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La coscienza di Zeno
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La coscienza di Zeno

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Ero venuto al Tergesteo per consiglio dell’Olivi che mi diceva sarebbe stato un buon esordio alla mia attività commerciale frequentare la Borsa e che da quel luogo avrei anche potuto procurargli delle utili notizie. M’assisi a quel tavolo al quale troneggiava il mio futuro suocero e di là non mi mossi più, sembrandomi di essere arrivato ad una vera cattedra commerciale, quale la cercavo da tanto tempo.

Egli presto s’accorse della mia ammirazione e vi corrispose con un’amicizia che subito mi parve paterna. Che egli avesse saputo subito come le cose sarebbero andate a finire? Quando, entusiasmato dall’esempio della sua grande attività, una sera dichiarai di voler liberarmi dall’Olivi e dirigere io stesso i miei affari, egli me ne sconsigliò e parve persino allarmato dal mio proposito. Potevo dedicarmi al commercio, ma dovevo tenermi sempre solidamente legato all’Olivi ch’egli conosceva.

Era dispostissimo ad istruirmi, ed anzi annotò di propria mano nel mio libretto tre comandamenti ch’egli riteneva bastassero per far prosperare qualunque ditta: 1. Non occorre saper lavorare, ma chi non sa far lavorare gli altri perisce. 2. Non c’è che un solo grande rimorso, quello di non aver saputo fare il proprio interesse. 3. In affari la teoria è utilissima, ma è adoperabile solo quando l’affare è stato liquidato.

Io so questi e tanti altri teoremi a mente, ma a me non giovarono.

Quando io ammiro qualcuno, tento immediatamente di somigliargli. Copiai anche il Malfenti. Volli essere e mi sentii molto astuto. Una volta anzi sognai d’essere più furbo di lui. Mi pareva di aver scoperto un errore nella sua organizzazione commerciale: volli dirglielo subito per conquistarmi la sua stima. Un giorno al tavolo del Tergesteo l’arrestai quando, discutendo di un affare, stava dando della bestia ad un suo interlocutore. L’avvertii ch’io trovavo ch’egli sbagliava di proclamare con tutti la sua furberia. Il vero furbo, in commercio, secondo me, doveva fare in modo di apparire melenso.

Egli mi derise. La fama di furberia era utilissima. Intanto molti venivano a prender consiglio da lui e gli portavano delle notizie fresche mentre lui dava loro dei consigli utilissimi confermati da un’esperienza raccolta dal Medio Evo in poi. Talvolta egli aveva l’opportunità di aver insieme alle notizie anche la possibilità di vendere delle merci. Infine – e qui si mise ad urlare perché gli parve d’aver trovato finalmente l’argomento che doveva convincermi – per vendere o per comperare vantaggiosamente, tutti si rivolgevano al più furbo. Dal melenso non potevano sperare altro fuorché indurlo a sacrificare ogni suo beneficio, ma la sua merce era sempre più cara di quella del furbo, perché egli era stato già truffato al momento dell’acquisto.

Io ero la persona più importante per lui a quel tavolo. Mi confidò suoi segreti commerciali ch’io mai tradii. La sua fiducia era messa benissimo, tant’è vero che poté ingannarmi due volte, quand’ero già divenuto suo genero. La prima volta la sua accortezza mi costò bensì del denaro, ma fu l’Olivi ad esser l’ingannato e perciò io non mi dolsi troppo. L’Olivi m’aveva mandato da lui per averne accortamente delle notizie e le ebbe. Le ebbe tali che non me la perdonò più e quando aprivo la bocca per dargli un’informazione, mi domandava: «Da chi l’avete avuta? Da vostro suocero?». Per difendermi dovetti difendere Giovanni e finii col sentirmi piuttosto l’imbroglione che l’imbrogliato. Un sentimento gradevolissimo.

Ma un’altra volta feci proprio io la parte dell’imbecille, ma neppure allora seppi nutrire del rancore per mio suocero. Egli provocava ora la mia invidia ed ora la mia ilarità. Vedevo nella mia disgrazia l’esatta applicazione dei suoi principii ch’egli giammai m’aveva spiegati tanto bene. Trovò anche il modo di riderne con me, mai confessando di avermi ingannato e asserendo di dover ridere dell’aspetto comico della mia disdetta. Una sola volta egli confessò di avermi giocato quel tiro e ciò fu alle nozze di sua figlia Ada (non con me) dopo di aver bevuto dello sciampagna che turbò quel grosso corpo abbeverato di solito da acqua pura.

Allora egli raccontò il fatto, urlando per vincere l’ilarità che gl’impediva la parola:

– Capita dunque quel decreto! Abbattuto sto facendo il calcolo di quanto mi costi. In quel momento entra mio genero. Mi dichiara che vuol dedicarsi al commercio. «Ecco una bella occasione», gli dico. Egli si precipita sul documento per firmare temendo che l’Olivi potesse arrivare in tempo per impedirglielo e l’affare è fatto. – Poi mi faceva delle grandi lodi: – Conosce i classici a mente. Sa chi ha detto questo e chi ha detto quello. Non sa però leggere un giornale!

Era vero! Se avessi visto quel decreto apparso in luogo poco vistoso dei cinque giornali ch’io giornalmente leggo, non sarei caduto in trappola. Avrei dovuto anche subito intendere quel decreto e vederne le conseguenze ciò che non era tanto facile perché con esso si riduceva il tasso di un dazio per cui la merce di cui si trattava veniva deprezzata.

Il giorno dopo mio suocero smentì le sue confessioni. L’affare in bocca sua riacquistava la fisonomia che aveva avuta prima di quella cena. – Il vino inventa, – diceva egli serenamente e restava acquisito che il decreto in questione era stato pubblicato due giorni dopo la conclusione di quell’affare. Mai egli emise la supposizione che se avessi visto quel decreto avrei potuto fraintenderlo. Io ne fui lusingato, ma non era per gentilezza, ch’egli mi risparmiasse, ma perché pensava che tutti leggendo i giornali ricordino i proprii interessi. Invece io, quando leggo un giornale, mi sento trasformato in opinione pubblica e vedendo la riduzione di un dazio ricordo Cobden e il liberismo. È un pensiero tanto importante che non resta altro posto per ricordare la mia merce.

Una volta però m’avvenne di conquistare la sua ammirazione e proprio per me, come sono e giaccio, ed anzi proprio per le mie qualità peggiori. Possedevamo io e lui da vario tempo delle azioni di una fabbrica di zucchero dalla quale si attendevano miracoli. Invece le azioni ribassavano, tenuemente, ma ogni giorno, e Giovanni, che non intendeva di nuotare contro corrente, si disfece delle sue e mi convinse di vendere le mie. Perfettamente d’accordo, mi proposi di dare quell’ordine di vendita al mio agente e intanto ne presi nota in un libretto che in quel torno di tempo avevo di nuovo istituito. Ma si sa che la tasca non si vede durante il giorno e così per varie sere ebbi la sorpresa di ritrovare nella mia quell’annotazione al momento di coricarmi e troppo tardi perché mi servisse. Una volta gridai dal dispiacere e, per non dover dare troppe spiegazioni a mia moglie le dissi che m’ero morsa la lingua. Un’altra volta, stupito di tanta sbadataggine, mi morsi le mani. «Occhio ai piedi, ora!» disse mia moglie ridendo. Poi non vi furono altri malanni perché vi ero abituato. Guardavo istupidito quel maledetto libretto troppo sottile per farsi percepire durante il giorno con la sua pressione e non ci pensavo più sino alla sera appresso.

Un giorno un improvviso acquazzone mi costrinse di rifugiarmi al Tergesteo. Colà trovai per caso il mio agente il quale mi raccontò che negli ultimi otto giorni il prezzo di quelle azioni s’era quasi raddoppiato.

– Ed io ora vendo! – esclamai trionfalmente.

Corsi da mio suocero il quale già sapeva dell’aumento di prezzo di quelle azioni e si doleva di aver vendute le sue e un po’ meno di avermi indotto a vendere le mie.

– Abbi pazienza! – disse ridendo. – È la prima volta che perdi per aver seguito un mio consiglio.

L’altro affare non era risultato da un suo consiglio ma da una sua proposta ciò che, secondo lui, era molto differente.

Io mi misi a ridere di gusto.

– Ma io non ho mica seguito quel consiglio! – Non mi bastava la fortuna e tentai di farmene un merito. Gli raccontai che le azioni sarebbero state vendute solo la dimane e, assumendo un’aria d’importanza, volli fargli credere che io avessi avuto delle notizie che avevo dimenticato di dargli e che m’avevano indotto a non tener conto del suo consiglio.

Torvo e offeso mi parlò senza guardarmi in faccia. – Quando si ha una mente come la tua non ci si occupa di affari. E quando capita di aver commessa una tale malvagità, non la si confessa. Hai da imparare ancora parecchie cose, tu.

Mi spiacque d’irritarlo. Era tanto più divertente quand’egli danneggiava me. Gli raccontai sinceramente com’erano andate le cose.

– Come vedi è proprio con una mente come la mia che bisogna dedicarsi agli affari.

Subito rabbonito, rise con me:

– Non è un utile quello che ricavi da tale affare; è un indenizzo. Quella tua testa ti costò già tanto, ch’è giusto ti rimborsi di una parte della tua perdita!

Non so perché mi fermai tanto a raccontare dei dissidi ch’ebbi con lui e che sono tanto pochi. Io gli volli veramente bene, tant’è vero che ricercai la sua compagnia ad onta che avesse l’abitudine di urlare per pensare più chiaramente. Il mio timpano sapeva sopportare le sue urla. Se le avesse gridate meno, quelle sue teorie immorali sarebbero state più offensive e, se egli fosse stato educato meglio, la sua forza sarebbe sembrata meno importante. E ad onta ch’io fossi tanto differente da lui, credo ch’egli abbia corrisposto al mio con un affetto simile. Lo saprei con maggiore sicurezza se egli non fosse morto tanto presto. Continuò a darmi assiduamente delle lezioni dopo il mio matrimonio e le condì spesso di urla ed insolenze che io accettavo convinto di meritarle.

Sposai sua figlia. Madre natura misteriosa mi diresse e si vedrà con quale violenza imperativa. Adesso io talvolta scruto le faccie dei miei figliuoli e indago se accanto al mento sottile mio, indizio di debolezza, accanto agli occhi di sogno miei, ch’io loro tramandai, non vi sia in loro almeno qualche tratto della forza brutale del nonno ch’io loro elessi.

E alla tomba di mio suocero io piansi ad onta che anche l’ultimo addio che mi diede non sia stato troppo affettuoso. Dal suo letto di morte mi disse che ammirava la mia sfacciata fortuna che mi permetteva di movermi liberamente mentre lui era crocifisso su quel letto. Io, stupito, gli domandai che cosa gli avessi fatto per fargli desiderare di vedermi malato. Ed egli mi rispose proprio così:

– Se dando a te la mia malattia io potessi liberarmene, te la darei subito, magari raddoppiata! Non ho mica le ubbie umanitarie che hai tu!

Non v’era niente di offensivo: egli avrebbe voluto ripetere quell’altro affare col quale gli era riuscito di caricarmi di una merce deprezzata. Poi anche qui c’era stata la carezza perché a me non spiaceva di veder spiegata la mia debolezza con le ubbie umanitarie ch’egli mi attribuiva.

Alla sua tomba come a tutte quelle su cui piansi, il mio dolore fu dedicato anche a quella parte di me stesso che vi era sepolta. Quale diminuzione per me venir privato di quel mio secondo padre, ordinario, ignorante, feroce lottatore che dava risalto alla mia debolezza, la mia cultura, la mia timidezza. Questa è la verità: io sono un timido! Non l’avrei scoperto se non avessi qui studiato Giovanni. Chissà come mi sarei conosciuto meglio se egli avesse continuato a starmi accanto!

Presto m’accorsi che al tavolo del Tergesteo, dove si divertiva a rivelarsi quale era e anche un poco peggiore, Giovanni s’imponeva una riserva: non parlava mai di casa sua o soltanto quando vi era costretto, compostamente e con voce un poco più dolce del solito. Portava un grande rispetto alla sua casa e forse non tutti coloro che sedevano a quel tavolo gli sembravano degni di saperne qualche cosa. Colà appresi soltanto che le sue quattro figliuole avevano tutti i nomi dall’iniziale in a, una cosa praticissima, secondo lui, perché le cose su cui era impressa quell’iniziale potevano passare dall’una all’altra, senz’aver da subire dei mutamenti. Si chiamavano (seppi subito a mente quei nomi): Ada, Augusta, Alberta e Anna. A quel tavolo si disse anche che tutt’e quattro erano belle. Quell’iniziale mi colpì molto più di quanto meritasse. Sognai di quelle quattro fanciulle legate tanto bene insieme dal loro nome. Pareva fossero da consegnarsi in fascio. L’iniziale diceva anche qualche cosa d’altro. Io mi chiamo Zeno ed avevo perciò il sentimento che stessi per prendere moglie lontano dal mio paese.

Fu forse un caso che prima di presentarmi in casa Malfenti io mi fossi liberato da un legame abbastanza antico con una donna che forse avrebbe meritato un trattamento migliore. Ma un caso che dà da pensare. La decisione a tale distacco fu presa per ragione ben lieve. Alla poverina era parso un bel sistema di legarmi meglio a lei, quello di rendermi geloso. Il sospetto invece bastò per indurmi ad abbandonarla definitivamente. Essa non poteva sapere che io allora ero invaso dall’idea del matrimonio e che credevo di non poter contrarlo con lei, solo perché con lei la novità non mi sarebbe sembrata abbastanza grande. Il sospetto ch’essa aveva fatto nascere in me ad arte era una dimostrazione della superiorità del matrimonio nel quale tali sospetti non devono sorgere. Quando quel sospetto di cui sentii presto l’inconsistenza dileguò, ricordai anche ch’essa spendeva troppo. Oggidì, dopo ventiquattr’anni di onesto matrimonio, non sono più di quel parere.

Per essa fu una vera fortuna perché, pochi mesi dopo, fu sposata da persona molto abbiente ed ottenne l’ambito mutamento prima di me. Non appena sposato, me la trovai in casa perché il marito era un amico di mio suocero. C’incontrammo spesso, ma, per molti anni, finché fummo giovani, fra noi regnò il massimo riserbo e mai si fece allusione al passato. L’altro giorno ella mi domandò a bruciapelo, con la sua faccia incorniciata da capelli grigi giovanilmente arrossata:

– Perché mi abbandonaste?

Io fui sincero perché non ebbi il tempo necessario per confezionare una bugia:

– Non lo so più, ma ignoro anche tante altre cose della mia vita.

– A me dispiace, – ella disse e già m’inchinavo al complimento che così mi prometteva. – Nella vecchiaia mi sembrate un uomo molto divertente. – Mi rizzai con uno sforzo. Non era il caso di ringraziare.

Un giorno appresi che la famiglia Malfenti era ritornata in città da un viaggio di piacere abbastanza prolungato seguito al soggiorno estivo in campagna. Non arrivai a fare alcun passo per essere introdotto in quella casa perché Giovanni mi prevenne.

Mi fece vedere la lettera di un suo amico intimo che domandava mie nuove: Era stato mio compagno di studii costui e gli avevo voluto molto bene finché l’avevo creduto destinato a divenire un grande chimico. Ora, invece, di lui non m’importava proprio niente perché s’era trasformato in un grande commerciante in concimi ed io come tale non lo conoscevo affatto. Giovanni m’invitò a casa sua proprio perché ero l’amico di quel suo amico e, – si capisce, – io non protestai affatto.

Quella prima visita io la ricordo come se l’avessi fatta ieri. Era un pomeriggio fosco e freddo d’autunno; e ricordo persino il sollievo che mi derivò dal liberarmi del soprabito nel tepore di quella casa. Stavo proprio per arrivare in porto. Ancora adesso sto ammirando tanta cecità che allora mi pareva chiaroveggenza. Correvo dietro alla salute, alla legittimità. Sta bene che in quell’iniziale a erano racchiuse quattro fanciulle, ma tre di loro sarebbero state eliminate subito e in quanto alla quarta anch’essa avrebbe subito un esame severo. Giudice severissimo sarei stato. Ma intanto non avrei saputo dire le qualità che avrei domandate da lei e quelle che avrei abbominate.

Nel salotto elegante e vasto fornito di mobili in due stili differenti, di cui uno Luigi XIV e l’altro veneziano ricco di oro impresso anche sui cuoi, diviso dai mobili in due parti, come allora si usava, trovai la sola Augusta che leggeva accanto ad una finestra. Mi diede la mano, sapeva il mio nome e arrivò a dirmi ch’ero atteso perché il suo babbo aveva preavvisata la mia visita. Poi corse via a chiamare la madre.

Ecco che delle quattro fanciulle dalla stessa iniziale una ne moriva in quanto mi riguardava. Come avevano fatto a dirla bella? La prima cosa che in lei si osservava era lo strabismo tanto forte che, ripensando a lei dopo di non averla vista per qualche tempo, la personificava tutta. Aveva poi dei capelli non molto abbondanti, biondi, ma di un colore fosco privo di luce e la figura intera non disgraziata, pure un po’ grossa per quell’età. Nei pochi istanti in cui restai solo pensai: «Se le altre tre somigliano a questa!…»

Poco dopo il gruppo delle fanciulle si ridusse a due. Una di esse, ch’entrò con la mamma, non aveva che otto anni. Carina quella bambina dai capelli inanellati, luminosi, lunghi e sciolti sulle spalle! Per la sua faccia pienotta e dolce pareva un’angioletta pensierosa (finché stava zitta) di quel pensiero come se lo figurava Raffaello Sanzio.

Mia suocera… Ecco! Anch’io provo un certo ritegno a parlarne con troppa libertà! Da molti anni io le voglio bene perché è mia madre, ma sto raccontando una vecchia storia nella quale essa non figurò quale mia amica e intendo di non rivolgerle neppure in questo fascicolo, ch’essa mai vedrà, delle parole meno che rispettose. Del resto il suo intervento fu tanto breve che avrei potuto anche dimenticarlo: Un colpetto al momento giusto, non più forte di quanto occorse per farmi perdere il mio equilibrio labile. Forse l’avrei perduto anche senza il suo intervento, eppoi chissà se essa volle proprio quello che avvenne? È tanto bene educata che non può capitarle come al marito di bere troppo per rivelarmi i miei affari. Infatti mai le accadde nulla di simile e perciò io sto raccontando una storia che non conosco bene; non so cioè se sia dovuta alla sua furberia o alla mia bestialità ch’io abbia sposata quella delle sue figliuole ch’io non volevo.

Intanto posso dire che all’epoca di quella mia prima visita mia suocera era tuttavia una bella donna. Era elegante anche per il suo modo di vestire di un lusso poco appariscente. Tutto in lei era mite e intonato.

Avevo così nei miei stessi suoceri un esempio d’integrazione fra marito e moglie quale io la sognavo. Erano stati felicissimi insieme, lui sempre vociando e lei sorridendo di un sorriso che nello stesso tempo voleva dire consenso e compatimento. Essa amava il suo grosso uomo ed egli deve averla conquistata e conservata a furia di buoni affari. Non l’interesse, ma una vera ammirazione la legava a lui, un’ammirazione cui io partecipavo e che perciò facilmente intendevo. Tanta vivacità messa da lui in un ambito tanto ristretto, una gabbia in cui non v’era altro che una merce e due nemici (i due contraenti) ove nascevano e si scoprivano sempre delle nuove combinazioni e relazioni, animava meravigliosamente la vita. Egli le raccontava tutti i suoi affari e lei era tanto bene educata da non dare mai dei consigli perché avrebbe temuto di fuorviarlo. Egli sentiva il bisogno di tale muta assistenza e talvolta correva a casa a monologare nella convinzione di andar a prendere consiglio dalla moglie.

Non fu una sorpresa per me quando appresi ch’egli la tradiva, ch’essa lo sapeva e che non gliene serbava rancore. Io ero sposato da un anno allorché un giorno Giovanni, turbatissimo, mi raccontò che aveva smarrita una lettera di cui molto gl’importava e volle rivedere delle carte che m’aveva consegnate sperando di ritrovarla fra quelle. Invece, pochi giorni appresso, tutto lieto, mi raccontò che l’aveva ritrovata nel proprio portafogli. «Era di una donna?» domandai io, e lui accennò di sì con la testa, vantandosi della sua buona fortuna. Poi io, per difendermi, un giorno in cui m’accusavano di aver perdute delle carte, dissi a mia moglie e a mia suocera che non potevo avere la fortuna del babbo cui le carte ritornavano da sole al portafogli. Mia suocera si mise a ridere tanto di gusto ch’io non dubitai che quella carta non fosse stata rimessa a posto proprio da lei. Evidentemente nella loro relazione ciò non aveva importanza. Ognuno fa all’amore come sa e il loro, secondo me, non ne era il modo più stupido.

La signora m’accolse con grande gentilezza. Si scusò di dover tenere con sé la piccola Anna che aveva il suo quarto d’ora in cui non si poteva lasciarla con altri. La bambina mi guardava studiandomi con gli occhi serii. Quando Augusta ritornò e s’assise su un piccolo sofà posto dirimpetto a quello su cui eravamo io e la signora Malfenti, la piccina andò a coricarsi in grembo alla sorella donde m’osservò per tutto il tempo con una perseveranza che mi divertì finché non seppi quali pensieri si movessero in quella piccola testa.

La conversazione non fu subito molto divertente. La signora, come tutte le persone bene educate, era abbastanza noiosa ad un primo incontro. Mi domandava anche troppe notizie dell’amico che si fingeva m’avesse introdotto in quella casa e di cui io non ricordavo neppure il nome di battesimo.

Entrarono finalmente Ada e Alberta. Respirai: erano belle ambedue e portavano in quel salotto la luce che fino ad allora vi aveva mancato. Ambedue brune e alte e slanciate, ma molto differenti l’una dall’altra. Non era una scelta difficile quella che avevo da fare. Alberta aveva allora non più di diciasett’anni. Come la madre essa aveva – benché bruna – la pelle rosea e trasparente, ciò che aumentava l’infantilità del suo aspetto. Ada, invece, era già una donna con i suoi occhi serii in una faccia che per essere meglio nivea era un poco azzurra e la sua capigliatura ricca, ricciuta, ma accomodata con grazia e severità.

È difficile di scoprire le origini miti di un sentimento divenuto poi tanto violento, ma io sono certo che da me mancò il cosidetto coup de foudre per Ada. Quel colpo di fulmine, però, fu sostituito dalla convinzione ch’ebbi immediatamente che quella donna fosse quella di cui abbisognavo e che doveva addurmi alla salute morale e fisica per la santa monogamia. Quando vi ripenso resto sorpreso che sia mancato quel colpo di fulmine e che vi sia stata invece quella convinzione. È noto che noi uomini non cerchiamo nella moglie le qualità che adoriamo e disprezziamo nell’amante. Sembra dunque ch’io non abbia subito vista tutta la grazia e tutta la bellezza di Ada e che mi sia invece incantato ad ammirare altre qualità ch’io le attribuii di serietà e anche di energia, insomma, un po’ mitigate, le qualità ch’io amavo nel padre suo. Visto che poi credetti (come credo ancora) di non essermi sbagliato e che tali qualità Ada da fanciulla avesse possedute, posso ritenermi un buon osservatore ma un buon osservatore alquanto cieco. Quella prima volta io guardai Ada con un solo desiderio: quello di innamorarmene perché bisognava passare per di là per sposarla. Mi vi accinsi con quell’energia ch’io sempre dedico alle mie pratiche igieniche. Non so dire quando vi riuscii; forse già nel tempo relativamente piccolo di quella prima visita.

Giovanni doveva aver parlato molto di me alle figliuole sue. Esse sapevano, fra altro, ch’ero passato nei miei studii dalla facoltà di legge a quella di chimica per ritornare – pur troppo! – alla prima. Cercai di spiegare: era certo che quando ci si rinchiudeva in una facoltà, la parte maggiore dello scibile restava coperta dall’ignoranza. E dicevo:

– Se ora su di me non incombesse la serietà della vita, – e non dissi che tale serietà io la sentivo da poco tempo, dacché avevo risolto di sposarmi – io sarei passato ancora di facoltà in facoltà.

Poi, per far ridere, dissi ch’era curioso ch’io abbandonassi una facoltà proprio al momento di dare gli esami.

– Era un caso – dicevo col sorriso di chi vuol far credere che stia dicendo una bugia. E invece era vero ch’io avevo cambiato di studii nelle più varie stagioni.

Partii così alla conquista di Ada e continuai sempre nello sforzo di farla ridere di me e alle spalle mie dimenticando ch’io l’avevo prescelta per la sua serietà. Io sono un po’ bizzarro, ma a lei dovetti apparire veramente squilibrato. Non tutta la colpa è mia e lo si vede dal fatto che Augusta e Alberta, ch’io non avevo prescelte, mi giudicarono altrimenti. Ma Ada, che proprio allora era tanto seria da girare intorno i begli occhi alla ricerca dell’uomo ch’essa avrebbe ammesso nel suo nido, era incapace di amare la persona che la faceva ridere. Rideva, rideva a lungo, troppo a lungo e il suo riso copriva di un aspetto ridicolo la persona che l’aveva provocato. La sua era una vera inferiorità e doveva finire col danneggiarla, ma danneggiò prima me. Se avessi saputo tacere a tempo forse le cose sarebbero andate altrimenti. Intanto le avrei lasciato il tempo perché parlasse lei, mi si rivelasse e potessi guardarmene.

Le quattro fanciulle erano sedute sul piccolo sofà sul quale stavano a stento ad onta che Anna sedesse sulle ginocchia di Augusta. Erano belle così insieme. Lo constatai con un’intima soddisfazione vedendo ch’ero avviato magnificamente all’ammirazione e all’amore. Veramente belle! Il colore sbiadito di Augusta serviva a dare rilievo al color bruno delle capigliature delle altre.

Io avevo parlato dell’Università e Alberta, che stava facendo il penultimo anno del ginnasio, raccontò dei suoi studii. Si lamentò che il latino le riusciva molto difficile. Dissi di non meravigliarmene perché era una lingua che non faceva per le donne, tanto ch’io pensavo che già dagli antichi romani le donne avessero parlato l’italiano. Invece per me – asserii – il latino aveva rappresentata la materia prediletta. Poco dopo però commisi la leggerezza di fare una citazione latina che Alberta dovette correggermi. Un vero infortunio! Io non vi diedi importanza e avvertii Alberta che quando essa avesse avuto dietro di sé una diecina di semestri d’Università, anche lei avrebbe dovuto guardarsi dal fare citazioni latine.

Ada che recentemente era stata col padre per qualche mese in Inghilterra, raccontò che in quel paese molte fanciulle sapevano il latino. Poi sempre con la sua voce seria, aliena da ogni musicalità, un po’ più bassa di quella che si sarebbe aspettata dalla sua gentile personcina, raccontò che le donne in Inghilterra erano tutt’altra cosa che da noi. S’associavano per scopi di beneficenza, religiosi o anche economici. Ada veniva spinta a parlare dalle sorelle che volevano riudire quelle cose che apparivano meravigliose a fanciulle della nostra città in quell’epoca. E, per compiacerle, Ada raccontò di quelle donne presidentesse, giornaliste, segretarie e propagandiste politiche che salivano il pulpito per parlare a centinaia di persone senz’arrossire e senza confondersi quando venivano interrotte o vedevano confutati i loro argomenti. Diceva semplicemente, con poco colore, senz’alcuna intenzione di far meravigliare o ridere.

Io amavo la sua parola semplice, io, che come aprivo la bocca svisavo cose o persone perché altrimenti mi sarebbe sembrato inutile di parlare. Senz’essere un oratore, avevo la malattia della parola. La parola doveva essere un avvenimento a sé per me e perciò non poteva essere imprigionata da nessun altro avvenimento.

Ma io avevo uno speciale odio per la perfida Albione e lo manifestai senza temere di offendere Ada che del resto non aveva manifestato né odio né amore per l’Inghilterra. Io vi avevo trascorso alcuni mesi, ma non vi avevo conosciuto alcun inglese di buona società visto che avevo smarrite in viaggio alcune lettere di presentazione ottenute da amici d’affari di mio padre. A Londra perciò avevo praticato solo alcune famiglie francesi ed italiane e finito col pensare che tutte le persone dabbene in quella città provenissero dal continente. La mia conoscenza dell’inglese era molto limitata. Con l’aiuto degli amici potei tuttavia intendere qualche cosa della vita di quegl’isolani e sopra tutto fui informato della loro antipatia per tutti i non inglesi.

Descrissi alle fanciulle il sentimento poco gradevole che mi veniva dal soggiorno in mezzo a nemici. Avrei però resistito e sopportata l’Inghilterra per quei sei mesi che mio padre e l’Olivi volevano infliggermi acciocché studiassi il commercio inglese (in cui intanto non m’imbattei mai perché pare si faccia in luoghi reconditi) se non mi fosse toccata un’avventura sgradevole. Ero andato da un libraio a cercare un vocabolario. In quel negozio, sul banco, riposava sdraiato un grosso, magnifico gatto àngora che proprio attirava le carezze sul soffice pelo. Ebbene! Solo perché dolcemente l’accarezzai, esso proditoriamente m’assaltò e mi graffiò malamente le mani. Da quel momento non seppi più sopportare l’Inghilterra e il giorno appresso mi trovavo a Parigi.

Augusta, Alberta e anche la signora Malfenti risero di cuore. Ada invece era stupita e credeva di avere frainteso. Era stato almeno il libraio stesso che m’aveva offeso e graffiato? Dovetti ripetermi, ciò ch’è noioso perché si ripete male.

Alberta, la dotta, volle aiutarmi:

– Anche gli antichi si lasciavano dirigere nelle loro decisioni dai movimenti degli animali.

Non accettai l’aiuto. Il gatto inglese non s’era mica atteggiato ad oracolo; aveva agito da fato!

Ada, coi grandi occhi spalancati, volle delle altre spiegazioni:

– E il gatto rappresentò per voi l’intero popolo inglese?

Com’ero sfortunato! Per quanto vera, quell’avventura a me era parsa istruttiva e interessante come se a scopi precisi fosse stata inventata. Per intenderla non bastava ricordare che in Italia dove conosco ed amo tanta gente, l’azione di quel gatto non avrebbe potuto assurgere a tale importanza? Ma io non dissi questo e dissi invece:

– È certo che nessun gatto italiano sarebbe capace di una tale azione.

Ada rise a lungo, molto a lungo. Mi parve persino troppo grande il mio successo perché m’immiserii e immiserii la mia avventura con ulteriori spiegazioni:

– Lo stesso libraio fu stupito del contegno del gatto che con tutti gli altri si comportava bene. L’avventura toccò a me perché ero io o forse perché ero italiano. It was really disgusting e dovetti fuggire.

Qui avvenne qualche cosa che pur avrebbe dovuto avvisarmi e salvarmi. La piccola Anna che fino ad allora era rimasta immota ad osservarmi, a gran voce si diede ad esprimere il sentimento di Ada. Gridò:

– È vero ch’è pazzo, pazzo del tutto?

La signora Malfenti la minacciò:

– Vuoi stare zitta? Non ti vergogni d’ingerirti nei discorsi dei grandi?

La minaccia fece peggio. Anna gridò:

– È pazzo! Parla coi gatti! Bisognerebbe procurarsi subito delle corde per legarlo!

Augusta, rossa dal dispiacere, si alzò e la portò via ammonendola e domandandomi nello stesso tempo scusa. Ma ancora alla porta la piccola vipera poté fissarmi negli occhi, farmi una brutta smorfia e gridarmi.

– Vedrai che ti legheranno!

Ero stato assaltato tanto impensatamente che non subito seppi trovare il modo di difendermi. Mi sentii però sollevato all’accorgermi che anche Ada era dispiacente di veder dare espressione a quel modo al suo proprio sentimento. L’impertinenza della piccina ci riavvicinava.

Raccontai ridendo di cuore ch’io a casa possedevo un certificato regolarmente bollato che attestava in tutte le forme la mia sanità di mente. Così appresero del tiro che avevo giocato al mio vecchio padre. Proposi di produrre quel certificato alla piccola Annuccia.

Quando accennai di andarmene non me lo permisero. Volevano che prima dimenticassi i graffi inflittimi da quell’altro gatto. Mi trattennero con loro, offrendomi una tazza di tè.

È certo ch’io oscuramente sentii subito che per esser gradito da Ada avrei dovuto essere un po’ differente di quanto ero; pensai che mi sarebbe stato facile di divenire quale essa mi voleva. Si continuò a parlare della morte di mio padre e a me parve che rivelando il grande dolore che tuttavia mi pesava, la seria Ada avrebbe potuto sentirlo con me. Ma subito, nello sforzo di somigliarle, perdetti la mia naturalezza e perciò da lei – come si vide subito – m’allontanai. Dissi che il dolore per una simile perdita era tale che se io avessi avuto dei figliuoli avrei cercato di fare in modo che m’amassero meno per risparmiare loro più tardi di soffrire tanto per la mia dipartita. Fui un poco imbarazzato quando mi domandarono in qual modo mi sarei comportato per raggiungere tale scopo. Maltrattarli e picchiarli? Alberta, ridendo, disse:

– Il mezzo più sicuro sarebbe di ucciderli.

Vedevo che Ada era animata dal desiderio di non spiacermi. Perciò esitava; ma ogni suo sforzo non poteva condurla oltre l’esitazione. Poi disse che vedeva ch’era per bontà ch’io pensavo di organizzare così la vita dei miei figliuoli, ma che non le pareva giusto di vivere per prepararsi alla morte. M’ostinai e asserii che la morte era la vera organizzatrice della vita. Io sempre alla morte pensavo e perciò non avevo che un solo dolore: La certezza di dover morire. Tutte le altre cose divenivano tanto poco importanti che per esse non avevo che un lieto sorriso o un riso altrettanto lieto. M’ero lasciato trascinare a dire delle cose ch’erano meno vere, specie trovandomi con lei, una parte della mia vita già tanto importante. In verità io credo di averle parlato così per il desiderio di farle sapere ch’io ero un uomo tanto lieto. Spesso la lietezza m’aveva favorito con le donne.

Pensierosa ed esitante, essa mi confessò che non amava uno stato d’animo simile. Diminuendo il valore della vita, si rendeva questa anche più pericolante di quanto madre natura avesse voluto. Veramente ella m’aveva detto che non facevo per lei, ma ero tuttavia riuscito a renderla esitante e pensierosa e mi parve un successo.

Alberta citò un filosofo antico che doveva somigliarmi nell’interpretazione della vita e Augusta disse che il riso era una gran bella cosa. Anche suo padre ne era ricco.

– Perché gli piacciono i buoni affari – disse la signora Malfenti ridendo.

Interruppi finalmente quella visita memoranda.

Non v’è niente di più difficile a questo mondo che di fare un matrimonio proprio come si vuole. Lo si vede dal caso mio ove la decisione di sposarmi aveva preceduto di tanto la scelta della fidanzata. Perché non andai a vedere tante e tante ragazze prima di sceglierne una? No! Pareva proprio mi fosse spiaciuto di vedere troppe donne e non volli faticare. Scelta la fanciulla, avrei anche potuto esaminarla un po’ meglio e accertarmi almeno ch’essa sarebbe stata disposta di venirmi incontro a mezza strada come si usa nei romanzi d’amore a conclusione felice. Io, invece, elessi la fanciulla dalla voce tanto grave e dalla capigliatura un po’ ribelle, ma assettata severamente e pensai che, tanto seria, non avrebbe rifiutato un uomo intelligente, non brutto, ricco e di buona famiglia come ero io. Già alle prime parole che scambiammo sentii qualche stonatura, ma la stonatura è la via all’unisono. Devo anzi confessare che pensai: «Ella deve rimanere quale è, poiché così mi piace e sarò io che mi cambierò se essa lo vorrà». In complesso ero ben modesto perché è certamente più facile di mutare sé stesso che non di rieducare altri.

Dopo brevissimo tempo la famiglia Malfenti divenne il centro della mia vita. Ogni sera la passavo con Giovanni che, dopo che m’aveva introdotto in casa sua, s’era fatto con me anche più affabile e intimo. Fu tale affabilità che mi rese invadente. Dapprima feci visita alle sue signore una volta alla settimana, poi più volte e finii coll’andare in casa sua ogni giorno a passarci varie ore del pomeriggio. Per insediarmi in quella casa non mancarono pretesti ed io credo di non sbagliare asserendo che mi fossero anche offerti. Portai talvolta con me il mio violino e passai qualche poco di musica con Augusta, la sola che in quella casa sonasse il piano. Era male che Ada non sonasse, poi era male che io sonassi tanto male il violino e malissimo che Augusta non fosse una grande musicista. Di ogni sonata io ero obbligato di eliminare qualche periodo perché troppo difficile, col pretesto non vero di non aver toccato il violino da troppo tempo. Il pianista è quasi sempre superiore al dilettante violinista e Augusta aveva una tecnica discreta, ma io, che sonavo tanto peggio di lei, non sapevo dirmene contento e pensavo: «Se sapessi sonare come lei, come sonerei meglio!» Intanto ch’io giudicavo Augusta, gli altri giudicavano me e, come appresi più tardi, non favorevolmente. Poi Augusta avrebbe volentieri ripetute le nostre sonate, ma io m’accorsi che Ada vi si annoiava e perciò finsi più volte di aver dimenticato il violino a casa. Augusta allora non ne parlò più.

Purtroppo io non vivevo solo con Ada le ore che passavo in quella casa. Essa ben presto m’accompagnò il giorno intero. Era la donna da me prescelta, era perciò già mia ed io l’adornai di tutti i sogni perché il premio della vita m’apparisse più bello. L’adornai, le prestai tutte le tante qualità di cui sentivo il bisogno e che a me mancavano, perché essa doveva divenire oltre che la mia compagna anche la mia seconda madre che m’avrebbe addotto a una vita intera, virile, di lotta, e di vittoria.

Nei miei sogni anche fisicamente l’abellii prima di consegnarla ad altri. In realtà io nella mia vita corsi dietro a molte donne e molte di esse si lasciarono anche raggiungere. Nel sogno le raggiunsi tutte. Naturalmente non le abbellisco alterandone i tratti, ma faccio come un mio amico, pittore delicatissimo, che quando ritratta delle donne belle, pensa intensamente anche a qualche altra bella cosa per esempio a della porcellana finissima. Un sogno pericoloso perché può conferire nuovo potere alle donne di cui si sognò e che rivedendo alla luce reale conservano qualche cosa delle frutta, dei fiori e della porcellana da cui furono vestite.

M’è difficile di raccontare della mia corte ad Ada. Vi fu poi una lunga epoca della mia vita in cui io mi sforzai di dimenticare la stupida avventura che proprio mi faceva vergognare di quella vergogna che fa gridare e protestare. «Non sono io che fui tanto bestia!». E chi allora? Ma la protesta conferisce pure un po’ di sollievo ed io vi insistetti. Meno male se avessi agito a quel modo un dieci anni prima, a vent’anni! Ma esser stato punito di tanta bestialità solo perché avevo deciso di sposarmi, mi pare proprio ingiusto. Io che già ero passato per ogni specie di avventure condotte sempre con uno spirito intraprendente che arrivava alla sfacciataggine, ecco ch’ero ridivenuto il ragazzetto timido che tenta di toccar la mano dell’amata magari senza ch’essa se ne avveda, eppoi adora quella parte del proprio corpo ch’ebbe l’onore di simile contatto. Questa ch’è stata la più pura avventura della mia vita, anche oggi che son vecchio io la ricordo quale la più turpe. Era fuori di posto, fuori di tempo quella roba, come se un ragazzo di dieci anni si fosse attaccato al petto della balia. Che schifo!

Come spiegare poi la mia lunga esitazione di parlare chiaro e dire alla fanciulla: Risolviti! Mi vuoi o non mi vuoi? Io andavo a quella casa arrivandovi dai miei sogni; contavo gli scalini che mi conducevano a quel primo piano dicendomi che se erano dispari ciò avrebbe provato ch’essa m’amava ed erano sempre dispari essendovene quarantatré. Arrivavo a lei accompagnato da tanta sicurezza e finivo col parlare di tutt’altra cosa. Ada non aveva ancora trovata l’occasione di significarmi il suo disdegno ed io tacevo! Anch’io al posto di Ada avrei accolto quel giovinetto di trent’anni a calci nel sedere!

Devo dire che in certo rapporto io non somigliavo esattamente al ventenne innamorato il quale tace aspettando che l’amata gli si getti al collo. Non m’aspettavo niente di simile. Io avrei parlato, ma più tardi. Se non procedevo, ciò era dovuto ai dubbii su me stesso. Io m’aspettavo di divenire più nobile, più forte, più degno della mia divina fanciulla. Ciò poteva avvenire da un giorno all’altro. Perché non aspettare?

Mi vergogno anche di non essermi accorto a tempo ch’ero avviato ad un fiasco simile. Avevo da fare con una fanciulla delle più semplici e fu a forza di sognarne ch’essa m’apparì quale una civetta delle più consumate. Ingiusto quell’enorme mio rancore quand’essa riuscì a farmi vedere ch’essa di me non ne voleva sapere. Ma io avevo mescolato tanto intimamente la realtà ai sogni che non riuscivo a convincermi ch’essa mai m’avesse baciato.

È proprio un indizio di scarsa virilità quello di fraintendere le donne. Prima non avevo sbagliato mai e devo credere di essermi ingannato sul conto di Ada per avere da bel principio falsati i miei rapporti con lei. A lei m’ero avvicinato non per conquistarla ma per sposarla ciò ch’è una via insolita dell’amore, una via ben larga, una via ben comoda, ma che conduce non alla mèta per quanto ben vicino ad essa. All’amore cui così si giunge manca la caratteristica principale: l’assoggettamento della femmina. Così il maschio si prepara alla sua parte in una grande inerzia che può estendersi a tutti i suoi sensi, anche a quelli della vista e dell’udito.