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Oltre Il Limite Della Legalità
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Oltre Il Limite Della Legalità

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“Giuro che un giorno te li ritorno tutti questi soldi, e con gli interessi.”

“Si si, dicono tutti così, tanto lo so come va a finire, che ci ritroviamo tutti e tre davanti a una chiesa con il berretto in mano.”

“Eh eh, mi sa che ci vedi lungo te. Senti una cosa Khan. Ma Abdlak, che lavoro fa? Dove abita? Perché ho l’impressione di averlo già visto ma non ricordo più dove.”

“Abdlak? Lui ha una pizzeria da asporto in via Ferrarese. E non pensare male, non l’hai arrestato credimi. Ti dico io dove l’hai visto. Ti ricordi l’ultimo periodo che lavoravamo assieme?”

“Beh, certo che mi ricordo…perché?”

“Un giorno siamo andati a mangiare assieme, nella pausa pranzo, ti ricordi?”

“Certo…dai non farmi stare sulle spine, spiegati meglio.”

“Quel giorno mi eri venuto a prendere a casa perché vi serviva una traduzione urgente sull’indagine in corso, nel riportarmi indietro, considerato che nessuno dei due aveva cenato, ti avevo invitato a fermati nella pizzeria di Abdlak, e lì lo hai conosciuto.”

“Ah si, ora ricordo. E se non sbaglio c’era anche tuo fratello. Giusto?”

“Giusto.”

“E non ci sono più ritornato perché la pizza faceva schifo.”

“Ah, quello lo sai tu. A me piace.”

“Diciamo che la pizza è un’altra cosa…però ora comprendo come mai quella brutta faccia mi fosse famigliare.”

“Abdlak è una persona sulla quale ti puoi fidare. Ha passato momenti difficili, e come hai potuto constatare, lo hanno segnato, ma ora è una persona diversa.”

“Se lo dici tu mi fido. Dai andiamo se no si fa tardi.”

“Eccoci arrivati a casa di Abdlak. Prima di entrare, prendi la borsa che c’è nel bagagliaio…e dì che la offri tu. E non ti preoccupare, l’ho già inserita nel tuo debito.”

“Grazie, non saprò ringraziarti abbastanza.”

“Buona sera a tutti, Enrico ha voluto farvi una sorpresa e ha portato un po’ da bere. Abdlak spero che tu non abbia comperato troppe cose.”

“Beh, l’alcool non va a male, quindi se ne rimane lo teniamo per la prossima volta che ci vediamo a casa mia.”

Sin dalla prima volta che avevo visto Abdlak mi aveva dato un’impressione ambigua. Era un uomo sulla quarantina, e se non aveva quarant’anni di certo li portava maluccio. Solitamente mi era capitato di pensare che le persone paffutelle dimostrassero meno dell’età che avevano, ma nel caso suo era diverso. Il viso rovinato, per chissà quale assurdo motivo, e lo sguardo non troppo amichevole, lo rendeva una persona a primo impatto cattiva e con la quale era meglio non averci a che fare. Non importava se indossasse una camicia e un paio di jeans sgualciti, quando ci si ritrovava ad avere a che fare con Abdlak, datemi retta, era meglio girare i tacchi e andarsene. Teneva la barba sempre ben curata e i capelli rasati a pelo, apostrofandogli un’aurea scorbutica. Il suo modo di vestire poteva essere approssimativo, ma era comodo e di qualità, e di certo non lasciato al caso. Il sembrare leggermente trasandato faceva parte della sua persona e di certo gli serviva per nascondere qualcosa sotto ai vestiti.

Avevamo parcheggiato la macchina ai piedi di una palazzina dall’aspetto elegante, incastonata in due palazzi dall’ugual sembianza. Il quartiere trasmetteva signorilità e sicurezza. Le sue lavorazioni barocche lasciavano a bocca aperta chiunque si soffermasse ad ammirarle, e in quel tramonto, dettato dallo stupendo gioco di luci, il sacrilegio più grande sarebbe stato non degnarle di uno sguardo. Già posati i primi passi sull’asfalto, una leggera brezza primaverile cullava le note medio orientali fuoriuscenti dall’immobile del padrone di casa. Sebbene i miei sensi erano impegnati ad assorbire gli stimoli provenienti dal mondo esterno, il mio cuore pulsava per inalare la sua anidride carbonica. Una volta aperto l’uscio di casa e aver ricevuto gli onori da tutti i presenti, il mio sguardo si dannava in cerca della sua musa. Avevo voglia di vederla, sfiorarla, volevo ritrovare l’ossigeno dopo ore di agonia, ma non ci riuscii, perché lei non c’era. Mi rassegnai, e mettendomi comodo, cominciai a parlare con chi avevo più confidenza, l’alcool. Versai un po’ di lemon sul bicchiere di vodka e tutto venne più naturale. Proprio mentre mi stavo per riempire il secondo bicchiere ecco che la mia mano fu avvolta da un’altra mano, soffice e calda.

“Lascia, faccio io, se non ti dispiace.”

Il mio sguardo andò inizialmente alla mano posata sulla mia e lentamente a salire sul suo volto. Sentii una vampata di calore salirmi dallo stomaco sin alla testa, una sensazione tanto strana, quanto meravigliosa. Una volta che i nostri sguardi s’incrociarono, fu come se il mondo intorno si fosse fermato. Eravamo stati scagliati in un paese sconosciuto e noi eravamo gli unici due interpreti delle nostre parole. Non la conoscevo affatto ma la sentivo mia come non avevo mai sentito nessun’altra. Ora che le nostre mani erano tutt’una, non la volevo lasciare, non volevo spezzare quell’incantesimo meraviglioso e unico. Fu lei a sciogliere il legame per offrirmi da bere e com’era arrivata se ne andò lasciandomi come uno stoccafisso.

La seguii con lo sguardo, il suo ondeggiare tra il fumo dei narghilè, le donava un’aurea ancor più misteriosa. Dopo aver aspirato due/tre boccate, si fece trasportare del ritmo che risuonava nella casa. Quella melodia era qualcosa di magico e incantevole, il ritmo accoppiato al movimento di un corpo così perfetto e aggraziato mi lasciò a bocca aperta. Facevo scendere la bevanda minuziosamente preparata per aver l’autrice di quel servigio il più presto di nuovo accanto a me. Mi guardò assaporare la sua opera e una volta posato il bicchiere si defilò nel terrazzo che le stava alle spalle. Non potei non seguirla. In un primo momento le mie gambe cedettero come se avessi perso tutte le forze, rovinando sul divano. Fui preso del tutto in contropiede, non mi era mai capitato e sembrava che non volessero rispondere ai miei voleri, intanto dalla vetrata del terrazzo c’era Sophia che nella penombra controllava i miei movimenti. Riuscii a recuperare le forze e a deliziarmi della compagnia della mia incantatrice.

“Noi non possiamo fare quello che stiamo facendo.”

La guardai in modo incredulo.

“Cos’è che stiamo facendo?”

“Sai benissimo di cosa parlo. Anch’io ti sento vicino a me, ti desidero con ogni cellula del mio corpo, ma forse è l’alcool che parla. Però non posso…lo so che non mi capirai, però un giorno forse riusciremo a stare assieme.”

“Non ti capisco…”

“Nemmeno io riesco a capirmi.”

Con gli occhi che scrutavano l’orizzonte, come rapita da un’altra dimensione, aggiunse: “quando ti senti solo, rapito, indifeso e senti che il mondo ti crolla addosso, dove vai Enrico?”

La guardavo con curiosità senza riuscire a darle una risposta. Guardavo il profilo del suo volto, sprofondando nella luminosità della luna, riflessa dal suo occhio sinistro, senza riuscire a esternare i miei pensieri, ma questo per una semplice ragione, lei lì monopolizzava. Sino a che non concentrò la sua attenzione su di me.

“Sei mai stata ai giardini di villa Spada?”

Un’ombra vellutata e fulminea attraversò il suo sguardo e prima che potessi formulare qualsiasi pensiero o domanda, m’incalzò con la sua risposta.

“No. Non so dove siano. Mi ci porterai un giorno Enrico? Dimmi di sì, te ne prego. Anche se è una bugia, dimmi di sì, ne ho bisogno.”

“Sì. Andremmo. Andremmo lì, come in qualsiasi altro posto tu vorrai. A me basta stare con te.”

A quelle parole, il sorriso che mi aveva regalato, aveva illuminato quella notte d’estate. Poi d’un tratto e senza dire nulla più, entrò in casa lasciandomi a bocca aperta. Come un cretino la guardai andarsene. Non mi aveva dato l’opportunità di assimilare le sue parole e di replicare. Ma perché dirmi tutte quelle cose, perché colpirmi così duramente senza darmi una spiegazione? E perché era triste mentre lo diceva? Non ci capivo nulla. Non ci avevo mai capito nulla! Rimasi lì come un idiota a pensare e ripensare ai suoi discorsi, senza trovarne una giustificazione. Rincasai e annebbiai ciò che provavo con la vodka. L’alcool per me era come una spugna che riusciva inizialmente a confondere i lineamenti dei problemi, successivamente a marcarli in profondità, sino a trasmettermi le sensazioni peggiori che potevo provare, facendoli divenire i più importanti e insormontabili del mondo, e infine rimpicciolendoli in misura millesimale, almeno sino a che la sbornia sarebbe durata. Anche perché, arrivata la sveglia, ritornavano più forti e ridondanti che mai, accompagnati dall’amico d’avventure; il mal di testa.

Il suo comportamento mi mutò completamente, divenni un fantasma, una comparsa senza spirito e accondiscendenza. Non volevo parlare con nessuno, cercavo di distrarmi, di rilassarmi con la musica, ma sinché lei era lì a pochi metri da me non riuscivo a comportarmi diversamente. Di tanto in tanto scambiavo due parole e qualche battuta con i miei nuovi amici, ma non riuscivo a far nient’altro, come avrei potuto? Lei lo sapeva, lo percepiva, ma più cercavo in lei qualche carezza spirituale e più lei mi schiaffeggiava con il suo atteggiamento indifferente, gigioneggiante e irriverente. Presi il mio bicchiere, dopo averlo fatto straripare e uscii nuovamente in cerca di quiete.

Le luci dell’alba mi sorpresero. Il freddo cominciò ad attecchire la mia carne e il mio spirito. Il pavimento di legno della veranda aveva cullato il mio riposo come meglio aveva potuto e la coperta del cane, coadiuvata dal suo padrone, erano riusciti a farmi sentire meno solo. Nelle prime fasi del risveglio speravo che la creatura che stava accanto a me fosse tutt’altro che un Rotvailer, e invece, prima l’alito, e poi il suo pelo, mi avevano fatto tornare con i piedi per terra, anche se a lui sembrava non disgustare la mia compagnia.

Rientrai in casa. Tutti stavano dormendo, chi sul divano, chi per terra, ma lei non c’era e a dir la verità, il solo pensiero di sapere dove fosse in quel momento mi faceva venire il volta stomaco.

Presi le poche cose che avevo e me ne andai, avevo voglia di fare due passi e prendere una boccata d’aria fresca per ossigenare la mente e scacciare lontano il suo pensiero. Da quando l’avevo conosciuta sembrava che tutti i miei problemi fossero scomparsi e lei fosse la mia unica ragione di vita, l’unica dannazione reale per annientarmi l’anima.

La vita fa schifo. Mi accorgo giorno dopo giorno che questo pensiero mi accompagna in ogni singola giornata. Non importa che sia inverno o estate, che sia sobrio o ubriaco, che sia giorno oppure notte, non fa alcuna differenza, non riesco a mutarlo. Di tanto in tanto tendo a dimenticarmelo, ma puntualmente è sempre lì a rinfrescarmi la memoria, perché almeno in questa vita, sono sicuro che non avrò mai l’opportunità di essere veramente felice. La potrò inseguire, avvicinare, ma mai raggiungere. Riuscirò a beneficiare dei suoi influssi positivi ma non riuscirò a mangiarne i dolci frutti. Sento dire che la vita è una ruota, che gira un po’ per tutti, si ma in quella ruota credo non sia inserito il mio nome, perché chiunque mi circonda, a differenza mia, ha una vita normale e tranquilla. L’alcool anestetizza i pensieri del cuore. Non ho voglia e non ho forza di pensare. Mi basterebbe così poco per essere felice ma ciò non mi è concesso. Forse sono io che non mi accontento di ciò che mi si presenta d’avanti, ma è altrettanto vero che devo seguire il mio istinto per scegliere la strada giusta da seguire.

Ma che cos’ho che non va? Perché non riesco ad adattarmi, accontentarmi di chi mi sta intorno e mi desidera, perché allontano queste persone come fossero estranei, perché cerco sempre qualcosa in più, qualcosa che sino ad ora non ho mai trovato? Continuo comunque a cercare, ad alimentare la fiamma che brucia dentro di me, alla ricerca di qualcosa che nemmeno io conosco e del quale ignoro l’esistenza. Ma non riesco a fermarmi, ad assecondare la mia personalità, la mia coscienza, il mio istinto, guardo avanti, forse troppo, forse troppo poco, ma non riesco farne a meno, è come respirare e se smettessi potrei anche morire. Spero di terminare presto questa mia ricerca, spero di placare il mio animo e la mia mente, ho voglia di farlo e di innamorarmi.

Che cos’è l’Amore? E’ un sentimento strano e contorno ma allo stesso tempo semplice e sincero. Un istinto incontrollabile e irrefrenabile che ti fa vedere oltre qualsiasi ostacolo. Quando sei innamorato e la persona che ti sta accanto condivide pienamente questo desiderio è come essere in paradiso. Nessuno sa descrivere com’è il paradiso e se esista, ma quando nasce l’Amore per una persona e questo è corrisposto, la felicità invade tutto il tuo cuore, eliminando qualsiasi piega e ombra esistente sino a quel momento. Qualsiasi cosa accada, c’è una persona speciale che ti sta accanto, pronta a confortarti, ad ascoltarti, a consigliarti, insomma a condividere ogni momento, ed è felice di fare parte della tua vita, praticamente di te.

Cammino distrattamente per le vie della città incurante delle persone che incrocio e delle abitazioni che al mio passaggio tralascio, come fossero opere insignificanti e non degne d’ammirazione. Cerco di liberare la mente lanciandola in qualsiasi percorso mi volesse trasportare, incurante del mezzo con il quale farlo e del luogo da raggiungere. Un passo si sussegue all’altro, quasi per inerzia. Sento come se la mia ombra fosse rimasta a casa di Abdlak a dormire in compagnia di Attila e della sua coperta, mentre il corpo si è alzato e sta affrontato questo viaggio senza di essa, trasmettendomi una sensazione tutt’altro che conosciuta, non riuscendo a capire la differenza tra i sogni e la realtà. In queste due condizioni vedo la mia vita fragile e instabile, come se da un momento all’altro tutto si potesse capovolgere, facendomi ritrovare in un’altra dimensione senza che me ne accorgessi. Da un lato tutto questo è tanto affascinante quanto sconvolgente. È altrettanto vero però che non riesco a trovare un punto fisso sul quale concentrare le debolezze, evolvo la mia vita e i miei pensieri senza porvi un obbiettivo, perché tutto sembra tanto raggiungibile quanto distante. È una concezione alquanto paradossale ma della quale non riesco a scrollarmi di dosso, e ogni volta che mi avvicino a un obbiettivo, questo si allontana di altri dieci centimetri, è lì, lo vedo, mi basta solamente allungare la mano per poterlo afferrare ma non ci riesco, ho paura, paura di essere deluso da quello che mi può dare, mi piace vederlo lì, essere consapevole che mi basta spostarmi di soli dieci centimetri per suggellare ciò che desidero e quando il coraggio di fare questa scelta m’invade corpo e anima, ecco che si allontana nuovamente, destabilizzando il mio universo e con esso anche la sicurezza di me stesso. Cerco di analizzare i miei pensieri perché non riesco a comprendere il significato delle parole che ronzano nella mia testa. Penso alle esperienze passate, alle persone con le quali ho avuto la fortuna e sfortuna di condividere la mia vita. Insomma sono pensieri dettati dal subconscio e non riesco a darne una spiegazione. Forse sono dettati dall’alcool che continua ad alimentare i neuroni nella mia testa destabilizzandoli nel loro lavoro. Mille volte ho cercato di capire i miei pensieri e le mie azioni, ma ogni volta che ci provo, mi trovo a scoprire che non mi conosco affatto, e questo mi spaventa, sconvolgendomi.

Dal finestrino aperto della macchina di un teenager fermo al semaforo, la musica di Eminem conquistava i miei nervi… “Not Afraid” aumentando la rabbia e l’adrenalina che mi scorreva nelle vene. Avevo cominciato a cantare e a caricarmi. Non avevo motivo per farlo ma mi veniva naturale. Non dovevo. Avevo bisogno di stare calmo perché potevo fare delle stupidaggini. Mi ero messo a fissare il ragazzo al semaforo senza giustificazione, forse perché guardandolo era come se ricevessi direttamente quell’energia. Apprezzavo la musica e anche la macchina, un’Audi S3 bianco perla, dal tettuccio nero apribile. Quella non era una macchina, era un gioiellino, sarebbe stato il mio primo acquisto quando la vita avrebbe cominciato un po’ a girare. Ero curioso di vedere se al volante c’era il solito figlio di papà. Feci due passi avanti e con mio grande stupore vidi Senna. Il mio caro e vecchio amico Senna, quale coincidenza. Se solo avessi avuto un’auto degna di essere chiamata auto, l’avrei potuto stuzzicare per farci un giretto spinto per le vie della città, anche se a veder bene non era solo. Accanto a lui c’era una ragazza della quale però non riuscivo a vederne i lineamenti per scoprire chi fosse e se la conoscevo. Sapevo che era sposato e non diedi troppo peso a quella presenza, anche se averla conosciuta m’avrebbe agevolato la conoscenza della banda e non poco. Dal vetro abbassato sbucava il suo braccio completamente tatuato. Teneva la mano posata sull’esterno della carrozzeria, e tra le dita risaltava l’incandescenza di una sigaretta, a contorno dei numerosi anelli. Vedevo che indossava un paio di Rayban a goccia, colorandolo della fragile sicurezza appartenente alle persone che si sentono invincibili, e la quale sembrava riuscisse a proteggerle dal male del mondo. Sorrideva, assecondando la sua compagna, e di tanto di tanto si affacciava dal finestrino per espellere il fumo della “paglia”. Ebbene avevo scoperto che era anche mancino, ma non credo che sarebbe stato un dettaglio importante. Ero affascinato dal suo tatuaggio e non riuscivo a toglierli gli occhi di dosso. Era sempre stato un mio sogno, ma aimè, a causa del lavoro, non avevo la possibilità di farlo. Ora però sarebbe stato tutto diverso. Non appena l’autunno avrebbe cominciato a ingiallire i paesaggi, le mie braccia avrebbero cominciato a prendere un po’ di quel colore.

Distolsi l’attenzione dai due piccioncini, che sentii allontanarsi al verde, dietro il rombo del motore e la scia di rap americano. Ripensai alla mia vecchia auto, rinchiusa nel garage del mio avvocato, dove nessuno l’avrebbe potuta trovare e nessuno sarebbe riuscito a sequestrarla. L’unico inconveniente era che non potevo utilizzarla, e a dire il vero, quell’Audi TT nera, mi mancava da morire. Mi mancava il rombo del suo motore, la lancetta della benzina che scendeva a vista d’occhio non appena si premeva sull’acceleratore, ma ancor di più mi mancava guidare accarezzato dal vento, senza che una banale e inutile cappotta ostacolasse il filtrare dei raggi solari. Chissà quando sarei riuscito a guidarla nuovamente? Tutta quella storia era assurda. Ogni giorno che passava, ero convinto che mi stessero facendo uno scherzo. Io, sovrintendente della polizia di stato, che per il suo lavoro avevo sacrificato tutta la sua vita, ora mi trovavo per strada come se quegli anni e quell’impegno non era mai esistito. Oramai non gli importava più nulla. Mi ero rassegnato al fatto, che se così doveva andare, sarebbe andata così. Come detto, era il fato a scegliere per noi, non il contrario.

Il pensiero di poter cambiare il mio destino si faceva sempre più forte e insistente, ma il fatto che mi ritrovassi a condividere la vita con le solite persone mi scoraggiava. Dovevo cominciare a sbilanciarmi, allacciare nuove conoscenze, cambiare città. Avevo provato già diverse volte a fare tutto questo, ma poi mi ritrovavo a essere al punto di partenza, un po’ per pigrizia e un po’ per paura, ma forse questo era il momento adatto, non avevo scelta. Dovevo dare una svolta drastica alla mia vita, oppure sarei rimasto un poveraccio che si accontentava di quello che gli passava sotto il naso giorno dopo giorno. Non riuscivo a capacitarmi di come non riuscissi a sfuggire al mio destino, alla linea guida della vita, alla strada maestra tracciata per il mio cammino. Avevo voglia di uscire dal sentiero battuto e camminare sui prati verdi e colorati, con tutte le loro insidie e problematiche. Avevo voglia di vedere boschi e deserti, paesaggi belli e brutti, insomma volevo sentirmi vivo perché, se non facevo così, non sarei mai stato felice e avrei continuato a sentire il mio animo intrappolato in quel sentiero, come se ci fossero stati dei fili dell’alta tensione a impedirmi di uscire. L’oppressione che sentivo forse era uno stimolo per farmi cambiare drasticamente, prendere e gettarmi fuori pista. Giorno dopo giorno mi ripetevo che la vita era la mia, ne avevo una soltanto e non riuscivo a trovare una ragione sensata per far ammalare il mio cuore e la mia anima, e tutto perché non facevo quello che sentivo. Me l’ero sempre chiesto, e sino a quel momento avevo cercato di vivere senza rimorsi, senza svegliarmi la mattina con il pensiero: “e se avessi fatto così…e se fossi andato in quella parte del mondo…se solo avessi incontrato le persone giuste…se fossi andato a chiederle come si chiamava…se solo avessi avuto il coraggio di farmi avanti fregandomene delle persone che mi stavano attorno, riuscendo così a vivere la mia vita da protagonista e non da spettatore”


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