente affilato. Mantenendo il manico, avrebbero potuto facilmente tagliare un dito fino all'osso. Cosa avrei dovuto fare? Le decisioni erano così difficili per me ora. E non ero mai stato un genitore prima. Cosa avrebbe fatto un padre? Ero il loro padre?
Feci un passo verso il bagno, ma mi fermai quando sentii scattare la maniglia della porta.
Capitolo Due
Con mio sollievo, le ragazze uscirono dal bagno senza alcuna ferita visibile.
"Andiamo di sotto", dissi, "e troviamo qualcosa da mangiare".
Annuirono ma non dissero nulla.
Mi chiesi se avessero capito qualcos’altro o se stessero solo aspettando che io mi muovessi per primo.
Andai verso il bagno. "Mi laverò prima di andare".
* * * * *
Scendendo con l'ascensore verso il piano terra, mi rivolsi ad una delle ragazze.
"Come ti chiami?"
"Marie".
Suppongo che non avrebbe dovuto essere uno shock per me, ma mi aspettavo un nome birmano. Mi ci volle un momento per rimettere in ordine i miei pensieri.
"È il nome di mia madre".
"Sì, Signore. Lo so. Scusi, quando verrà a trovarci nonna Marie?".
"Beh, quando le scriverò una lettera e le dirò di te e di tua sorella, penso che vorrà vedervi presto".
"Può, se le fa piacere, scrivere la lettera oggi?".
"Potrei farlo, ma forse dovrai aiutarmi".
Marie aggrottò le sopracciglia e guardò il pavimento, ma non rispose.
Mi rivolsi a sua sorella. "E mi chiedo se il tuo nome sia Suu-Kyi, dall'altra vostra nonna".
"Sì. Lei è morta, sai".
"Sì, lo so. È morta molti anni fa, quando tua madre era solo una bambina, come te".
"Ma ora abbiamo la nostra nuova nonna, Marie".
La piccola Marie alzò gli occhi verso di me. "Non capisco".
"Che cosa?"
"Del fatto di scrivere una lettera a nostra nonna Marie".
"Oh, non preoccuparti, farò io la lettera. Tu e Suu-Kyi mi direte le cose che volete che vostra nonna sappia".
Marie sembrò ancora un po' perplessa.
Suu-Kyi era alla mia destra e Marie alla mia sinistra; tuttavia, se avessi chiuso gli occhi e si fossero scambiate di posto, non me ne sarei accorto. Non solo i loro volti erano identici, ma anche i loro vestiti. Le camicie verdi sbiadite e i pantaloncini marroni sembravano essere fatti su misura. Non avevano scarpe.