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Oltre Il Limite Della Legalità
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Oltre Il Limite Della Legalità

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“Non credo siano fatti tuoi. Ero uno sbirro e ora non lo sono più, quindi vedi di farti gli affari tuoi.”

“Non volevo mancarti di rispetto. Lo sai che ho sempre avuto grandissima stima di te e vedrai che tutto questo si sistemerà, abbi fiducia nello Stato, la verità viene sempre a galla.”

“La verità, seeeee…la verità, a chi diavolo gliene frega della verità? A nessuno! E anche se fosse? Tutta questa faccenda si risolverà tra un anno o più, ed io sino ad allora che dovrei fare, dormire sotto un ponte? Eh me lo spieghi tu come faccio a campare per un anno senza lavorare, dopo quindici anni che faccio lo sbirro e lo stipendio mi bastava solo per arrivare a fine mese?”

“Tu sei una persona intelligente e non credo che la polizia sia il tuo unico mondo, apri gli occhi, allarga i tuoi orizzonti e vedrai che riuscirai in tutto ciò che vorrai. Questo è il mondo, il tuo mondo, ci sono persone che dal nulla diventano qualcuno solo perché hanno la volontà e la caparbietà di credere in loro stessi e la forza di non buttarsi giù alla prima difficoltà. Prendi tutto questo come la rinascita dello spirito e della persona, un capitolo nuovo ed entusiasmante della tua vita, della tua nuova vita.”

“Belle parole le tue, ma senza nulla non si va da nessuna parte.”

“Anche su questo ti do ragione, ma ora che hai intenzione di fare, di rimanere qui per il resto della giornata? Non rispondere nemmeno, prendi su i tuoi stracci e vieni a casa mia, se ti accontenti di un materasso buttato per terra, sei il ben venuto.”

“In altre circostante avrei rifiutato o almeno tentato di farlo, però accetto volentieri, e appena posso levo le tende. Ma con chi vivi? Anzi non me ne frega un accidenti, fai strada, e visto che ci siamo, che si mangia per cena?”

“Quasi me ne pento di averti invitato.”

CAPITOLO DUE – La risalita –

Non so se un nuovo capitolo stava iniziando o mi celavo a scoprire la fine della mia storia, fatto sta che presi quell’aiuto di buon auspicio e m’incamminai seguendo il mio nuovo coinquilino.

“Eccoci, siamo arrivati.”

Dopo aver cambiato tre autobus e aver fatto quasi un miglio a piedi arrivammo in quella specie di palazzo. Da fuori era tutt’altro che accogliente e di sicuro l’affitto non doveva essere stato molto alto, considerato l’intonaco che si sgretolava.

“Non male questa zona, servita bene poi.” Dissi in modo ironico. “Ma giusto per curiosità, visto che mi devo guardare un po’ attorno, quanto paghi d’affitto?”

“Affitto? E chi lo paga l’affitto, è mio l’appartamento, ogni santo mese ho la rata del mutuo, è come una martellata…come dite voi? Sui “maroni” giusto? Ogni dieci del mese.”

“Beh, però, almeno è casa tua, un affare, no?”

“Vero? L’ho pensato pure io quando l’ho comprata.”

“Ma me lo fai vedere quest’appartamento o rimaniamo fuori a parlare?”

L’interno era decisamente conciato meglio dell’esterno. Dopo aver salito le scale sino al primo piano, ad accoglierci fuori dall’uscio c’era un banale tappetino con la scritta “Benvenuti”. Mi bastò quel semplice zerbino per riscaldarmi il cuore e farmi sentire in un luogo famigliare. Non appena avevo varcato quella porta, era stato come entrare in una finestra astro temporale. La sciattaggine e il degrado rimasero fuori. Le pareti erano in condizioni perfette e incipriate di colori vivi e solari. All’ingresso vi era un piccolo disimpiego seguito da un’ampia tavola in mogano ben intagliata, che di sicuro avrebbe lasciato senza parole chiunque l’avesse osservata per la prima volta, come il sottoscritto. Questa era contornata da otto sedie, degne di accessoriare tale bellezza; come una parure di gioielli decora il collo di una bella donna. Sulla destra e sulla sinistra vi erano due porte a vetri. La prima custodiva la toilette, mentre una piccola e ordinata cucina si scopriva aprendo la seconda. Continuando ad avanzare e lasciando alle spalle la seconda porta, un’apertura senza infisso lasciava intravvedere a qualsiasi invitato una camera degli ospiti, anche se a dire il vero sembrava un piccolo disimpegno per rimanere un po’ appartati. Continuando con la perlustrazione visiva, mentre mi accingevo ad accomodarmi in un piccolo e morbido divano, almeno all’apparenza, un’altra porta annunciava l’ingresso a due camere da letto, le quali, ipotizzavo dalla luce dello specchio che ne rifletteva, condividessero il bagno.

Tralasciando questi vani, che dal mio punto di vista non erano il punto forte della casa, lasciandomi la tavola alla mia destra, potevo accedere a un piccolo disimpiego e a un grande salone. Queste stanze non erano separate tra loro, sebbene di primo acchito si avvertiva il distacco tra gli ambienti. Tale sensazione era creata dal diverso colore delle pareti e da una leggera gessatura finemente decorata, dando all’ambiente un’aurea regale.

Nel primo ambiente, quello più piccolo, erano posizionati due divani a tre posti, l’uno di fronte all’altro, con al centro un piccolo tavolino. Quest’ultimo aveva il ripiano in vetro dal quale si poteva notare una riproduzione del corano a dimensioni reali. Era aperto a metà e completamente rifatto in argento. Era stupendo e incastonato in quel mobile nero risaltava in tutta la sua magnificenza. L’altra stanza, due volte più grande, anch’essa contornata da dei divani piatti. A dire il vero non sapevo come definirli, perché erano composti solamente dalla parte sottostante e al posto dei poggia schiena c’erano dei giganteschi e morbidosi cuscini. Anche qui in mezzo c’era un piccolo tavolino, ma a differenza dell’altra stanza qui c’erano dei quadri. Erano tutti quadri religiosi. Uno riportava delle scritte del corano. Uno rappresentava la copertina del testo sacro. Un altro, che non riuscivo a comprendere, era l’insieme di molte lettere sino a rappresentare quasi una fiamma ardente, ma forse era solo una mia misera e inesperta interpretazione.

Sta di fatto che ognuno di questi quadri aveva dei filamenti in oro, e a guardarli così da vicino, sembravano proprio di valore.

Non appena la porta si chiuse dietro le nostre spalle, una voce provenne dalla stanza accanto. Si sentiva che la pronuncia non era molto fluida, quanto meno era in italiano, e ne potevo capire il contenuto.

“Ciao fratello, cosa fai già a casa? Spero tu abbia portato da mangiare!”

“Ehi Ahmed, vieni di qua che ti presento un amico.”

Khan si accorse che lo stavo guardando incuriosito.

“Che c’è?”

“Perché parlate in italiano? E’ strano sentire due stranieri come voi non parlare nella vostra lingua.”

“Eh si, devi sapere che mi sono rifiutato di rispondere a mio fratello se continuava a parlarmi in marocchino, visto che la sua conoscenza dell’italiano è al quanto grossolana, per non dire schifosa, ma questo tienilo per te, perché è alquanto permaloso.”

Tempo nemmeno di finire la frase, ed eccolo sbucare da dietro la porta del privè, visto che la porta non era chiusa da nessun infisso e a celarne il contenuto vi era una leggera tendina in bambù blu stilizzata con ornamenti che ricordavano le lettere arabe in oro.

“Ma chi cazzo è questo? Ti sei messo a raccattare anche i barboni per strada?”

Disse con schiettezza.

“Idiota, stai attento a come parli, è un poliziotto.”

“Cosa??? Tu porti uno sbirro a casa? Sei scemo? Già lavori con loro ed è uno schifo, e ora che fai? Li porti a casa? Non credo a occhi e orecchie.”

Ahmed, cambiò completamente espressione, come se la mia presenza gli desse qualche noia, più che altro, il mio ex lavoro.

“Guarda non ti devi preoccupare, non sono più uno sbirro, m’hanno cacciato, quindi se vuoi fumarti dell’hashish o farti una pista, libero di fare c’ho che vuoi, quella schifezza non mi riguarda più. Tuo fratello mi ha portato qui perché non sapevo dove andare, ma se ti creo problemi basta che me lo dici, come sono entrato, esco, basta che non mi rompi le palle.”

“Ahmed, prima che tu dica qualcosa, ti ricordo che pago io questa casa, quindi lui rimane, e se non ti sta bene, peggio per te, ti ci abituerai.”

“Sbirro…scusa, come ti chiami?”

“Chiamami Fra.”

“Fra, vuoi caffè? Ti vedo sbattuto.”

“Ahmed, la vuoi finire, non è mica tuo fratello, e comunque, nemmeno a me devi parlare così, vai a mettere su questo caffè e porta anche qualcosa da mangiare.”

“Ah e visto che ci sei, Archimede, portami anche un po’ d’alcool.”

“E chi è Archimede? Se è complimento ok, ma tu essere sbirro, quindi non credo che è complimento e questo non è bar… dovresti sapere che noi arabi non beviamo alcolici.”

“Certo che lo so, ma tu non hai la faccia proprio della persona che segue alla perfezione il corano, quindi portami un po’ d’alcool e non rompere, e se ti do fastidio, come ha detto tuo fratello, quella è la porta. Dai su Archimede muovi il culetto.”

“Come mi hai chiamato sbirro?”

Digrignando i denti e con gli occhi iniettati di sangue dalla rabbia avanzò con passo rapido e deciso, come un leone con la gazzella, inconsapevole però che era caduto nella mia trappola. Il fratello rimase ad assistere all’evolversi della scena esterrefatto e senza proferir parola. Nell’arco di quel piccolo battibecco mi ero seduto comodamente sul divano, e ora lo guardavo avvicinarsi a me, quasi correndo. Attesi che si scagliasse contro di me e poco prima che riuscisse a prendermi per il bavero, reclinai la schiena sino ad appoggiarmi allo schienale e alzando le gambe gli sferrai un calcio all’intestino.

“Adesso posso avere un po’ d’alcool…per cortesia?”

Con la spinta impressagli lo feci balzare indietro di qualche metro, facendolo andare a sbattere con la schiena al muro, per poi scivolare a terra. Non riusciva nemmeno a parlare. Una volta rialzato in piedi, senza proferir sillaba, si diresse in cucina, dove tornò con il caffè, del vino e un po’ di noccioline.

“Era ora che qualcuno gli facesse abbassare un po’ le orecchie. Grazie, io non sono mai riuscito ad alzare le mani su mio fratello, e forse anche per questo che è un po’ indisciplinato.”

“Guarda per me è solamente un piacere. Le persone che cercano di fare le prepotenti mi fanno perdere il controllo. Più che altro scusami se ho reagito d’istinto così con tuo fratello senza chiederti nulla, anche perché mi dai ospitalità ed io cosa faccio in cambio? Ti picchio il fratello la prima volta che lo conosco. Direi che non sono il top della cordialità, non trovi???…Ehhehehehehe.”

“A dire il vero mi sono divertito molto, te lo dico piano per non farmi sentire, ehehehhe.”

“Ehy Khan, ora che ci penso, quello che hai in tasca è il giornale di oggi?”

“Si, perché me lo chiedi?”

“Mah…è da un po’ che non mi aggiorno su quello che accade in città, e vorrei darci un’occhiata tutto qui. Me lo passi?”

“Ma scrivono solo sciocchezze su questo giornale, lascia stare Enrico, dai che ci beviamo qualcosa?”

“Che c’è scritto che non vuoi farmi vedere?”

“Nulla, lo sai che i giornalisti pur di vendere scrivono tutto quello che gli passa per la testa, e poi gli basta una smentita, per spazzare via con una spugna, la merda che hanno scritto.”

“Dai, su, non fare storie, altrimenti ti meno come tuo fratello.”

Avevo pronunciato quelle parole con tono scherzoso, ma chiunque m’avrebbe guardato negli occhi avrebbe scoperto che non scherzavo affatto, anche perché era di me che si stava parlando in quel giornale e l’ostinazione a non farmi leggere ciò che c’era scritto, ogni secondo che passava mi faceva arrabbiare sempre più.

…dal Resto di Carlino.

IL BRUCO DELLA MELA MARCIA E’ SPARITO.

Il Sovrintendente della Polizia di Stato Enrico Del Nero da quando è stato rilasciato dalla casa circondariale “Dozza”, dove era detenuto da un mese, non ha dato più sue notizie. Nessuno sa dov’è, e più la sua latitanza si fa un mistero, e più emergono ombre e dettagli che andrebbero ad appesantire la sua situazione. I soldi che avrebbe riscosso con le sue malefatte sarebbero di gran lunga più di 1.000 Euro, con i quali si sarebbe permesso un’auto di grossa cilindrata, che ora non si trova. Le persone da lui malmenate, come appreso dal loro legale, soffrirebbero d’insonnia e alla vista della polizia avrebbero attacchi di panico. Se inizialmente non avevano pensato a un risarcimento danni, ora, alla prossima udienza, si sarebbero costituite parte civile nei confronti dell’agente.

“Persone come lui offuscano la figura della Polizia di Stato, e infangano il lavoro che ogni giorno ogni singolo agente si presta a fare per questa città. Spero che venga giudicato presto e che paghi per ciò che ha fatto. Fatti come questo sono spiacevoli per la cittadinanza ove vengono compiuti, a maggior ragione qui a Bologna, dove l’alone della banda della Uno bianca è ancora vivo nella memoria di molti cittadini.” Queste le parole riferite dal dirigente della Squadra Mobile.

Leggevo e rileggevo quelle parole. Mille pensieri annebbiavano la mia mente al punto tale che non riuscivo a pensare. La rabbia attanagliava il mio senso razionale e quelle parole mi facevano sprofondare sempre più.

Il presente mi era del tutto indifferente, sorseggiavo i bicchieri di vino come cicchetti d’acqua. Avevo voglia di lasciarmi andare e di non pensare, desideravo che questo mondo finisse, ed io con lui. Parlavo ma non sapevo cosa dicevo, ridevo e non ne comprendevo il motivo. Il tempo passava senza che io me ne rendessi conto e tutto ciò che mi circondava, era relativo e temporaneo. Ora come non mai, mi sentivo mortale, con un inizio e una fine. Un essere umano come un altro che faceva la sua comparsa in questa terra senza lasciar traccia della sua vita, della sua presenza, e per questo mi sentivo inutile. Non sapevo il motivo della mia esistenza e non riuscivo a spiegarmi tutto ciò che c’era al mondo. Volevo investire sulla mia vita ma non sapevo da che parte iniziare. Era tutto così dannatamente difficile e complicato. Guardavo distrattamente la televisione e ciò che riproduceva sembrava così inverosimile da sembrare creato solo per attirare l’attenzione degli telespettatori. Guerre, ribellioni, morti, incidenti, sparatorie, crisi economiche, sembravano tutte notizie lontane e intoccabili, e solamente quando ci si ritrovava a sfiorarle, a sentirne le vibrazioni sulla pelle, era lì che ci si cominciava a chiedere: ma perché diamine esiste tutta questa schifezza al mondo? Perché ci sono persone che guadagnano sul dolore e la sofferenza altrui? Perché i delinquenti sono più protetti delle persone comuni e umili, che si svegliano la mattina presto e vanno a lavorare, a faticare, a sudare, e che per arrivare alla fine del mese fanno i salti mortali, e molte volte non riescono nemmeno a permettersi una vacanza all’anno con la famiglia, perché con le tasse da pagare, il mutuo e tutto quello che ci va dietro, non riescono a risparmiare quanto basta. E se tutto questo non bastasse, da quella scatola composta da circuiti elettronici, si sentivano dire: “dobbiamo fare dei sacrifici”. Provate a chiedere a qualsiasi persona che sta al governo o imprenditore, dove sia andato in vacanza nell’anno in corso? Sicuramente una metà turistica comparirà nella loro risposta, anche perché se provate a chiedergli: “e i sacrifici voi non lì fate?” “Certo che li facciamo, ma lavoriamo tutto l’anno, non ci meritiamo nemmeno un po’ di ferie?” Senza entrare poi in altri argomenti sui quali sorvolerei per non farmi corrodere il fegato dal nervoso. I sacrifici da che mondo è mondo, lì hanno sempre fatti i poveri operai, non per loro scelta, ma perché lavorando onestamente, erano e saranno sempre le uniche persone pesate sino all’ultimo centesimo, a differenza di tutti gli altri, i quali hanno la possibilità di fare come gli pare e piace, soprattutto i delinquenti. Indulto di qua, benefici di là, ed io ora che ero disoccupato, chi mi consigliava di rimanere una persona onesta. Mantenere i miei ideali, conservare i principi e le linee guida insegnatemi sin da bambino, per finire dove? Per strada con un calcio sul fondoschiena e un grazie per averci fatto fare questa pessima figura con i cittadini, senza accertarsi se tutto ciò per il quale ero stato cacciato, fosse veritiero oppure no. Mi avevano pure associato alla banda della uno bianca, proprio il mio ex capo, quello che gongolava sui miei arresti. L’ipocrisia oramai aveva conquistato il mondo intero e andare contro al vento che soffiava, per molti era rimasto un lusso e un atto di coraggio mai conosciuto nella loro vita. Sarebbe bastata una risposta più diplomatica: “Non posso esprimermi finché il giudice non emanerà la sentenza, e sino ad allora rispetterò Enrico Del Nero per come l’ho conosciuto, ovvero uno dei miei migliori collaboratori, forse voi non ricordate, ma molte persone che sino a pochi giorni fa condividevano la cella con lui, li aveva arrestati lui stesso, e se questa città è un po’ più sicura è grazie a lui.” Ma di certo avrei chiesto sicuramente troppo e in quel modo, se fossi stato giudicato colpevole, arrivare al potere e avanzare di carriera non sarebbe stato facile per il mio ex capo, anche perché sarebbe stato dipinto come l’uomo che non conosceva i suoi uomini e non riusciva a tenerli a guinzaglio. Ma questo non toglieva il fatto che senza mostrare un po’ di “palle” il rispetto delle persone che lo circondavano gli sarebbe venuto a mancare.

Ma oramai tutto questo faceva parte del passato, quello che avrei cominciato a fare era sfruttare la mia intelligenza e le mie conoscenze per arricchirmi e non essere beccato, e qualora accadesse, sperare che fosse il più in là possibile, in modo da racimolare un bel po’ di denaro per poter vivere decentemente una volta ritiratomi dal mercato dell’illegalità. Certo non era del tutto facile e semplice, soprattutto entrare nel giro, ma certo ci potevo provare, d'altronde cosa avevo da perderci? Nulla. Dovevo pensare bene a ogni dettaglio. Aprire ogni cassetto della mente per organizzarmi alla grande e costruire un qualcosa di non troppo grande, per non attirare l’attenzione, ma nemmeno troppo piccolo, per non racimolare pochi soldi. E poi, se c’erano riusciti certi inetti con i quali mi ero imbattuto, come potevo fallire io, impossibile. Già immaginavo il cambiamento nella mia vita. Più rispetto; perché con i soldi si ottiene il potere, e il resto viene a cascata, dandoti comunque una mano. Belle donne, che quelle non guastavano mai. Macchine sportive, per togliermi lo sfizio che mi era sempre gironzolato per la testa, e viaggiare, soggiornando nei posti più belli e lussuosi al mondo. Certo non subito, non dovevo commettere l’errore di essere presuntuoso e sperperare immediatamente quello che guadagnavo, ma in un futuro non troppo lontano avrei potuto soddisfare tutte queste mie idee. Già m’immaginavo immerso in una vasca idromassaggio all’ultimo piano di un grattacielo circondato da donne incantevoli con un bicchiere di Franciacorta in mano e un po’ di musica in sottofondo…paradisiaco.

Forse stavo fantasticando troppo o forse no, sarà solamente il tempo a dirmi se avevo ragione.

Il bello di tutta questa mia paradisiaca visione o prospettiva di vita era l’inizio. Come diamine avrei cominciato? Come avrei fatto a inserirmi nella criminalità. Il posto più fertile in assoluto per uno che voleva cominciare questa carriera era la stazione ferroviaria, a meno che non conoscesse persone altolocate, e allora la questione era del tutto diversa, ma di certo non era il caso mio.

Come uno studente sceglie l’università che meglio preferisce, anche un criminale, sebbene alle prime armi, deve compiere questa tragica scelta. Inserirmi nel campo delle piccole rapine da strada per fare un po’ di soldi sarebbe potuto essere un buon punto di partenza e di certo non avevo l’obbligo di farle in una determinata zona della città.

Avrei potuto sbizzarrirmi, variando dalla banca, alla farmacia, per seguire con l’ufficio postale, o meglio ancora una tabaccheria o un benzinaio, insomma qualsiasi attività commerciale con un elevato incasso giornaliero. In ogni singolo di questo posto avrei dovuto calcolare molteplici varianti, ma ce n’era una di fondamentale importanza, l’unica incontrollabile, la fortuna. Perché potevo aver studiato il piano in ogni singolo suo dettaglio, inserendo qualsiasi incognita, ma se un po’ di fondoschiena non m’accompagnava in quello che stavo facendo, gli sbirri sarebbero stati pronti a ingabbiarti.

Ora come ora però, ero sdraiato sul divano, lasciato a bivaccare come un trovatello disperato e senza un centesimo da investire. Fare il criminale non faceva parte del mio Dna, ma l’adrenalina si. Quindi tutto sommato credevo che le cose combaciassero. Un detto mi dava conforto…gli sbirri sono peggio dei criminali…non dovevo far altro che testarlo.

Con le braccia conserte dietro la testa e le gambe incrociate, mi godevo il venticello fresco che entrava dalla finestra di fronte a me e pensavo a come diavolo avrei fatto a tirar su un po’ di soldi. Potevo andare a far volantinaggio, o il pizzaiolo, o il cameriere, ma tutto questo sarebbe stata una sconfitta, non perché questi lavori erano umili e indegni di me, ma perché il tempo di fare lo sciacquino l’avevo lasciato alle spalle quand’ero stato costretto a lasciare la polizia, quindi, niente più capi e soprattutto non avrei più dovuto pensare se riuscivo ad arrivare a fine mese o meno. Un settore che mi aveva sempre attratto era quello dei bancomat, o meglio, non clonare le tessere o aspettare le persone che effettuavano i prelievi per derubarli. No. M’affascinava farli saltare, e portare via la cassa con i soldi contenuti all’interno. Era un lavoro ingegnoso, che non danneggiava nessuno. Le banche per questo tipo d’incidenti erano assicurate, e i danni che subivano gli venivano rimborsati interamente. E dal mio punto di vista, anche se avessero dovuto pagare loro direttamente, la cosa non avrebbe cambiato molto la linea di marketing che avevano, visto che sin dall’inizio della loro creazione avevano sempre cercato e ottenuto il favore dei governi per fregare i poveri cittadini in qualsiasi loro operazione, e se questo non fosse vero, come si spiegherebbero tutte le fantastiche sedi ove operano, tutti quei bei palazzi pagati con i soldi e i sacrifici della gente comune, perché i grandi sono grandi, grazie ai soldi dei piccoli. L’unico inconveniente che potevo riscontrare in questo settore, era la poca conoscenza delle miscele esplosive, e tutto ciò che ci poteva andare dietro. L’unica cosa che sarei riuscito a sfruttare, era la mia guida sportiva, utile per dileguarci prima dell’arrivo della polizia. Quest’ultima a dire il vero non era un gran problema, perché tutti questi colpi si effettuavano avendo a disposizione automobili dai 300 cavalli in su, e gli sbirri non avevano un’auto con questa potenza, fatta eccezione della Lamborghini. L’unica pecca di questo settore però era riuscire a entrarci. Avevo una carta da giocare a mio favore, conoscevo la palestra dove andava un personaggio della banda più preparata della città in questa specialità e a dire il vero, conoscevo anche il suo volto, e cosa fondamentale, lui non mi conosceva affatto.

Sarei potuto partire da lui. La mia mente già viaggiava libera nell’autostrada dei sogni e delle speranze. Già mi vedevo a bordo di un’auto potente, con i lampeggianti nello specchietto retrovisore intento a scappare agli sbirri, e subito dopo a contare i soldi e a dividerli equamente coi miei compagni. Sarebbe stato un po’ come vivere Fast and Furios in prima persona, ed io sarei stato l’O’ Connor della situazione. Anche se a ripensarci bene, loro non facevano esplodere i bancomat, ma non faceva nulla, perché smontare una fantasia?!?

CAPITOLO TRE – Prime prove –

Dovevo cercare i soldi per iscrivermi in palestra e un furtarello non sarebbe guastato. Mi misi in sesto e scesi di casa. Un centro commerciale sarebbe stato perfetto, ovviamente senza telecamere all’esterno. Ci impiegai poco più di mezz’ora ad arrivare. Ero comodamente seduto sull’autobus quando ecco salire il controllore. Ero tranquillo, mi alzai cercando di raggiungere l’apertura opposta alla quale lui era salito, ma proprio mentre stavo per scendere, poco prima che le porte si chiudessero, eccoti mettersi di fronte a me un altro controllore, cercando di sbarrami la strada per non farmi scendere.

“Favorisca il titolo di viaggio per cortesia, e poi può scendere.”

Il biglietto non ce l’avevo e certo se cominciavo già così il primo giorno della mia vita criminale apposto ero. Mi sarei ritrovato in galera la sera stessa. Un lampo di genio però illuminò la mia mente, estrassi dalla tasca dei pantaloni il mio sottile taccuino, e aprendolo a ventaglio esibii il mio titolo di viaggio.

“Prego.” Fu la risposta dell’incaricato del pubblico servizio lasciandomi sfilare alla sua destra. E lì capii che il tesserino della polizia, sebbene illecitamente detenuto e leggermente contraffatto, m’avrebbe potuto salvare da molte situazione complicate. Certo avrebbe avuto anche i suoi lati negativi, sempre che qualcuno avesse scoperto la sua natura, ma questo sarebbe stato un problema che avrei affrontato una volta che si fosse presentato. Avrei aggiunto guai ad altre beghe che già avevo; e poi persino io avrei creduto nella sua autenticità, considerato che aveva tutte le sue cose in ordine, fatta eccezione di alcuni piccoli particolari.

Eccomi arrivato nel parcheggio del centro commerciale, ora dovevo solo attendere la vittima prescelta. Doveva essere esclusivamente una e se la cosa fosse andata male, mi sarei dovuto dileguare, spostando la mia attenzione in un’altra zona.

Mi dovevo ingegnare in qualche modo, e utilizzare uno stratagemma con un margine d’errore molto ridotto. Innanzitutto non dovevo far notare la mia presenza nel parcheggio, rimanendo nell’indifferenza più totale. Mi misi seduto su di una panchina, e approfittando della bella giornata ostentavo il mio interesse per i raggi solari, guardando di sottocchio le macchine che arrivavano e i loro conducenti, aumentando ancor di più la mia attenzione quando mi passavano accanto se li ritenevo interessanti.

Passarono qualche decina di minuti senza che mi decidessi a mettere in atto il mio pseudo piano. Non riuscivo a calcolare il momento propizio, ma quando mi sembrava che stesse per arrivare ecco sorgere qualcuno che lo avrebbe potuto rovinare, tipo personale della vigilanza che usciva a farsi un giro e fumarsi la sigaretta, oppure qualche ragazzo dall’aria sveglia e atletica. Insomma, cercavo il momento ideale, anche perché se avessi affrettato la cosa, sicuramente sarebbe stato peggio per me e non sarei riuscito ad ottenere il risultato sperato.

Forse dovevo desistere e cercare un’altra soluzione ma più mi scervellavo e maggiormente non riuscivo a trovare alternative. Mi alzai in piedi giusto per stemperare un po’ la tensione e cercare qualche mozzicone di sigaretta da finire, non fumavo gran che, ma quand’ero nervoso mi serviva a stendere i nervi. Praticamente trovai una sigaretta completamente intera, gettata a terra esclusivamente perché era leggermente spezzata. Con cura la raccolsi e con altrettanta attenzione la ricomposi. Mentre terminavo l’operazione e la incastonavo tra le labbra assaporandone il sapore, capii che il momento era arrivato. Nel parcheggio aveva appena fatto il suo ingresso un grosso SUV e dallo stesso ne era scesa una scintillante creatura, non tanto per la bellezza, ma per ciò che indossava. Nulla togliere a quella splendida donna, ma di certo non era il momento per accondiscendere alle debolezze della carne. Già dal personaggio avevo compreso che non si sarebbe intrattenuta molto tempo all’interno del centro commerciale, considerato che la spesa per la famiglia di certo non la faceva lei, al massimo sarebbe entrata per provare qualche capo d’abbigliamento o salutare qualche amica, altre spiegazioni non ne trovavo. Mi passò accanto con estrema disinvoltura, consapevole che la stavo guardando, e come potevo evitarlo, malgrado le rughe accentuate sul collo, conservava un viso ed un corpo tonico, e il sentirsi osservata era il risultato cercato nelle sedute dal chirurgo plastico e come potevo non privargliene. Le gambe snelle s’innalzavano su un paio di scarpe nere con il tacco alto sei sette centimetri, sino a delimitarsi all’interno di una gonna attillata anch’essa scura. Indossava una camicetta bianca lasciata aperta dei primi bottoni, dalla quale emergevano prepotentemente le morbide colline che custodiva all’interno. Era inebriata da un aroma invitante e allo stesso tempo delicato, che i miei sensi istintivamente seguirono cercando di non perderlo. Era come se fosse passato un camion di rose trasportate con il telo scoperte e al suo passaggio seminasse petali rosei lungo la via. Scorsi il suo sorriso di soddisfazione sul riflesso della porta a vetri scorrevole del centro commerciale, dove venne inghiottita dopo pochi secondi.

Ora dovevo solamente attendere il suo ritorno all’auto. Dovevo essere preciso e veloce. L’attesi nella parte laterale del mezzo, lei non mi doveva vedere. Mi accovacciai quasi a terra lato passeggero e approfittando dell’altezza del mezzo controllai quand’era salita. Appena avviata la macchina, percorse solamente pochi centimetri dopo aver innescato la retromarcia; manovra che interruppe subito. Appena era entrata in macchina, per far uscire il caldo accumulato durante la sua assenza, aveva fatto scendere i finestrini dell’auto, dai quali si poteva udire una musica giovanile e allegra, dovuta probabilmente da qualche file dei figli lasciato nell’auto o semplicemente da una stazione radio decente.

“Porca miseria, ma cos’ha quest’auto che non va, e sta spia?!”

Le sue parole uscivano deboli accompagnate dalla melodia che le faceva da sottofondo nell’abitacolo.

“Pronto Amore, mi sa che ho un problema con la macchina.”

Pausa.

“Si sono con la mia, mi si è accesa una spia di colore giallo, ma ha una forma strana, non te la so spiegare, è tipo…”

Pausa.

“Si dai sembrano due parentesi collegate con una riga zigrinata sotto, e ha un punto esclamativo all’interno, se non sbaglio, ti viene in mente qualche cosa?”

Pausa.

“Cosa? La pressione delle gomme?”

E proprio mentre proferiva quelle parole, d’istinto aprì la porta e scese dal veicolo andando a controllare le gomme.

“Amore, ma qui le gomme sono apposto…no no, aspetta, forse quella d’avanti è bassa, mi sa che hai ragione.”

Pausa.

“Dai ti aspetto, sono qui al centro commerciale a Casalecchio, sono al piano terra, vicino all’entrata, dai dove parcheggio io di solito, ma come…”

Queste furono le ultime parole che riuscii a udire della signora, la quale era talmente presa dal problema dell’auto che non si era accorta che mi ero appropriato del suo portafoglio che fuoriusciva dalla borsa lasciata aperta sopra al seggiolino lato passeggero. Il piano aveva funzionato alla perfezione. Con il pneumatico anteriore bucato, dopo aver preso istruzioni da qualcuno al telefono, la signora era scesa a verificare il problema ed io in quel frangente, ero riuscito ad affacciarmi dal finestrino anteriore e dopo aver verificato la posizione della borsa, mi ero appropriato di ciò che mi interessava.

E ora che dovevo fare? Avevo tra le mani ciò che m’interessava, ma non sapevo come comportarmi. Le scelte erano due: verificare subito il contenuto e sbarazzarmi delle prove, oppure trovare un luogo appartato ed esaminarlo con calma? Optai per la seconda, salii sul primo autobus che passava e mi feci portare in centro. Mi misi a camminare, sempre comunque con il cuore in gola, con la paura di essere fermato e scoperto. Dovevo sbrigarmi a fare ciò che dovevo fare. Dopo essere sceso, imboccai la prima stradina poco trafficata, e aspettando il momento propizio, mi misi a setacciare il contenuto del portafoglio. La giornata direi che l’avevo ampiamente guadagnata. I miei bei 370 euro li avevo racimolati. Intascato il malloppo, non feci altro che lasciar scivolare il portafoglio a terra dietro un muretto, e mi rimisi su via Indipendenza confondendomi con le centinaia di persone che vivevano la loro vita. Non riuscivo a spiegarmelo ma mi sentivo diverso. Forse oggi avevo cominciato a vivere o forse ero tornato bambino, al tempo in cui m’intrufolavo all’interno dei supermercati e dei tabaccai uscendone con delle caramelle. Oggi come allora avevo il cuore che pulsava come una locomotiva lanciata a tutta velocità e i dogmi impostimi dai miei genitori si scioglievano come ghiaccio al sole. Tutte quelle regole e limiti fissati dal lavoro e da una vita regolare e onesta non facevano per me. Erano sempre stati un freno che non riuscivo a togliere, un passo che non riuscivo a compiere, ma ora ero libero. Non avevo un lavoro e uno stipendio fisso, ma certo non sottostavo al volere di nessuno e questo per me era gratificante. La mia vera vita cominciava ora, quella di prima era solamente un sogno dal quale potevo conservare ricordi preziosi per vivere al meglio questa nuova esistenza. Ora come non mai esistevo io, solo ed esclusivamente io e non avrei dovuto rendere conto a nessuno se non a me stesso. Ero galvanizzato. Avevo l’impulso di sferrare un pugno in faccia a chiunque mi guardasse male, ma forse era meglio non esagerare.

Il primo passo sarebbe stato quello di iscrivermi in palestra, ma questo l’avrei fatto l’indomani. Ora era tempo di festeggiare il colpo andato a segno. Ritornai a casa dal mio samaritano, al quale regalai dieci euro, mentendogli sulla loro provenienza. Non volle accettare i miei denari, bensì mi disse che la sera avrebbe invitato a casa degli amici a cena, sempre che a me avesse fatto piacere.

Scesi al negozio di pakistani che stava sotto al palazzo e presi qualche bottiglia di vino, e una di vodka, sapevo che non sarebbero andate sciupate.

CAPITOLO QUATTRO – Una poesia spontanea –