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La coscienza di Zeno
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La coscienza di Zeno

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Una sera andai a giocare al club. Era da molti anni che non mi vi facevo vedere per rispetto ad una promessa fatta a mio padre. Mi pareva che la promessa non potesse più valere poiché mio padre non poteva aver previste tali mie dolorose circostanze e l’urgente mia necessità di procurarmi uno svago. Dapprima guadagnai con una fortuna che mi dolse perché mi parve un indennizzo della mia sfortuna in amore. Poi perdetti e mi dolse ancora perché mi parve di soggiacere al giuoco com’ero soggiaciuto all’amore. Ebbi presto disgusto del giuoco: non era degno di me e neppure di Ada. Tanto puro mi rendeva quell’amore!

Di quei giorni so anche che i sogni d’amore erano stati annientati da quella realtà tanto rude. Il sogno era oramai tutt’altra cosa. Sognavo la vittoria invece che l’amore. Il mio sonno fu una volta abbellito da una visita di Ada. Era vestita di sposa e veniva con me all’altare, ma quando fummo lasciati soli non facemmo all’amore, neppure allora. Ero suo marito e avevo acquistato il diritto di domandarle: «Come hai potuto permettere ch’io fossi trattato così?» Di altro diritto non mi premeva.

Trovo in un mio cassetto degli abbozzi di lettere ad Ada, a Giovanni e alla signora Malfenti. Sono di quei giorni. Alla signora Malfenti scrivevo una lettera semplice con la quale prendevo congedo prima d’intraprendere un lungo viaggio. Non ricordo però di aver avuto una tale intenzione: non potevo lasciare la città quando non ero ancora certo che nessuno sarebbe venuto a cercarmi. Quale sventura se fossero venuti e non m’avessero trovato! Nessuna di quelle lettere è stata inviata. Credo anzi le avessi scritte solo per mettere in carta i miei pensieri.

Da molti anni io mi consideravo malato, ma di una malattia che faceva soffrire piuttosto gli altri che me stesso. Fu allora che conobbi la malattia «dolente», una quantità di sensazioni fisiche sgradevoli che mi resero tanto infelice.

S’iniziarono così. Alla una di notte circa, incapace di prendere sonno, mi levai e camminai nella mite notte finché non giunsi ad un caffè di sobborgo nel quale non ero mai stato e dove perciò non avrei trovato alcun conoscente, ciò che mi era molto gradito perché volevo continuarvi una discussione con la signora Malfenti, cominciata a letto e nella quale non volevo che nessuno si frammettesse. La signora Malfenti m’aveva fatti dei rimproveri nuovi. Diceva ch’io avevo tentato di «giocar di pedina» con le sue figliuole. Intanto se avevo tentato una cosa simile l’avevo certamente fatto con la sola Ada. Mi venivano i sudori freddi al pensare che forse in casa Malfenti oramai mi si movessero dei rimproveri simili. L’assente ha sempre torto e potevano aver approfittato della mia lontananza per associarsi ai miei danni. Nella viva luce del caffè mi difendevo meglio. Certo talvolta io avrei voluto toccare col mio piede quello di Ada ed una volta anzi m’era parso di averlo raggiunto, lei consenziente. Poi però risultò che avevo premuto il piede di legno del tavolo e quello non poteva aver parlato.

Fingevo di pigliar interesse al gioco del biliardo. Un signore, appoggiato ad una gruccia, s’avvicinò e venne a sedere proprio accanto a me. Ordinò una spremuta e poiché il cameriere aspettava anche i miei ordini, per distrazione ordinai una spremuta anche per me ad onta ch’io non possa soffrire il sapore del limone. Intanto la gruccia appoggiata al sofà su cui sedevamo, scivolò a terra ed io mi chinai a raccoglierla con un movimento quasi istintivo.

– Oh, Zeno! – fece il povero zoppo riconoscendomi nel momento in cui voleva ringraziarmi.

– Tullio! – esclamai io sorpreso e tendendogli la mano. Eravamo stati compagni di scuola e non ci eravamo visti da molti anni. Sapevo di lui che, finite le scuole medie, era entrato in una banca, dove occupava un buon posto.

Ero tuttavia tanto distratto che bruscamente gli domandai come fosse avvenuto ch’egli aveva la gamba destra troppo corta così da aver bisogno della gruccia.

Di buonissimo umore, egli mi raccontò che sei mesi prima s’era ammalato di reumatismi che avevano finito col danneggiargli la gamba.

M’affrettai di suggerirgli molte cure. È il vero modo per poter simulare senza grande sforzo una viva partecipazione Egli le aveva fatte tutte. Allora suggerii ancora:

– E perché a quest’ora non sei ancora a letto? A me non pare che ti possa far bene di esporti all’aria notturna.

Egli scherzò bonariamente: riteneva che neppure a me l’aria notturna potesse giovare e riteneva che chi non soffriva di reumatismi, finché aveva vita, poteva ancora procurarseli. Il diritto di andare a letto alle ore piccole era ammesso persino dalla costituzione austriaca. Del resto, contrariamente all’opinione generale, il caldo e il freddo non avevano a che fare coi reumatismi. Egli aveva studiata la sua malattia ed anzi non faceva altro a questo mondo che studiarne le cause e i rimedi. Più che per la cura aveva avuto bisogno di un lungo permesso dalla banca per poter approfondirsi in quello studio. Poi mi raccontò che stava facendo una cura strana. Mangiava ogni giorno una quantità enorme di limoni. Quel giorno ne aveva ingoiati una trentina, ma sperava con l’esercizio di arrivare a sopportarne anche di più. Mi confidò che i limoni secondo lui erano buoni anche per molte altre malattie. Dacché li prendeva sentiva meno fastidio per il fumare esagerato, al quale anche lui era condannato.

Io ebbi un brivido alla visione di tanto acido, ma, subito dopo, una visione un po’ più lieta della vita: i limoni non mi piacevano, ma se mi avessero data la libertà di fare quello che dovevo o volevo senz’averne danno e liberandomi da ogni altra costrizione, ne avrei ingoiati altrettanti anch’io. È libertà completa quella di poter fare ciò che si vuole a patto di fare anche qualche cosa che piaccia meno. La vera schiavitù è la condanna all’astensione: Tantalo e non Ercole.

Poi Tullio finse anche lui di essere ansioso di mie notizie. Io ero ben deciso di non raccontargli del mio amore infelice, ma abbisognavo di uno sfogo. Parlai con tale esagerazione dei miei mali (così li registrai e sono sicuro ch’erano lievi) che finii con l’avere le lagrime agli occhi, mentre Tullio andava sentendosi sempre meglio credendomi più malato di lui.

Mi domandò se lavoravo. Tutti in città dicevano ch’io non facevo niente ed io temevo egli avesse da invidiarmi mentre in quell’istante avevo l’assoluto bisogno di essere commiserato. Mentii! Gli raccontai che lavoravo nel mio ufficio, non molto, ma giornalmente almeno per sei ore e che poi gli affari molto imbrogliati ereditati da mio padre e da mia madre mi davano da fare per altre sei ore.

– Dodici ore! – commentò Tullio, e con un sorriso soddisfatto, mi concedette quello che ambivo, la sua commiserazione: – Non sei mica da invidiare, tu!

La conclusione era esatta ed io ne fui tanto commosso che dovetti lottare per non lasciar trapelare le lagrime. Mi sentii più infelice che mai e, in quel morbido stato di compassione di me stesso, si capisce io sia stato esposto a delle lesioni.

Tullio s’era rimesso a parlare della sua malattia ch’era anche la sua principale distrazione. Aveva studiato l’anatomia della gamba e del piede. Mi raccontò ridendo che quando si cammina con passo rapido, il tempo in cui si svolge un passo non supera il mezzo secondo e che in quel mezzo secondo si movevano nientemeno che cinquantaquattro muscoli. Trasecolai e subito corsi col pensiero alle mie gambe a cercarvi la macchina mostruosa. Io credo di avercela trovata. Naturalmente non riscontrai i cinquantaquattro ordigni, ma una complicazione enorme che perdette il suo ordine dacché io vi ficcai la mia attenzione.

Uscii da quel caffè zoppicando e per alcuni giorni zoppicai sempre. Il camminare era per me divenuto un lavoro pesante, e anche lievemente doloroso. A quel groviglio di congegni pareva mancasse ormai l’olio e che, movendosi, si ledessero a vicenda. Pochi giorni appresso, fui colto da un male più grave di cui dirò e che diminuì il primo. Ma ancora oggidì, che ne scrivo, se qualcuno mi guarda quando mi movo, i cinquantaquattro movimenti s’imbarazzano ed io sono in procinto di cadere.

Anche questa lesione io la devo ad Ada. Molti animali diventano preda dei cacciatori o di altri animali quando sono in amore. Io fui allora preda della malattia e sono certo che se avessi appreso della macchina mostruosa in altro momento, non ne avrei avuto alcun danno.

Qualche segno su un foglio di carta che conservai, mi ricorda un’altra strana avventura di quei giorni. Oltre all’annotazione di un’ultima sigaretta accompagnata dall’espressione della fiducia di poter guarire della malattia dei cinquantaquattro movimenti, v’è un tentativo di poesia… su una mosca. Se non sapessi altrimenti, crederei che quei versi provengano da una signorina dabbene che dà del tu agl’insetti di cui canta, ma visto che sono stati stesi da me, devo credere che poiché io sono passato per di là, tutti possano capitare dappertutto.

Ecco come quei versi nacquero. A tarda notte ero ritornato a casa e invece che coricarmi m’ero recato nel mio studiolo ove avevo acceso il gas. Alla luce una mosca si mise a tormentarmi. Riuscii a darle un colpo, lieve però per non insudiciarmi. La dimenticai, ma poi la rividi in mezzo al tavolo come lentamente si rimetteva. Era ferma, eretta e pareva più alta di prima perché una delle sue zampine era stata anchilosata e non poteva flettersi. Con le due zampine posteriori si lisciava assiduamente le ali. Tentò di moversi, ma si ribaltò sulla schiena. Si rizzò e ritornò ostinata al suo assiduo lavoro.

Scrissi allora quei versi, stupito di aver scoperto che quel piccolo organismo pervaso da tanto dolore, fosse diretto nel suo sforzo immane da due errori: prima di tutto lisciando con tanta ostinazione le ali che non erano lese, l’insetto rivelava di non sapere da quale organo venisse il suo dolore; poi l’assiduità del suo sforzo dimostrava che c’era nella sua minuscola mente la fede fondamentale che la salute spetti a tutti e che debba certamente ritornare quando ci ha lasciato. Erano errori che si possono facilmente scusare in un insetto che non vive che la vita di una sola stagione, e non ha tempo di far dell’esperienza.

Ma venne la domenica. Scadeva il quinto giorno dalla mia ultima visita in casa Malfenti. Io, che lavoro tanto poco, conservai sempre un grande rispetto per il giorno festivo che divide la vita in periodi brevi che la rendono più sopportabile. Quel giorno festivo chiudeva anche una mia settimana faticosa e me ne competeva la gioia. Io non cambiai per nulla i miei piani ma per quel giorno non dovevano valere ed io avrei rivista Ada. Non avrei compromessi quei piani con alcuna parola, ma dovevo rivederla perché c’era anche la possibilità che l’affare si fosse già cambiato in mio favore ed allora sarebbe stato un bel danno di continuar a soffrire senza scopo.

Perciò, a mezzodì, con la fretta che le mie povere gambe mi concedevano, corsi in città e sulla via che sapevo la signora Malfenti e le figliuole dovevano percorrere al ritorno dalla messa. Era una festa piena di sole e, camminando, pensai che forse in città m’aspettava la novità attesa, l’amore di Ada!

Non fu così, ma per un altro istante n’ebbi l’illusione. La fortuna mi favorì in modo incredibile. M’imbattei faccia a faccia in Ada, nella sola Ada. Mi mancò il passo e il fiato. Che fare? Il mio proponimento avrebbe voluto che mi tirassi in disparte e la lasciassi passare con un saluto misurato. Ma nella mia mente ci fu un po’ di confusione perché prima c’erano stati altri proponimenti tra cui uno che ricordavo secondo il quale avrei dovuto parlarle chiaro e apprendere dalla sua bocca il mio destino. Non mi trassi in disparte e quand’ella mi salutò come se ci fossimo lasciati cinque minuti prima, io m’accompagnai a lei.

Ella mi aveva detto:

– Buon giorno, signor Cosini! Ho un po’ fretta.

Ed io:

– Mi permette di accompagnarla per un tratto?

Ella accettò sorridendo. Ma dunque avrei dovuto parlarle? Ella aggiunse che andava direttamente a casa sua, perciò compresi che non avevo a disposizione che cinque minuti per parlare ed anche di quel tempo ne perdetti una parte a calcolare se sarebbe bastato per le cose importanti che dovevo dirle. Meglio non dirle che non dirle interamente. Mi confondeva anche il fatto che allora nella nostra città, per una fanciulla, era già un’azione compromettente quella di lasciarsi accompagnare sulla via da un giovanotto. Ella me lo permetteva. Non potevo già accontentarmi? Intanto la guardavo, tentando di sentir di nuovo intero il mio amore annebbiatosi nell’ira e nel dubbio. Riavrei almeno i miei sogni? Ella m’appariva piccola e grande nello stesso tempo, nell’armonia delle sue linee. I sogni ritornavano in folla anche accanto a lei, reale. Era il mio modo di desiderare e vi ritornai con gioia intensa. Spariva dal mio animo qualunque traccia d’ira o di rancore.

Ma dietro di noi si sentì un’invocazione esitante:

– Se permette, signorina!

Mi volsi indignato. Chi osava interrompere le spiegazioni che non avevo ancora iniziate? Un signorino imberbe, bruno e pallido, la guardava con occhi ansiosi. A mia volta guardai Ada nella folle speranza ch’essa invocasse il mio aiuto. Sarebbe bastato un suo segno ed io mi sarei gettato su quell’individuo a domandargli ragione della sua audacia. E magari avesse insistito. I miei mali sarebbero stati guariti subito se mi fosse stato concesso d’abbandonarmi ad un atto brutale di forza.

Ma Ada non fece quel segno. Con un sorriso spontaneo perché mutava lievemente il disegno delle guancie e della bocca ma anche la luce dell’occhio, ella gli stese la mano:

– Il signor Guido!

Quel prenome mi fece male. Ella, poco prima, mi aveva chiamato col nome mio di famiglia.

Guardai meglio quel signor Guido. Era vestito con un’eleganza ricercata e teneva nella destra inguantata un bastone dal manico d’avorio lunghissimo, che io non avrei portato neppure se m’avessero pagato perciò una somma per ogni chilometro. Non mi rimproverai di aver potuto vedere in una simile persona una minaccia per Ada. Vi sono dei loschi figuri che vestono elegantemente e portano anche di tali bastoni.

Il sorriso di Ada mi ricacciò nei più comuni rapporti mondani. Ada fece la presentazione. E sorrisi anch’io! Il sorriso di Ada ricordava un poco l’increspatura di un’acqua limpida sfiorata da una lieve brezza. Anche il mio ricordava un simile movimento, ma prodotto da un sasso che fosse stato gettato nell’acqua.

Si chiamava Guido Speier. Il mio sorriso si fece più spontaneo perché subito mi si presentava l’occasione di dirgli qualche cosa di sgradevole:

– Lei è tedesco?

Cortesemente egli mi disse che riconosceva che al nome tutti potevano crederlo tale. Invece i documenti della sua famiglia provavano ch’essa era italiana da varii secoli. Egli parlava il toscano con grande naturalezza mentre io e Ada eravamo condannati al nostro dialettaccio.

Lo guardavo per sentire meglio quello ch’egli diceva. Era un bellissimo giovine: le labbra naturalmente socchiuse lasciavano vedere una bocca di denti bianchi e perfetti. L’occhio suo era vivace ed espressivo e, quando s’era scoperto il capo, avevo potuto vedere che i suoi capelli bruni e un po’ ricciuti, coprivano tutto lo spazio che madre natura aveva loro destinato, mentre molta parte della mia testa era stata invasa dalla fronte.

Io l’avrei odiato anche se Ada non fosse stata presente, ma soffrivo di quell’odio e cercai di attenuarlo. Pensai: – È troppo giovine per Ada. – E pensai poi che la confidenza e la gentilezza ch’essa gli usava fossero dovute ad un ordine del padre. Forse era un uomo importante per gli affari del Malfenti e a me era parso che in simili casi tutta la famiglia fosse obbligata alla collaborazione. Gli domandai:

– Ella si stabilisce a Trieste?

Mi rispose che vi si trovava da un mese e che vi fondava una casa commerciale. Respirai! Potevo aver indovinato.

Camminavo zoppicando, ma abbastanza disinvolto, vedendo che nessuno se ne accorgeva. Guardavo Ada e tentavo di dimenticare tutto il resto compreso l’altro che ci accompagnava. In fondo io sono l’uomo del presente e non penso al futuro quando esso non offuschi il presente con ombre evidenti. Ada camminava fra noi due e aveva sulla faccia, stereotipata, un’espressione vaga di lietezza che arrivava quasi al sorriso. Quella lietezza mi pareva nuova. Per chi era quel sorriso? Non per me ch’essa non vedeva da tanto tempo?


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