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Nel Segno Del Leone
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Nel Segno Del Leone

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«Mio caro amico, lo hai detto tu stesso poco fa. Ne parleremo domani con calma. Ora sono molto stanco e desidero solo ritirarmi per riposare.»

«Vuoi che ti mandi compagnia in camera? Quelle bellezze esotiche sono in grado di far resuscitare un cadavere!»

«Ma non me. In questo momento non sarei in grado di sfiorare una donna, che non sia la mia promessa sposa, neanche con un dito. Fai conto che abbia accettato la tua offerta e porta la ragazza in camera con te.»

Francesco Maria scoppi? in una risata.

«Non posso! Nelle mie stanze c’? gi? Eleonora. Anch’io, in questi giorni, non sono in grado di sfiorare nessun’altra donna che non sia la mia amata.»

CAPITOLO 4

“ Ognuno ? quello che persegue.

Io sono quel che sono, sono quel che amo,

amo quel che sono.”

(Elio Savelli)

Andrea ancora non riusciva a capacitarsi del perchе aveva seguito senza batter ciglio gli uomini del Duca, proprio pochi istanti prima della cerimonia di nozze con la sua amata Lucia. Il suo potente destriero bianco, ancora agghindato a festa, mordeva la strada, senza faticare affatto a star dietro agli armigeri che si dirigevano di gran carriera oltre l’Esino, verso Monte Returri. La cavalcata era agevole, senza bardature, senza neanche la celata in testa. La folta capigliatura bionda di Andrea accarezzava l’aria svolazzando. Le maniche del farsetto cremisi si gonfiavano e si sgonfiavano ai capricci del vento. Ma la mente di Andrea era in subbuglio. Pensieri incapaci di essere tenuti a freno si affollavano nella sua testa e si affacciavano prepotenti verso le tempie, con la speranza di essere presi nella giusta considerazione.

«Hai sempre perseguito la speranza di poterti unire in matrimonio con Lucia. E ora che era finalmente giunto il momento, che fai? La abbandoni l?, sul sagrato della Chiesa!», lo iniziava a torturare il primo pensiero. «Ricorda, Andrea! Ognuno ? ci? che persegue nella vita! Non raggiungere i propri obiettivi significa fallire miseramente.»

«Io sono quel che sono!», si difendeva Andrea nei confronti di se stesso. «Amo essere ci? che sono. E sono un uomo d’armi, e come tale devo obbedienza a chi mi comanda. Quindi ho fatto la scelta giusta. Non ci si pu? sottrarre al proprio dovere per causa di una donzella.»

«Tu ami ci? che sei, ma sei anche ci? che ami», lo rintuzzava un secondo pensiero, senza dargli tregua, in un incredibile gioco di parole. «E chi ami ? Lucia. Con lei dovresti essere un unico corpo e un’unica anima. Che differenza c’era nel seguire questi uomini adesso, nell’immediato, piuttosto che domani, o domani l’altro o fra una settimana? E la tua bambina, Laura, a cui hai regalato sorrisi fino a questa mattina, facendole capire che adesso poteva confidare sull’affetto di un padre, che cosa penser? di te? Che sei un vigliacco, che ti sottrai all’amore e agli affetti a seconda di come gira il vento. Non era lecito almeno spiegarle perchе te ne stai andando?»

«Non sono una femminuccia, sono un Capitano d’armi!», replicava con vigore lo spirito guerriero di Andrea. «Se questi uomini avevano una gran fretta di condurmi con loro, un motivo deve esserci, e ben grave, da quello che ho potuto leggere sulla missiva inviatami dal Duca. Un guerriero non si sottrae al suo dovere. Mai! Tanto meno per questioni d’amore. L’amore pu? aspettare, il nemico no.»

Immerso in queste disquisizioni mentali, Andrea non si era neanche accorto che, superata la torre di guardia in cima a Monte Returri, il drappello di soldati cui stava appresso, attraversato il breve centro abitato di Santa Maria delle Ripe, si stava dirigendo, in veloce discesa, verso la vallata del Fiume Musone. Mise a tacere tutti i pensieri e si concentr? sul percorso. Se si dovevano dirigere verso Mantova, la strada da seguire non era certo quella, che piegava verso meridione. Logica avrebbe voluto che si percorresse la strada Fiammenga fino a Monte Marciano e poi si risalisse lungo le coste Adriatiche, fino a Ravenna, per poi piegare verso Ferrara. E da l? raggiungere Mantova in maniera agevole, senza difficolt? alcuna. La strada che stavano percorrendo portava dritti al Castello Svevo del Porto, a sud del monte di Ancona, tra la foce del fiume Musone e quella del Potenza. Un castello fatto edificare a suo tempo da Federico II a difesa e baluardo di un importante porto in cui far stazionare la flotta ghibellina. Al solo pensiero del mare, Andrea ebbe un conato di vomito.

E ben presto, in effetti, la vallata del Musone si allarg? verso il mare Adriatico. Lasciata sulla loro destra, in alto sulla collina, l’imponente basilica di Loreto, dedicata al culto della Madonna e protetta da possenti bastioni, Andrea e i suoi compagni seguirono un ampio stradone per alcune leghe, giungendo in vista della loro meta. La sagoma del castello Svevo, con il suo imponente mastio che svettava verso il cielo, si avvicinava veloce. Il sole stava ormai calando verso l’orizzonte e, mettendo al passo le cavalcature, si poteva ascoltare il rumore della risacca e annusare l’odore salmastro portato dal vento. Il tramonto incendiava il cielo di un rosso acceso, sfumante in tonalit? di arancione laddove il sole stava nascondendosi dietro la linea dell’orizzonte, marcata dai monti dell’Appennino. Scene e colori che avrebbero infuso il sentimento della nostalgia nel cuore di qualsiasi persona, figuriamoci in quello di Andrea, gi? in subbuglio per tutta la vicenda che stava vivendo. Avrebbe voluto rigirare il cavallo e tornare di corsa a Jesi, alla sua amata, alla sua casa, ai suoi affetti. Ma ancora una volta, i nitriti dei cavalli e le grida degli armigeri lo riportarono alla realt?. Erano dinanzi all’ingresso principale del castello, in un grande spiazzo quadrangolare che, dal lato opposto, si apriva verso il mare. Mentre i suoi accompagnatori lanciavano grida alle guardie agli spalti, per farsi riconoscere e far calare il ponte levatoio, Andrea scrut? il porto. Il mare era calmo, piatto, quasi una tavola. Alcune stelle gi? brillavano in cielo, un cielo che stava assumendo i toni del turchese e che presto sarebbe divenuto ben pi? scuro, avvolgendo cose e persone nel nero mantello della notte. La sagoma di un’enorme imbarcazione, un trealberi, colp? l’attenzione di Andrea. In vita sua non aveva mai visto un vascello cos? grande. E la paura che l’indomani vi sarebbe dovuto salire sopra attanagli? il suo cuore. Sull’albero pi? alto, quello centrale, sventolava lo stendardo della Repubblica Serenissima, un leone disteso, il leone di San Marco, con un libro aperto, il Santo Vangelo, tra le zampe anteriori. Quando il ponte levatoio fu disceso e le enormi ante del portale si aprirono, il capitano delle Scolte di guardia al castello usc? e si avvicin? ad Andrea, porgendogli un drappo ripiegato. Si pieg? al suo indirizzo in un ossequioso inchino e gli porse lo stendardo.

Andrea scese da cavallo, fece cenno alla Scolta di sollevarsi dalla posizione di riverenza e prese l’oggetto dalle sue mani. Dispieg? il drappo, in cui, su fondo di stoffa rossa, era stato realizzato, a fine ricamo, il disegno dorato di un leone rampante ornato della corona regale in testa.

«Mio Signore, Marchese Franciolino Franciolini, combatterete sotto il segno del leone!», inizi? a proferire il luogotenente. «Consegnerete domattina questo stendardo all’equipaggio della nave, che provveder? a issarlo sul pennone, a fianco della bandiera della Serenissima. Il Duca Francesco Maria Della Rovere ha dato precise disposizioni. Il leone rampante, simbolo della Vostra citt?, ma anche di Federico II di Svevia, che concesse a suo tempo di ornarlo della corona imperiale, sar? il simbolo della Vostra forza e della Vostra autorit?.»

La Scolta si interruppe e si fece consegnare una pergamena da un altro soldato, che era rimasto dietro di lui, a breve distanza.

«Il Duca Francesco Maria Della Rovere vi nomina peraltro, come scritto in questa pergamena, Gran Leone del Bal?, titolo che vi conferisce grandi poteri e la possibilit?, anzi il dovere, di affiancare il comandante veneziano sul ponte del galeone da combattimento.»

Cos? dicendo, arrotol? la pergamena e la consegn? nelle mani di Andrea.

«Domattina all’alba salirete a bordo con i vostri uomini e consegnerete le credenziali al “Capitano da Mar” Tommaso de’ Foscari. Due leoni e due capitani d’arme saranno uniti contro comuni nemici, da un lato i Turchi del Sultano S?lim, dall’altro i Lanzichenecchi teutonici. Il Duca Della Rovere confida nel fatto che terrete alto l’onore dovuto alla vostra bandiera e a quella della Repubblica Serenissima, nostra alleata. E ora, mio Signore, permettetemi di condurvi alle vostre stanze per adire a un meritato riposo. Domattina sarete svegliato di buon ora, ancor prima del sorgere del sole.»

Andrea era confuso, non sapeva cosa dire, e cos? rimase in silenzio. Certo il suo amico Duca sapeva lusingarlo con le onorificenze, ma cos? facendo trovava sempre il modo di mandarlo allo sbaraglio. Il fatto di imbarcarsi su una nave non gli garbava affatto, ma ormai era giunto fin l? e non poteva pi? di certo tirarsi indietro.

La notte si gir? e si rigir? tra le lenzuola, riuscendo a dormire poco o niente. Quando sprofondava nel sonno, era assalito da incubi che richiamavano alla sua memoria l’unica battaglia combattuta in mare. Mare e sangue, fuoco e morte. E la figura del Mancino che lo tormentava, avvicinandosi a lui fino a divenire un gigante, che lo accusava di averlo lasciato morire tra i flutti. E si risvegliava in un bagno di sudore, rendendosi conto di aver dormito solo per pochi istanti. Quando giunse il servo incaricato della sveglia, prov? quasi sollievo nel potersi alzare. Era ancora buio fuori, ma dalla finestra poteva intravedere il trealberi alla fonda illuminato dalla biancastra luce di una luna quasi piena. Il servitore lo aiut? a indossare una leggera armatura, costituita da un corpetto in maglia a rete metallica con rinforzi pi? compatti alle spalle, agli avambracci e al collo. Sopra l’armatura, un mantello di raso dal colore met? rosso e met? giallo. Nella parte gialla il disegno del leone di San Marco, in quella rossa il leone rampante coronato.

«Queste vesti non riusciranno a proteggermi da un bel niente!», cominci? a lamentarsi Andrea col servitore che lo stava aiutando nella vestizione. «Una freccia in petto e addio Marchese Franciolini! E che dire delle calze? Semplici braghe di cuoio, senza neanche borchie metalliche di protezione. Passami la celata, coraggio!»

«Niente celata, Capitano. Siete a posto cos?. A bordo bisogna essere leggeri, si deve avere la possibilit? di muoversi agevolmente, di correre da un lato all’altro del galeone e, se necessario, arrampicarsi sugli alberi. Un’armatura come quelle che siete abituato a portare nei combattimenti terrestri vi sarebbe solo d’impaccio. Credetemi, mio Signore!»

«Ti credo, e credo anche che non arriver? vivo a Mantova. Se non mi uccider? il mal di mare, mi uccider? il nemico. Sar? facile bersaglio per i pirati turchi. Mi crivelleranno di frecce e si ciberanno del mio cadavere. Ah, bel destino cui vado incontro, solo per far piacere all’amico Duca!»

«Non dovete temere, mio Signore. Il galeone ? davvero sicuro e adatto a resistere a qualsivoglia attacco da parte di altre imbarcazioni. E il Comandante Foscari sa il fatto suo. Sa governare il vascello e combattere in mare come nessun altro al mondo. Vedrete. E ora rifocillatevi. Avrete bisogno di essere in forze per affrontare il viaggio», e cos? dicendo battе le mani, facendo entrare nella stanza altri servi con dei vassoi.

Il servitore che lo aveva aiutato a vestirsi, prese un calice d’argento e gli fece lavare le mani con acqua di rose. Poi lo invit? a sedere al desco. Gli altri servi poggiarono dinanzi a lui, in sequenza, tre vassoi. Nel primo vi erano delle coppe, alcune ricolme di latte d’asina, altre di succo di arance di Sicilia, altre ancora di latte di mucca fumante. Un secondo vassoio conteneva cibi dolci, pane di latte, ciambelle, biscotti, marzapani, pinocchiate, cannelloni alla crema, sfogliate, disposti in piattini ornati da larghe foglie di insalata. Il terzo vassoio era dedicato ai cibi salati, acciughe, capperi, asparagi, gamberi, accompagnati da una coppa ripiena di uova di storione allo zucchero. A parte, in alcune brocche, c’erano dei vini, dal moscatello, al trebbiano, al vino dolce fermentato. Andrea aveva paura che, una volta a bordo del galeone, tutto ci? che avrebbe avuto nello stomaco sarebbe risalito verso le sue fauci. Avrebbe vomitato tutto ci? che avesse ingerito. Ma i profumi che solleticavano le sue narici erano troppo invitanti, e cos? inzupp? nel latte d’asina alcuni biscotti e due ciambelle, trangugiando dietro il calice di latte di mucca caldo. Si guard? bene dal toccare i cibi salati e, soprattutto, i vini. Soddisfatto, si lasci? scappare un sonoro rutto, dopodichе si dichiar? pronto a raggiungere l’imbarcazione veneziana.

Visto da vicino, il trealberi veneziano era davvero imponente. Andrea non aveva mai visto un vascello cos? grande, neanche quello dei pirati turchi affrontati pi? di un anno addietro. Not? con piacere come il galeone fosse molto stabile. Le onde passavano sotto lo scafo, ma la mastodontica nave, in effetti, proprio non sembrava muoversi. Al suo occhio attento non sfuggirono dei curiosi pannelli metallici, che ricoprivano in pi? punti le fiancate in legno dell’imbarcazione. Mentre cercava di capire a cosa servissero, la sua attenzione fu richiamata dal Capitano della nave. Tommaso De’ Foscari si stava sbracciando, facendo cenno al giovane di salire a bordo attraverso una comoda passerella disposta tra il molo e la fiancata di sinistra della nave. Non senza un po’ di timore addosso, Andrea raggiunse il ponte, salutando il suo nuovo compagno d’avventura con un inchino. Mentre porgeva al Foscari lo stendardo con il leone rampante, da issare sul pennone a far compagnia al leone di San Marco, si rese conto che stare sopra quella nave non gli procurava alcun fastidio. Il galeone era tutt'altra cosa rispetto alla cocca su cui aveva perso due dei suoi migliori compagni, il Mancino e Fiorano Santoni. I movimenti dovuti allo sciabordio delle acque sotto lo scafo non si avvertivano affatto.

«Come vedi, mio caro Franciolino, questo trealberi ? una delle migliori navi in dotazione alla flotta della Repubblica Serenissima», inizi? a spiegargli il Capitano da mar, circondandogli la spalla col suo braccio. «? una nave molto grande e pertanto ? molto stabile. Ma nel contempo ? anche agile e facile da manovrare. Oltre che dal vento pu? essere spinta, al bisogno, da due ordini di vogatori. Tra equipaggio, servi, vogatori e soldati, a bordo trovano posto pi? di cinquecento uomini. Quasi un esercito. E non ? tutto. ? una nave molto sicura. Ho notato, poco fa, come stavi rimirando le paratie metalliche sulle fiancate. Esse proteggono lo scafo dalle palle incendiarie del nemico. Al bisogno possono essere sollevate, creando una barriera ancor pi? alta delle mura della nave stessa e, tra una paratia e l’altra, possono essere inserite delle bocche da fuoco, bombarde in grado di lanciare proiettili esplosivi contro gli avversari. Ma c’? ancora di pi?. A bordo abbiamo ben cento archibugieri, uomini in grado di usare in maniera eccellente la nuova micidiale arma da fuoco inventata dai francesi. Non vedo l’ora di farti vedere questa macchina da guerra all’opera.»

Continuando a parlare, il Capitano aveva condotto Andrea fino al ponte di comando, dove aveva preso in mano il timone, spiegando come in gergo marinaro la parte anteriore della nave venisse chiamata prua e la posteriore poppa, il lato sinistro babordo e il destro tribordo. Poi inizi? a gridare ordini ai marinai al fine di preparare la nave a salpare. Gli ordini, pronunciati in stretto gergo marinaresco, erano del tutto incomprensibili ad Andrea.

Mollare l’ancora – Ritirare le gomene – Cazzare la randa – Mollare il pappafico – Issare le vele di trinchetto, erano tutti comandi di cui non comprendeva nel modo pi? assoluto il significato. In ogni caso, poteva osservare come, a ogni comando del Capitano da Mar, l’equipaggio si muovesse in maniera veloce e precisa, senza alcuna incertezza. In breve, il galeone si distacc? dal molo e prese il largo, iniziando la navigazione verso nord, con un bel vento di scirocco che gonfiava le vele al massimo. Il Foscari teneva ben saldo il timone in mano e continuava a spiegare ad Andrea ci? che stava facendo.

«Il Mare Adriatico ? un mare chiuso e anche piuttosto stretto tra le sponde italiane e quelle della Dalmazia. E quindi ? abbastanza sicuro. ? difficile che scoppino tempeste improvvise, come si incontrano quando si attraversa l’oceano per raggiungere il Nuovo Mondo. Ma comunque non ? da sottovalutare il fatto che a volte il vento gira e diventa pericoloso. Il Garbino, il vento che spira da terra, pu? sollevare il mare e provocare mareggiate anche imponenti. In pi? esso rende faticoso governare la nave, in quanto spinge le imbarcazioni verso il largo. Come puoi vedere, noi cerchiamo sempre di navigare piuttosto al largo per evitare le secche, ma sempre in vista della costa, cosicchе non perdiamo mai la rotta. Il Garbino ti pu? fregare, facendoti perdere di vista la linea costiera e quindi disorientando i navigatori, in particolar modo quando il cielo ? nuvoloso e non ci si pu? orientare grazie al sole e alle stelle. L’altro vento che temiamo noi marinai ? la bora, il Buri?n, che porta neve e gelo, e spira soprattutto nella stagione invernale. La bora a volte ? cos? forte, da poter spazzar via tutto ci? che trova, compresi i marinai che si trovano sul ponte e che, se finiscono nelle acque gelide, hanno poche speranze di poter sopravvivere.»

«Mio caro Tommaso», lo interruppe Andrea, che ormai aveva preso confidenza col suo nuovo amico. «Ti devo confessare che io sono molto timorato del mare. Non so neanche nuotare e ho avuto una bruttissima esperienza lo scorso anno al largo di Senigallia. Quindi, preferirei che tu evitassi di raccontarmi certi particolari. Gi? mi hai fatto venire i brividi. Se continui cos?, andr? in preda alla nausea e allora saranno dolori per il resto della navigazione. Oggi invece posso vedere una bella giornata, il vento che ci sta carezzando ? tiepido e gradevole, e questa nave ? talmente stabile che non avverto alcun malessere. Pertanto, lasciami godere questo viaggio, e raccontami magari delle tue imprese di guerriero. So che hai combattuto contro i Turchi in terra Dalmata… Ma, quella che vedo l? verso la riva ? la sagoma della Rocca Roveresca? Siamo gi? giunti a Senigallia?»

«La nave ? veloce e abbiamo il vento favorevole. S?, siamo gi? giunti al largo di Senigallia. E visto che hai parlato di Turchi, tieniti pronto a incontrarli, perchе queste acque sono infestate dai pirati del Sultano S?lim.»

«Lo so bene. Ah, se riuscissi a fargliela pagare per quello che mi hanno fatto perdere un anno fa! Due dei miei migliori amici hanno perso la vita nello scontro con quei bastardi infedeli. E io me la sono cavata per un soffio.»

«Ottimo, mio caro Franciolino. Allora, se ci troveremo a doverli combattere, mentre io governer? la nave, lascer? a te l’onore di dare gli ordini a cannonieri e archibugieri. Ora ti spiegher? come.»

La navigazione prosegu? tranquilla fino a pomeriggio inoltrato. Il Capitano Foscari stava per predisporre il galeone ad attraccare al porto di Rimini per trascorrere la nottata, quando una vedetta, dalla sua postazione in cima all’albero pi? alto, grid?: «Nave pirata a tribordo! Galeone battente bandiera Turca, in assetto di battaglia.»

«? Sel?m!», sussurr? Andrea al Capitano Foscari, cominciando gi? a provare una certa eccitazione all’idea della tenzone.

Il Capitano da Mar grid? alcuni ordini in gergo marinaresco. Andrea non ci capiva nulla, ma potе di nuovo ammirare come, a ogni comando, l’equipaggio della nave si muovesse in perfetta sincronia per assecondare il volere del comandante. In pochi istanti, vennero sollevati i pannelli metallici protettivi del lato destro della nave, le bocche da fuoco furono caricate e gli artificieri si misero in posizione di combattimento. Gli archibugieri, invece, caricate le loro armi, si spostarono sul lato sinistro del galeone, in prossimit? delle mura di babordo.

«Sar? tuo l’onore di ordinare di fare fuoco», disse il Foscari, rivolto ad Andrea. «Ma non prima che il nemico abbia fatto la prima mossa!»

«Lasciamo che i pirati ci attacchino? Non ? imprudente?»

«Vedrai!»

Il colloquio tra i due fu bruscamente interrotto dall’attacco nemico. Una gragnola di palle incendiarie part? dal vascello turco. Molte piovvero in acqua, spegnendosi in una nube di vapore e spruzzi d’acqua salata, a diversi piedi di distanza dalla nave veneziana. Alcune palle colpirono i pannelli metallici, e anche queste caddero in mare, senza procurare danno alcuno allo scafo. Andrea si sent? a un certo punto investito da uno zampillo di acqua tiepida, sollevato da una delle palle incendiarie caduta assai vicino al ponte di comando. Bagnato come un pulcino si prepar? a ordinare di rispondere al fuoco. Gli artificieri avevano caricato i cannoni con palle esplosive. Andrea ordin? di accendere le micce, mentre il suo amico Tommaso predisponeva la manovra successiva.

«Fuoco a volont?! Non diamo loro la possibilit? di aggiustare il tiro», e cerc? un solido appiglio per reggersi forte, prevedendo il rinculo dovuto alle esplosioni contemporanee di almeno quaranta cannoni.

Ma, con sua somma meraviglia, vide partire i colpi, accompagnati da nuvole di fumo in corrispondenza delle bocche da fuoco, senza che la stabilit? del galeone fosse intaccata pi? di tanto. Certo, un po’ la nave inizi? a oscillare e la veloce manovra ordinata dal Capitano subito dopo peggior? non di poco le condizioni dello stomaco di Andrea. Ma doveva resistere. Non poteva farsi prendere dal mal di mare. La nave puntava ora veloce la prua verso il galeone turco. Erano state ammainate le vele, e ci si muoveva solo a forza di remi. Infatti la manovra doveva essere precisa, non ci si poteva affidare ai capricci del vento. Due ordini di vogatori per lato potevano spingere la nave alla velocit? voluta in ogni istante dal capitano, per il tramite del maestro dei rematori, chiamato “sottocomito”. I proiettili esplosivi avevano fatto il loro dovere. Avevano colpito il trealberi turco in pi? punti, provocando gravi danni. L’albero maestro era stato abbattuto e diverse falle erano state aperte sullo scafo, che si stava ormai inclinando sul fianco destro. I pirati stavano calando le piccole imbarcazioni da arrembaggio sul lato opposto, verso il mare aperto, sia per abbandonare la nave che stava per affondare, sia perchе non si davano mai per vinti e si sarebbero preparati all’arrembaggio della nave veneziana. Sia Andrea che Tommaso De’ Foscari sapevano bene che la religione di quei bastardi insegnava loro che morire in battaglia significava essere assunti in gloria dal loro Dio. Nessuno di loro si sarebbe mai arreso. Avrebbero combattuto fino a morire tutti, ma se un solo manipolo di quegli spietati pirati fosse riuscito a salire a bordo, diversi uomini avrebbero perso la vita. Certo, ben presto i Turchi sarebbero stati sopraffatti, ma essi sarebbero comunque riusciti a fare numerose vittime. E Tommaso non avrebbe voluto perdere neanche uno dei suoi uomini. Pertanto la manovra doveva essere precisa. Guid? la nave ad aggirare il galeone turco, in modo di trovarsi tra esso e le barchette dei pirati. Andrea potе a questo punto rendersi conto di quanto micidiale fosse la nuova arma chiamata archibugio. I cinquanta archibugieri spararono all’unisono contro le piccole imbarcazioni all’ordine gridato dal Capitano Franciolini, giusto nel momento in cui il Capitano da Mar gli fece il cenno convenuto. Gli uomini colpiti dalle palle degli archibugi venivano decimati come mosche: teste che si spappolavano, corpi che venivano proiettati in acqua come fantocci di pezza, gambe e braccia che venivano strappate da tronchi che rimanevano per breve tempo ancora agonizzanti, per poi morire dissanguati. Mentre gli archibugieri caricavano di nuovo le armi, i pirati rimasti in vita si gettarono in acqua per cercare di sottrarsi al tiro. Ma la seconda raffica non fu meno distruttiva della prima. Fu ordinato di sparare anche qualche palla esplosiva con i cannoni, in modo di affondare le scialuppe dei turchi. Qualche freccia sibil? sopra le teste di Andrea e Tommaso, ma nessuna and? a segno. Gli archibugieri e gli artificieri erano ben protetti dalle mura della nave e dai pannelli mobili. In mare si inizi? a delineare una chiazza rossastra, una specie di isola di sangue, i cui abitanti erano frammenti di legno bruciacchiato e cadaveri sformati. Per fortuna l’attenzione di Andrea era rivolta invece a un’unica imbarcazione che si stava allontanando dal luogo della battaglia. Era un po’ pi? grande delle altre, aveva un piccolo albero con una vela quadrata, al di sopra della quale sventolava un vessillo rosso con una semiluna e una stella bianca.

«? il sultano! Se ne sta scappando con i suoi uomini fidati», esclam? Andrea, eccitato. «Inseguiamolo. Potremmo catturarlo e farlo prigioniero. Il Duca Della Rovere ce ne sar? di certo riconoscente!»

Il Capitano De’ Foscari mise un braccio intorno alla spalla dell’amico, nel tentativo di placare il suo animo.

«Lasciamolo. Non vale la pena rischiare. ? comunque un uomo pericoloso. Abbiamo vinto la battaglia. Possiamo continuare il nostro viaggio, ormai senza pi? intralci di sorta.»

«Ma… Nel giro di breve si riorganizzer?, e torner? a infestare i nostri mari e terrorizzare le nostre citt? costiere!»

Cos? dicendo, Andrea abbass? la testa, un po’ mortificato. E vide quello che non avrebbe mai voluto vedere. Il sangue, i cadaveri, i pezzi delle barche distrutte. Questa volta non riusc? a trattenere il groppo allo stomaco. Il conato di vomito risal? con forza. I movimenti della nave, per quanto lievi, erano ormai insopportabili. Sent? le gambe cedergli. Si accasci? sulle ginocchia.

Tommaso chiam? un paio di armigeri, che subito furono accanto a lui.

«Accompagnatelo sotto coperta, nella mia cabina, e fatelo distendere nella mia branda. Ha condotto in maniera egregia l’assalto ai pirati, ma ? un combattente di terra. E il sangue, in mare, fa tutto un altro effetto. Vegliate sul suo riposo. Io passer? la nottata qui, sul ponte di comando.»

CAPITOLO 5

Un guerriero non pu? abbassare la testa,

altrimenti perde di vista l’orizzonte dei suoi sogni. (Paulo Coelho)

Nel dormiveglia, cullato dallo sciabordio delle onde, che scorrevano ritmiche sotto lo scafo del galeone alla fonda nel porto di Rimini, ad Andrea ripassavano avanti agli occhi le immagini degli ultimi due mesi, trascorsi accanto alla sua amata Lucia e alle due splendide bambine, alle quali si era affezionato in una maniera che non avrebbe mai creduto possibile. Amava Lucia, cos? come amava Laura, frutto del loro amore, cos? come amava Anna, che cos? tanto somigliava alla sua mamma adottiva. Di certo c’era sangue della famiglia Baldeschi in quella piccola, anche se non era uscita dal grembo di Lucia, ma da quello di una presunta strega che aveva finito i suoi giorni tra le fiamme. E il sospetto di chi avesse ingravidato quella presunta strega era ormai divenuto certezza per Andrea. C’era lo zampino del Cardinal Baldeschi, dello zio di Lucia, non poteva darsi altra spiegazione, ma ormai egli era morto e non poteva pi? arrecar loro alcun fastidio, come aveva fatto in passato. Il solo pensiero di quel truce personaggio gli metteva addosso i brividi. Non molto tempo era passato da quando, dopo aver sistemato tutti i suoi affari nel Montefeltro, si era congedato dai Conti di Carpegnia ed era rientrato a Jesi in una calda giornata di fine luglio. Come nella precedente occasione, rivedere le mura, le porte, le torri, i torrioni e i campanili della sua citt? aveva suscitato in lui emozioni difficili da contenere. Ma questa volta poteva entrare in citt? a testa alta, forte di un titolo nobiliare, protetto del Duca di Urbino. E a pieno diritto poteva reclamare di essere nominato Capitano del popolo e di poter convolare a giuste nozze con la sua promessa sposa.

Dopo una breve sosta presso il palazzo paterno, giusto per darsi una rinfrescata e cambiarsi d’abito, si era precipitato verso la residenza di campagna dei Conti Baldeschi. Sapeva bene, infatti, che non avrebbe trovato Lucia nel Palazzo del Governo, nе tanto meno nel Palazzo Baldeschi in Piazza San Floriano. Si era presentato alla servit? e si era fatto annunciare alla padrona di casa. Lucia si era fatta attendere un bel pezzo, ma quando aveva varcato la soglia del salone a piano terra, Andrea era rimasto colpito dalla sua fulgida bellezza, come fosse la prima volta che la vedeva. Indossava una gamurra di seta verde, che metteva in risalto i suoi lineamenti e le sue fattezze femminili. Gli occhi nocciola, al centro del viso pallido, erano quasi fissi su di lui. Erano dolci e al tempo stesso penetranti. Lo scollo del vestito mostrava con generosit? le spalle e la fossetta tra i seni, la pelle chiara quasi come latte. Una collana di perle bianche le ornava il collo e l’acconciatura dei capelli era studiata per rendere giustizia al bel viso della dama. La cascata di capelli scuri era tirata indietro da una treccia che circondava la nuca, in modo tale da lasciare del tutto scoperta la fronte. Nel viso perfettamente ovale, dai lineamenti delicati, le labbra spiccavano di un vermiglio innaturale, donato dal colore ottenuto dai fiori di papavero. Le sopracciglia appena accennate e la fronte alta, spaziosa, le donavano l’aspetto di una vera Signora. Ai suoi fianchi, una per lato, le due bambine di circa sei anni, del tutto somiglianti a lei nell’aspetto, nel portamento, nelle sembianze e nell’acconciatura, la tenevano con delicatezza per mano. Le uniche differenze tra le due bimbe erano l’altezza e il colore dei capelli, una un poco pi? alta, longilinea e dai capelli biondi e ondulati, l’altra poco pi? bassa e dai capelli lisci e neri, rasati nella parte alta della testa per dare risalto all’ampiezza della fronte. Andrea aveva capito, gi? fin dall’altra volta in cui aveva intravisto le bimbe giocare nel giardino di quella stessa villa, che la sua figlia doveva essere la bionda. Senza nulla togliere alla moretta, era una bimba bellissima e aveva due occhi celesti proprio uguali ai suoi. Lucia aveva mandato le bimbe a sedersi su un divanetto e aveva porto la mano destra al cavaliere, che l’aveva presa tra le sue, si era inginocchiato e gliela aveva baciata.

«Su, su! Alzatevi!», gli aveva detto Lucia, le gote che le si stavano infiammando. Sollevandosi, Andrea si era trovato con il suo viso a brevissima distanza da quello di lei. L’impulso era stato quello di avvicinare le labbra alle sue e baciarla a lungo, ma si dovette trattenere a causa della presenza della servit?, ma soprattutto delle due bimbe.

I due rimasero cos?, per un po’, fissandosi negli occhi, senza proferire parola. Poi Andrea si schiar? la voce.

«I vostri occhi nocciola. Credo di averli visti l’ultima volta dietro una celata sollevata. Eravate voi il giorno del torneo a Urbino. Ne sono sicuro. Ho riconosciuto i vostri occhi. Dello stesso colore, al mondo non ce ne sono altri. Siete voi che mi avete salvato la vita, che avete bloccato Masio. E non capisco proprio, non mi capacito di come una damigella, bella e delicata come voi, abbia avuto la forza e il coraggio di intervenire in una maniera degna di un uomo d’armi.»

«Dovete ancora conoscermi a fondo, Messer Franciolino - o posso ancora chiamarvi Andrea? – In ogni caso, dietro la facciata di femminilit?, ho saputo sempre farmi valere, anche in situazioni che richiedevano non solo forza, ma anche astuzia, cervello e ragionamento. E nessuno ? mai riuscito a gabbare la qui presente Contessina Lucia Baldeschi. E vi assicuro che ci hanno provato in molti.»

«Immagino che questi anni per voi, qui in citt?, non siano stati semplici. Mi hanno raccontato che vi siete assunta delle responsabilit? non indifferenti. E che ve la siete cavata in maniera egregia. Mi hanno anche riferito che siete una temeraria e pi? di una volta vi siete avventurata in viaggi anche perigliosi, e per di pi? senza scorta. Una cosa davvero azzardata per una dama del vostro rango.»

A queste parole, Lucia aveva abbassato lo sguardo, sospirando. Andrea, avendo capito di aver toccato un tasto forse dolente per la sua amata, aveva riportato il discorso su un piano diverso.

«Certo, dopo i fatti di Urbino, mi sarei aspettato di trovarvi al mio fianco, di essere assistito dalle vostre amorevoli cure, come ai tempi del sacco di Jesi. Invece mi sono ritrovato in un castello sperduto e solitario, con la sola compagnia di due burberi Conti montanari, e di un piccolo manipolo di loro servi.»

«Ho provveduto a che foste curato, ma non potevo rimanere nel Montefeltro. Ero giunta fin l? in incognita, solo per vedere voi. E ora che state bene, aspetto che siate voi a…»

«Ma certo, ma certo, avete ragione appieno», e si prostr? di nuovo ai piedi della sua amata, riprendendole la mano tra le sue. «Vi chiedo umilmente scusa per essermi dilungato in inutili chiacchiere. Lo scopo della mia presenza qui ? uno e uno solo. Quello di propormi come vostro sposo. ? strano doverlo chiedere direttamente a voi, di solito la mano di una dama si chiede per intercessione del suo genitore, o di un suo tutore. Ma meglio cos?. Sono pronto a dichiararvi il mio amore immenso, e credo che anche il vostro cuore batta forte per questo cavaliere, come pi? volte mi avete fatto capire.»

Lucia gli intim? di alzarsi per la seconda volta. Andrea si sollev?, continuando a tenere la mano di lei. Sentiva il profumo di acqua di rose, che lo stava facendo inebriare, quasi fosse ubriaco. Ancora una volta ebbe l’istinto di baciarla. Avvicin? con delicatezza il suo busto a quello di lei, fino a sentire la pressione dei suoi seni contro il suo torace. Le sfior? la gota con le labbra, in un leggerissimo bacio, quasi impercettibile. Lucia si retrasse un po’.

«E avete capito bene. S?, sono pronta a sposarvi, a una sola condizione, che vogliate essere padre di entrambe le bimbe.»

«E questo ? scontato. Lo voglio essere. Sono due bimbe meravigliose e, a quanto vedo, gi? ben educate. Di questo bisogna rendervi merito.»

«Credo che ora sia bene vi congediate. Dovrete far visita al nostro amato Vescovo, al Cardinal Ghislieri, e prendere accordi con lui per la cerimonia nuziale. Io sar? disposta ad attenermi a tutto quello che il Cardinale vorr? predisporre. Andate, ora!»

La nave veneziana, per quanto stabile fosse, era pi? soggetta a movimenti di rollio e beccheggio avvicinandosi alla costa. Le manovre dovute all’attracco, inoltre, accentuavano detti movimenti, cos? come risvegliavano la nausea e il mal di testa di Andrea. Dalle voci dei marinai, cap? che si stavano avvicinando alla Marina di Ravenna. Dalla piccola finestrella della cabina del comandante si intravedeva una fitta pineta a far da cornice alla costa. Tirandosi su dalla branda, sbattе la testa sul soffitto della cabina, che per quanto fosse una delle pi? alte, situata fra il secondo e il terzo ponte di poppa, era sempre pi? bassa rispetto alla sua altezza. Giusto mentre combatteva un conato di vomito, cercando di inghiottire la bile che risaliva dallo stomaco, entr? nella cabina il Capitano da mar.

«Ci fermeremo qui, alla Marina di Ravenna, per alcuni giorni, al fine di rifornire la nave di viveri e munizioni. Fino al Delta del Fiume Padano occorreranno altri due giorni, poi risaliremo il Po fino a Mantova. Da qui a Mantova, il viaggio sar? molto meno agevole rispetto a ci? che ? stato finora. Soprattutto la navigazione fluviale creer? non pochi problemi. Potremo trovare delle secche, dei tratti di fiumi pi? stretti, insomma non sar? facile giungere fino a destinazione con una nave cos? grande. Accetta il mio consiglio, sbarca qui. Ti far? procurare dei cavalli e una scorta. Via terra, raggiungerai Ferrara, dove sarai ospite per qualche giorno del Duca d’Este, nostra amico e alleato. Da Ferrara a Mantova la strada non ? lunga. Ti invier? un messaggero non appena la nostra nave sar? giunta nella citt? dei Gonzaga e ci riuniremo l?.»

Andrea fu sollevato dalla proposta. Non vedeva l’ora di sbarcare e poter balzare finalmente in sella a un cavallo.

CAPITOLO 6

La bellezza salver? il mondo

(Fedor Dostoevskij)

Infangato fino al collo, Andrea aveva la fronte imperlata di sudore, nonostante il freddo pungente dell’inizio di un inverno che, a passi veloci, avrebbe aperto le porte all’anno 2019. L’amministrazione comunale era stata chiara. Entro la successiva primavera, Piazza Colocci doveva essere ripristinata e gli scavi archeologici, che avevano portato alla luce i resti dei piani bassi del vecchio palazzo del governo, sarebbero stati interrati. Il tutto era gi? stato fotografato, i reperti principali trasferiti al nuovo museo archeologico, al piano terra del Palazzo Pianetti-Tesei, e ormai era stato concesso fin troppo tempo a cittadini, turisti e curiosi per dare una sbirciata, del tutto gratuita, alla piazza scoperchiata. Ma Andrea non era soddisfatto, non si dava per vinto. L? sotto, a un livello pi? basso, ci dovevano essere i resti dell’antico anfiteatro romano. Prova ne erano le antiche palle del “gioco della palletta”, antica disciplina risalente all’epoca dei Romani. Tale gioco, noto anche come Harpastum, o gioco della palla sferica, era parte integrante dell’allenamento dei gladiatori ed era giocato soprattutto dalle legioni a presidio dei confini. Secondo Andrea, le palle ritrovate circa venti anni prima in fondo al pozzo del cortile interno del Palazzo della Signoria non erano riferibili al gioco settecentesco della pallacorda, come era stato asserito sinora. Esse erano invece la testimonianza che in quella zona si svolgevano, tra il I secolo a.C. e il III secolo d.C., giochi in cui venivano coinvolti gladiatori e schiavi, alla stessa stregua di quelli ai quali si poteva assistere a Roma all’interno del Colosseo. Certo, non poteva calarsi in fondo al pozzo per sfondarne le pareti, ma secondo lui un passaggio dalle stanze dell’antico Palazzo del Governo ai livelli sottostanti ci doveva essere per forza. Tutto stava a trovarlo. Le costosissime rilevazioni radar che aveva fatto eseguire del tutto a sue spese gli davano ragione, ma ogni volta che pensava di essere vicino alla scoperta sensazionale del possibile passaggio c’era qualcosa che andava storto. L? dei collettori di fogne che non potevano essere toccati se non rischiando di allagare tutto, l? paratie metalliche a protezione e consolidamento delle fondamenta del Palazzo della Signoria. Qui resti di focolari, che non potevano essere toccati, se non scatenando le ire del delegato ai Beni Culturali e Artistici. E ora ci si era messa anche la neve. Dall’otto dicembre, una nevicata precoce ma abbondante gli aveva impedito di lavorare per alcuni giorni. Poi, quando la neve si era sciolta, aveva lasciato una tale quantit? di fango, che quasi era impossibile reggersi in piedi dentro gli scavi senza scivolare in continuazione. Irritato, infreddolito, con i nervi a fior di pelle, sollev? il piccone. Avrebbe dato una picconata secca al muro di fondo, quello che separava il vecchio palazzo del Governo dalle fondamenta dell’attuale, terminato di costruire intorno all’anno 1.500, ma si ferm? col braccio in aria. Qualcosa aveva richiamato l’attenzione del suo sguardo. Il fango, scolando verso il basso, aveva lasciato scoperto un particolare che non aveva mai notato prima. Un arco a volta limitato dagli antichi mattoni, quasi a pelo del suolo che stava calpestando e che rappresentava il pavimento del piano terra di quell’antico edificio, delimitava senza dubbio un’apertura, anche se occlusa da detriti e semi interrata.

Di certo i mattoni che delimitano quest’arco sono di fattezza pi? antica rispetto al resto, hanno un aspetto pi? irregolare, sono pi? scuri. Magari sono proprio di epoca romana…

Andrea si sfreg? le mani soddisfatto, alit? su di esse per riscaldarle un po’ e si guard? intorno per cercare gli attrezzi giusti, abbandonando il piccone. Cerc? di ripulire l’ipotetica apertura, per quanto possibile a mani nude, aiutandosi con una piccola pala zappa pieghevole per asportare i detriti, rifinendo poi il lavoro con un pennello per togliere polvere e terriccio. Poco alla volta, venne alla luce una porta in legno, abbastanza ben conservata, chiusa con un chiavistello. Non sarebbe stato difficile aprirla o sfondarla ma, non sapendo cosa avrebbe trovato al di l? ed essendo ormai l’imbrunire, decise che per quel giorno si poteva ritenere soddisfatto e che poteva sospendere i lavori per riprenderli il giorno successivo.

Meglio tornare a casa e ricontrollare le rilevazioni radar. Non vorrei avere sorprese. E poi meglio farsi aiutare da qualcuno. La prudenza non ? mai troppa in questi casi. Sia mai che aprendo quella porta possa provocare dei crolli. Al che tutto il lavoro di mesi e mesi andrebbe a farsi benedire.

Radun? gli attrezzi, mise la sacca da lavoro a tracolla, usc? dagli scavi e si diresse gi? per Costa Baldassini, per raggiungere la sua dimora. Il calore accogliente della sua abitazione e l’odore di fumo delle sigarette consumate dalla sua compagna lo misero di buon umore. Gett? la sacca in terra presso l’ingresso, cerc? per quanto possibile di liberare le scarpe dal fango e sal? le scale di corsa. Trov? Lucia addormentata, con un braccio e la testa poggiati sul tavolo del soggiorno, il notebook acceso avanti a lei e la cicca di una sigaretta ancora fumante nel posacenere. Le carezz? i capelli con delicatezza, evocandone il risveglio.

«Mio Dio, Andrea! Sono crollata. Dovevo essere proprio stanca. Ho lavorato tutto il giorno per cercare di interpretare un nuovo documento, che ho ritrovato qui tra le scartoffie della tua biblioteca e che si riferisce al periodo in cui il tuo antenato Andrea Franciolini and? a combattere nei Paesi Bassi a sostegno del re di Francia contro l’imperatore Carlo V d’Asburgo. A parte il periodo politicamente ingarbugliato, per cui il papa parteggiava ora per la Francia, ora per l’impero, la cronologia delle date in questo documento appare strana. E poi c’? questa raffigurazione, che sembra un’immagine molto pi? antica rispetto ai tempi di cui stiamo discutendo. ? un leone traverso, disteso, inciso su pietra, mi sembra. Non capisco che significato abbia: non ? nе il leone rampante simbolo di Jesi, nе il leone di San Marco, simbolo della Repubblica Veneziana. Sembra pi? un’icona, un altorilievo su pietra, proveniente da qualche abitazione o da qualche costruzione di epoca romana, quasi somigliante a quelle piastrelle decorative che adornano la sagoma del portale di questo palazzo.»

«Come ormai ben sai, quelle piastrelle erano decorazioni di un antico tempio romano che sorgeva nell’antichit? in questo luogo, e che sono state rinvenute durante gli scavi delle fondamenta.»

«Appunto. E quindi la mia idea ? che chi ha disegnato questa illustrazione si sia rifatto a una decorazione dell’antico anfiteatro romano, che sorgeva pi? o meno tra Piazza Colocci e Via Roccabella. In fin dei conti i leoni venivano utilizzati dai romani, all’interno delle arene, nei combattimenti con i gladiatori.»

«E spesso ne facevano scempio. Che spettacoli orribili! Eppure al tempo erano graditi alla popolazione. In ogni caso, visto che siamo in argomento debbo riferirti che proprio poco fa forse ho individuato un passaggio che potrebbe condurre ai resti di questo antico anfiteatro. Sono riuscito a isolare una porta in legno, a un livello pi? basso rispetto al resto degli scavi, che secondo me avrebbe dovuto dare accesso alle cantine dell’antico Palazzo del Governo. E se i conti tornano, quelle cantine dovrebbero corrispondere con antichi ambienti riferibili ad alcune zone dell’anfiteatro.»

«Hai provato ad aprire la porta?»

«No, ho bisogno degli strumenti adeguati e di qualcuno che mi assista. Non vorrei provocare crolli.»

«E chi vuoi trovare come assistenti? Siamo prossimi alle festivit? natalizie, tutti i tuoi amici archeologi si sono dileguati ormai da un pezzo e l’amministrazione comunale ha gi? deciso di chiudere gli scavi a breve!»

«Credo che basti una persona. E credo che chi fa al caso mio sia ora qui di fronte a me.»

«Oh, scordati di coinvolgermi in un’altra delle tue balorde avventure solo perchе fai leva sul fatto che sono innamorata di te», replic? Lucia, indignata. «Non ho alcuna voglia di rimanere sepolta viva tra i ruderi di un anfiteatro romano. E poi, sai bene che soffro di claustrofobia.»

«Lo so», ribattе Andrea sornione. «Ma so anche che la tua curiosit? di studiosa riesce a prevalere su tutte le paure. Ne hai dato dimostrazione in passato. E se pensi che l? sotto potresti rinvenire l’icona originale rappresentante quel leone traverso…»

«Ehi, pensi di riuscire sempre a farmi fare quello che vuoi?»

Lucia allung? nervosa una mano verso il pacchetto di sigarette e ne sfil? una per accendersela. Rimase con la sigaretta in bocca e l’accendino acceso in mano, interrotta dallo squillo del suo cellulare. Sul display compariva un numero di cellulare, non salvato in rubrica e preceduto dal prefisso internazionale +49.

Lucia e Andrea si scambiarono uno sguardo interrogativo, poi lui le fece cenno di rispondere. Lucia attiv? il vivavoce, in modo che anche Andrea potesse ascoltare la conversazione. Dall’altro capo del telefono, una voce maschile inizi? a parlare in lingua italiana quasi perfetta, anche se con accento marcato sulla erre.

«Parrrlo con la Contessina Lucia Baldeschi-Balleani?»

«Per servirla! A cosa debbo l’onore…?»

«Lasci che mi prrresenti! Sono Sua Altezza Imperiale e Rrregale, l’Arciduca Sigismondo d’Asburgo Lorena, Granduca titolare di Toscana e Gran Maestro dell'Insigne Sacro Militare Ordine di Santo Stefano Papa e Martire.»