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La coscienza di Zeno
La coscienza di Zeno
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La coscienza di Zeno

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Io portai giornalmente dei fiori a tutt’e tre le fanciulle e a tutt’e tre regalai le mie bizzarrie e, sopra tutto, con una leggerezza incredibile, giornalmente feci loro la mia autobiografia.

A tutti avviene di ricordarsi con più fervore del passato quando il presente acquista un’importanza maggiore. Dicesi anzi che i moribondi, nell’ultima febbre, rivedano tutta la loro vita. Il mio passato m’afferrava ora con la violenza dell’ultimo addio perché io avevo il sentimento di allontanarmene di molto. E parlai sempre di questo passato alle tre fanciulle, incoraggiato dall’attenzione intensa di Augusta e di Alberta che, forse, copriva la disattenzione di Ada di cui non sono sicuro. Augusta, con la sua indole dolce, facilmente si commoveva e Alberta stava a sentire le mie descrizioni di scapigliatura studentesca con le guancie arrossate dal desiderio di poter in avvenire passare anch’essa per avventure simili.

Molto tempo dopo appresi da Augusta che nessuna delle tre fanciulle aveva creduto che le mie storielle fossero vere. Ad Augusta apparvero perciò più preziose perché, inventate da me, le sembrava fossero più mie che se il destino me le avesse inflitte. Ad Alberta quella parte in cui non credette fu tuttavia gradevole perché vi scorse degli ottimi suggerimenti. La sola che si fosse indignata delle mie bugie fu la seria Ada. Coi miei sforzi a me toccava come a quel tiratore cui era riuscito di colpire il centro del bersaglio, però di quello posto accanto al suo.

Eppure in gran parte quelle storielle erano vere. Non so più dire in quanta parte perché avendole raccontate a tante altre donne prima che alle figlie del Malfenti, esse, senza ch’io lo volessi, si alterarono per divenire più espressive. Erano vere dal momento che io non avrei più saputo raccontarle altrimenti. Oggidì non m’importa di provarne la verità. Non vorrei disingannare Augusta che ama crederle di mia invenzione. In quanto ad Ada io credo che ormai ella abbia cambiato di parere e le ritenga vere.

Il mio totale insuccesso con Ada si manifestò proprio nel momento in cui giudicavo di dover finalmente parlar chiaro. Ne accolsi l’evidenza con sorpresa e dapprima con incredulità. Non era stata detta da lei una sola parola che avesse manifestata la sua avversione per me ed io intanto chiusi gli occhi per non vedere quei piccoli atti che non mi significavano una grande simpatia. Eppoi io stesso non avevo detta la parola necessaria e potevo persino figurarmi che Ada non sapesse ch’io ero là pronto per sposarla e potesse credere che io – lo studente bizzarro e poco virtuoso – volessi tutt’altra cosa.

Il malinteso si prolungava sempre a causa di quelle mie intenzioni troppo decisamente matrimoniali. Vero è che oramai desideravo tutta Ada cui avevo continuato a levigare assiduamente le guancie, a impicciolire le mani e i piedi e ad isveltire e affinare la taglia. La desideravo quale moglie e quale amante. Ma è decisivo il modo con cui si avvicina per la prima volta una donna.

Ora avvenne che per ben tre volte consecutive, in quella casa fossi ricevuto dalle altre due fanciulle. L’assenza di Ada fu scusata la prima volta con una visita doverosa, la seconda con un malessere e la terza non mi si disse alcuna scusa finché io, allarmato, non lo domandai. Allora Augusta, a cui per caso m’ero rivolto, non rispose. Rispose per lei Alberta ch’essa aveva guardata come per invocarne l’assistenza: Ada era andata da una zia.

A me mancò il fiato. Era evidente che Ada mi evitava. Il giorno prima ancora io avevo sopportata la sua assenza ed avevo anzi prolungata la mia visita sperando ch’essa pur avrebbe finito coll’apparire. Quel giorno, invece, restai ancora per qualche istante, incapace di aprir bocca, eppoi protestando un improvviso male di testa m’alzai per andarmene. Curioso che quella prima volta il più forte sentimento che sentissi allo scontrarmi nella resistenza di Ada fosse di collera e sdegno! Pensai anche di appellarmi a Giovanni per mettere la fanciulla all’ordine. Un uomo che vuole sposarsi è anche capace di azioni simili, ripetizioni di quelle dei suoi antenati.

Quella terza assenza di Ada doveva divenire anche più significativa. Il caso volle ch’io scoprissi ch’essa si trovava in casa, ma rinchiusa nella sua stanza.

Devo prima di tutto dire che in quella casa v’era un’altra persona ch’io non ero riuscito a conquistare: la piccola Anna. Dinanzi agli altri essa non m’aggrediva più, perché l’avevano redarguita duramente. Anzi qualche volta anch’essa s’era accompagnata alle sorelle ed era stata a sentire le mie storielle. Quando però me ne andavo, essa mi raggiungeva alla soglia, gentilmente mi pregava di chinarmi a lei, si rizzava sulle punte dei piedini e quando arrivava a far addirittura aderire la boccuccia al mio orecchio, mi diceva abbassando la voce in modo da non poter essere udita che da me:

– Ma tu sei pazzo, veramente pazzo!

Il bello si è che dinanzi agli altri la sorniona mi dava del lei. Se c’era presente la signora Malfenti, essa subito si rifugiava nelle sue braccia, e la madre l’accarezzava dicendo:

– Come la mia piccola Anna s’è fatta gentile! Nevvero?

Non protestavo e la gentile Anna mi diede ancora spesso allo stesso modo del pazzo. Io accoglievo la sua dichiarazione con un sorriso vile che avrebbe potuto sembrare di ringraziamento. Speravo che la bambina non avesse il coraggio di raccontare delle sue aggressioni agli adulti e mi dispiaceva di far sapere ad Ada quale giudizio facesse di me la sua sorellina. Quella bambina finì realmente coll’imbarazzarmi. Se, quando parlavo con gli altri, il mio occhio s’incontrava nel suo, subito dovevo trovare il modo di guardare altrove ed era difficile di farlo con naturalezza. Certo arrossivo. Mi pareva che quell’innocente col suo giudizio potesse danneggiarmi. Le portai dei doni, ma non valsero ad ammansarla. Essa dovette accorgersi del suo potere e della mia debolezza e, in presenza degli altri, mi guardava indagatrice, insolente. Credo che tutti abbiamo nella nostra coscienza come nel nostro corpo dei punti delicati e coperti cui non volentieri si pensa. Non si sa neppure che cosa sieno, ma si sa che vi sono. Io stornavo il mio occhio da quello infantile che voleva frugarmi.

Ma quel giorno in cui solo e abbattuto uscivo da quella casa e ch’essa mi raggiunse per farmi chinare a sentire il solito complimento, mi piegai a lei con tale faccia stravolta di vero pazzo e tesi verso di lei con tanta minaccia le mani contratte ad artigli, ch’essa corse via piangendo ed urlando.

Così arrivai a vedere Ada anche quel giorno perché fu lei che accorse a quei gridi. La piccina raccontò singhiozzando ch’io l’avevo minacciata duramente perché essa m’aveva dato del pazzo:

– Perché egli è un pazzo ed io voglio dirglielo. Cosa c’è di male?

Non stetti a sentire la bambina, stupito di vedere che Ada si trovava in casa. Le sue sorelle avevano dunque mentito, anzi la sola Alberta cui Augusta ne aveva passato l’incarico esimendosene essa stessa! Per un istante fui esattamente nel giusto indovinando tutto. Dissi ad Ada:

– Ho piacere di vederla. Credevo si trovasse da tre giorni da sua zia.

Ella non mi rispose perché dapprima si piegò sulla bambina piangente. Quell’indugio di ottenere le spiegazioni cui credevo di aver diritto mi fece salire veemente il sangue alla testa. Non trovavo parole. Feci un altro passo per avvicinarmi alla porta d’uscita e se Ada non avesse parlato, io me ne sarei andato e non sarei ritornato mai più. Nell’ira mi pareva cosa facilissima quella rinunzia ad un sogno che aveva oramai durato tanto a lungo.

Ma intanto essa, rossa, si volse a me e disse ch’era rientrata da pochi istanti non avendo trovata la zia in casa.

Bastò per calmarmi. Com’era cara, così maternamente piegata sulla bambina che continuava ad urlare! Il suo corpo era tanto flessibile che pareva divenuto più piccolo per accostarsi meglio alla piccina. Mi indugiai ad ammirarla considerandola di nuovo mia.

Mi sentii tanto sereno che volli far dimenticare il risentimento che poco prima avevo manifestato e fui gentilissimo con Ada ed anche con Anna. Dissi ridendo di cuore:

– Mi dà tanto spesso del pazzo che volli farle vedere la vera faccia e l’atteggiamento del pazzo. Voglia scusarmi! Anche tu, povera Annuccia, non aver paura perché io sono un pazzo buono.

Anche Ada fu molto, ma molto gentile. Redarguì la piccina che continuava a singhiozzare e mi domandò scusa per essa. Se avessi avuta la fortuna che Anna nell’ira fosse corsa via, io avrei parlato. Avrei detta una frase che forse si trova anche in qualche grammatica di lingue straniere, bell’e fatta per facilitare la vita a chi non conosca la lingua del paese ove soggiorna: «Posso domandare la sua mano a suo padre?». Era la prima volta ch’io volevo sposarmi e mi trovavo perciò in un paese del tutto sconosciuto. Fino ad allora avevo trattato altrimenti con le donne con cui avevo avuto a fare. Le avevo assaltate mettendo loro prima di tutto addosso le mani.

Ma non arrivai a dire neppure quelle poche parole. Dovevano pur stendersi su un certo spazio di tempo! Dovevano esser accompagnate da un’espressione supplice della faccia, difficile a foggiarsi immediatamente dopo la mia lotta con Anna ed anche con Ada, e dal fondo del corridoio s’avanzava già la signora Malfenti richiamata dalle strida della bambina.

Stesi la mano ad Ada, che mi porse subito cordialmente la sua e le dissi:

– Arrivederci domani. Mi scusi con la signora.

Esitai però di lasciar andare quella mano che riposava fiduciosa nella mia. Sentivo che, andandomene allora, rinunziavo ad un’occasione unica con quella fanciulla tutt’intenta ad usarmi delle cortesie per indennizzarmi delle villanie della sorella. Seguii l’ispirazione del momento, mi chinai sulla sua mano e la sfiorai con le mie labbra. Indi apersi la porta e uscii lesto lesto dopo di aver visto che Ada, che fino ad allora m’aveva abbandonata la destra mentre con la sinistra sosteneva Anna che s’aggrappava alla sua gonna, stupita si guardava la manina che aveva subito il contatto delle mie labbra, quasi avesse voluto vedere se ci fosse stato scritto qualche cosa. Non credo che la signora Malfenti avesse scorto il mio atto.

Mi arrestai per un istante sulle scale, stupito io stesso del mio atto assolutamente non premeditato. V’era ancora la possibilità di ritornare a quella porta che avevo chiusa dietro di me, suonare il campanello e domandar di poter dire ad Ada quelle parole ch’essa sulla propria mano aveva cercato invano? Non mi parve! Avrei mancato di dignità dimostrando troppa impazienza. Eppoi avendola prevenuta che sarei ritornato le avevo preannunziate le mie spiegazioni. Non dipendeva ora che da lei di averle, procurandomi l’opportunità di dargliele. Ecco che avevo finalmente cessato di raccontare delle storie a tre fanciulle e avevo invece baciata la mano ad una sola di esse.

Ma il resto della giornata fu piuttosto sgradevole. Ero inquieto e ansioso. Io andavo dicendomi che la mia inquietudine provenisse solo dall’impazienza di veder chiarita quell’avventura. Mi figuravo che se Ada m’avesse rifiutato, io avrei potuto con tutta calma correre in cerca di altre donne. Tutto il mio attaccamento per lei proveniva da una mia libera risoluzione che ora avrebbe potuto essere annullata da un’altra che la cancellasse! Non compresi allora che per il momento a questo mondo non v’erano altre donne per me e che abbisognavo proprio di Ada.

Anche la notte che seguì mi sembrò lunghissima; la passai quasi del tutto insonne. Dopo la morte di mio padre, io avevo abbandonate le mie abitudini di nottambulo e ora, dacché avevo risolto di sposarmi, sarebbe stato strano di ritornarvi. M’ero perciò coricato di buon’ora col desiderio del sonno che fa passare tanto presto il tempo.

Di giorno io avevo accolte con la più cieca fiducia le spiegazioni di Ada su quelle sue tre assenze dal suo salotto nelle ore in cui io vi era, fiducia dovuta alla mia salda convinzione che la donna seria ch’io avevo scelta non sapesse mentire. Ma nella notte tale fiducia diminuì. Dubitavo che non fossi stato io ad informarla che Alberta – quando Augusta aveva rifiutato di parlare – aveva addotta a sua scusa quella visita alla zia. Non ricordavo bene le parole che le avevo dirette con la testa in fiamme, ma credevo di esser certo di averle riferita quella scusa. Peccato! Se non l’avessi fatto, forse lei, per scusarsi, avrebbe inventato qualche cosa di diverso e io, avendola còlta in bugia, avrei già avuto il chiarimento che anelavo.

Qui avrei pur potuto accorgermi dell’importanza che Ada aveva oramai per me, perché per quietarmi io andavo dicendomi che se essa non m’avesse voluto, avrei rinunziato per sempre al matrimonio. Il suo rifiuto avrebbe dunque mutata la mia vita. E continuavo a sognare confortandomi nel pensiero che forse quel rifiuto sarebbe stato una fortuna per me. Ricordavo quel filosofo greco che prevedeva il pentimento tanto per chi si sposava quanto per chi restava celibe. Insomma non avevo ancora perduta la capacità di ridere della mia avventura; la sola capacità che mi mancasse era quella di dormire.

Presi sonno che già albeggiava. Quando mi destai era tanto tardi che poche ore ancora mi dividevano da quella in cui la visita in casa Malfenti m’era permessa. Perciò non vi sarebbe stato più bisogno di fantasticare e raccogliere degli altri indizii che mi chiarissero l’animo di Ada. Ma è difficile di trattenere il proprio pensiero dall’occuparsi di un argomento che troppo c’importa. L’uomo sarebbe un animale più fortunato se sapesse farlo. In mezzo alle cure della mia persona che quel giorno esagerai, io non pensai ad altro: Avevo fatto bene baciando la mano di Ada o avevo fatto male di non baciarla anche sulle labbra?

Proprio quella mattina ebbi un’idea che credo m’abbia fortemente danneggiato privandomi di quel poco d’iniziativa virile che quel mio curioso stato d’adolescenza m’avrebbe concesso. Un dubbio doloroso: e se Ada m’avesse sposato solo perché indottavi dai genitori, senz’amarmi ed anzi avendo una vera avversione per me? Perché certamente tutti in quella famiglia, cioè Giovanni, la signora Malfenti, Augusta e Alberta mi volevano bene; potevo dubitare della sola Ada. Sull’orizzonte si delineava proprio il solito romanzo popolare della giovinetta costretta dalla famiglia ad un matrimonio odioso. Ma io non l’avrei permesso. Ecco la nuova ragione per cui dovevo parlare con Ada, anzi con la sola Ada. Non sarebbe bastato di dirigerle la frase fatta che avevo preparata. Guardandola negli occhi le avrei domandato: «Mi ami tu?» E se essa m’avesse detto di sì, io l’avrei serrata fra le mie braccia per sentirne vibrare la sincerità.

Così mi parve d’essermi preparato a tutto. Invece dovetti accorgermi d’esser arrivato a quella specie d’esame dimenticando di rivedere proprio quelle pagine di testo di cui mi sarebbe stato imposto di parlare.

Fui ricevuto dalla sola signora Malfenti che mi fece accomodare in un angolo del grande salotto e si mise subito a chiacchierare vivacemente impedendomi persino di domandare delle notizie delle fanciulle. Ero perciò alquanto distratto e mi ripetevo la lezione per non dimenticarla al momento buono. Tutt’ad un tratto fui richiamato all’attenzione come da uno squillo di tromba. La signora stava elaborando un preambolo. M’assicurava dell’amicizia sua e del marito e dell’affetto di tutta la famiglia loro, compresavi la piccola Anna. Ci conoscevamo da tanto tempo. Ci eravamo visti giornalmente da quattro mesi.

– Cinque! – corressi io che ne avevo fatto il calcolo nella notte, ricordando che la mia prima visita era stata fatta d’autunno e che ora ci trovavamo in piena primavera.

– Sì! Cinque! – disse la signora pensandoci su come se avesse voluto rivedere il mio calcolo. Poi, con aria di rimprovero: – A me sembra che voi compromettiate Augusta.

– Augusta? – domandai io credendo di aver sentito male.

– Sì! – confermò la signora. – Voi la lusingate e la compromettete.

Ingenuamente rivelai il mio sentimento.

– Ma io l’Augusta non la vedo mai.

Essa ebbe un gesto di sorpresa e (o mi parve?) di sorpresa dolorosa.

Io intanto tentavo di pensare intensamente per arrivare presto a spiegare quello che mi sembrava un equivoco di cui però subito intesi l’importanza. Mi rivedevo in pensiero, visita per visita, durante quei cinque mesi, intento a spiare Ada. Avevo suonato con Augusta e, infatti, talvolta avevo parlato più con lei, che mi stava a sentire, che non con Ada, ma solo perché essa spiegasse ad Ada le mie storie accompagnate dalla sua approvazione. Dovevo parlare chiaramente con la signora e dirle delle mie mire su Ada? Ma poco prima io avevo risolto di parlare con la sola Ada e d’indagarne l’animo. Forse se avessi parlato chiaramente con la signora Malfenti, le cose sarebbero andate altrimenti e cioè non potendo sposare Ada non avrei sposata neppure Augusta. Lasciandomi dirigere dalla risoluzione presa prima ch’io avessi veduta la signora Malfenti e, sentite le cose sorprendenti ch’essa m’aveva dette, tacqui.

Pensavo intensamente, ma perciò con un po’ di confusione. Volevo intendere, volevo indovinare e presto. Si vedono meno bene le cose quando si spalancano troppo gli occhi. Intravvidi la possibilità che volessero buttarmi fuori di casa. Mi parve di poter escluderla. Io ero innocente, visto che non facevo la corte ad Augusta ch’essi volevano proteggere. Ma forse m’attribuivano delle intenzioni su Augusta per non compromettere Ada. E perché proteggere a quel modo Ada, che non era più una fanciullina? Io ero certo di non averla afferrata per le chiome che in sogno. In realtà non avevo che sfiorata la sua mano con le mie labbra. Non volevo mi si interdicesse l’accesso a quella casa, perché prima di abbandonarla volevo parlare con Ada. Perciò con voce tremante domandai:

– Mi dica Lei, signora, quello che debbo fare per non spiacere a nessuno.

Essa esitò. Io avrei preferito di aver da fare con Giovanni che pensava urlando. Poi, risoluta, ma con uno sforzo di apparire cortese che si manifestava evidente nel suono della voce, disse:

– Dovrebbe per qualche tempo venir meno frequentemente da noi; dunque non ogni giorno, ma due o tre volte alla settimana.

È certo che se mi avesse detto rudemente di andarmene e di non ritornare più, io, sempre diretto dal mio proposito, avrei supplicato che mi si tollerasse in quella casa, almeno per uno o due giorni ancora, per chiarire i miei rapporti con Ada. Invece le sue parole, più miti di quanto avessi temuto, mi diedero il coraggio di manifestare il mio risentimento:

– Ma se lei lo desidera, io in questa casa non riporrò più piede!

Venne quello che avevo sperato. Essa protestò, riparlò della stima di tutti loro e mi supplicò di non essere adirato con lei. Ed io mi dimostrai magnanimo, le promisi tutto quello ch’essa volle e cioè di astenermi dal venire in quella casa per un quattro o cinque giorni, di ritornarvi poi con una certa regolarità ogni settimana due o tre volte e, sopra tutto, di non tenerle rancore.

Fatte tali promesse, volli dar segno di tenerle e mi levai per allontanarmi. La signora protestò ridendo:

– Con me non c’è poi compromissione di sorta e può rimanere.

E poiché io pregavo di lasciarmi andare per un impegno di cui solo allora m’ero ricordato, mentre era vero che non vedevo l’ora di essere solo per riflettere meglio alla straordinaria avventura che mi toccava, la signora mi pregò addirittura di rimanere dicendo che così le avrei data la prova di non essere adirato con lei. Perciò rimasi, sottoposto continuamente alla tortura di ascoltare il vuoto cicaleccio cui la signora ora s’abbandonava sulle mode femminili ch’essa non voleva seguire, sul teatro e anche sul tempo tanto secco con cui la primavera s’annunziava.

Poco dopo fui contento d’essere rimasto perché m’avvidi che avevo bisogno di un ulteriore chiarimento. Senz’alcun riguardo interruppi la signora, di cui non sentivo più le parole, per domandarle:

– E tutti in famiglia sapranno che lei m’ha invitato a tenermi lontano da questa casa?

Parve dapprima ch’essa neppure avesse ricordato il nostro patto. Poi protestò:

– Lontano da questa casa? Ma solo per qualche giorno, intendiamoci. Io non ne dirò a nessuno, neppure a mio marito ed anzi le sarei grata se anche lei volesse usare la stessa discrezione.

Anche questo promisi, promisi anche che se mi fosse stata chiesta una spiegazione perché non mi si vedesse più tanto di spesso, avrei addotti dei pretesti varii. Per il momento prestai fede alle parole della signora e mi figurai che Ada potesse essere stupita e addolorata dalla mia improvvisa assenza. Un’immagine gradevolissima!

Poi rimasi ancora, sempre aspettando che qualche altra ispirazione venisse a dirigermi ulteriormente, mentre la signora parlava dei prezzi dei commestibili nell’ultimo tempo divenuti onerosissimi.

Invece di altre ispirazioni, capitò la zia Rosina, una sorella di Giovanni, più vecchia di lui, ma di lui molto meno intelligente. Aveva però qualche tratto della sua fisonomia morale bastevole a caratterizzarla quale sua sorella. Prima di tutto la stessa coscienza dei proprii diritti e dei doveri altrui alquanto comica, perché priva di qualsiasi arma per imporsi, eppoi anche il vizio di alzare presto la voce. Essa credeva di aver tanti diritti nella casa del fratello che – come appresi poi – per lungo tempo considerò la signora Malfenti quale un’intrusa. Era nubile e viveva con un’unica serva di cui parlava sempre come della sua più grande nemica. Quando morì raccomandò a mia moglie di sorvegliare la casa finché la serva che l’aveva assistita non se ne fosse andata. Tutti in casa di Giovanni la sopportavano temendo la sua aggressività.

Ancora non me ne andai. Zia Rosina prediligeva Ada fra le nipoti. Mi venne il desiderio di conquistarmene l’amicizia anch’io e cercai una frase amabile a indirizzarle. Mi ricordai oscuramente che l’ultima volta in cui l’avevo vista (cioè intravvista, perché allora non avevo sentito il bisogno di guardarla) le nipoti, non appena essa se ne era andata, avevano osservato che non aveva una buona cera. Anzi una di esse aveva detto:

– Si sarà guastato il sangue per qualche rabbia con la serva!

Trovai quello che cercavo. Guardando affettuosamente il faccione grinzoso della vecchia signora, le dissi:

– La trovo molto rimessa, signora.

Non avessi mai detta quella frase. Mi guardò stupita e protestò:

– Io sono sempre uguale. Da quando mi sarei rimessa?

Voleva sapere quando l’avessi vista l’ultima volta. Non ricordavo esattamente quella data e dovetti ricordarle che avevamo passato un intero pomeriggio insieme, seduti in quello stesso salotto con le tre signorine, ma non dalla parte dove eravamo allora, dall’altra. Io m’ero proposto di dimostrarle dell’interessamento, ma le spiegazioni ch’essa esigeva lo facevano durare troppo a lungo. La mia falsità mi pesava producendomi un vero dolore.

La signora Malfenti intervenne sorridendo:

– Ma lei non voleva mica dire che zia Rosina è ingrassata?

Diavolo! Là stava la ragione del risentimento di zia Rosina ch’era molto grossa come il fratello e sperava tuttavia di dimagrire.

– Ingrassata! Mai più! Io volevo parlare solo della cera migliore della signora.

Tentavo di conservare un aspetto affettuoso e dovevo invece trattenermi per non dirle un’insolenza.

Zia Rosina non parve soddisfatta neppur allora. Essa non era mai stata male nell’ultimo tempo e non capiva perché avesse dovuto apparire malata. E la signora Malfenti le diede ragione:

– Anzi, è una sua caratteristica di non mutare di cera – disse rivolta a me. – Non le pare?

A me pareva. Era anzi evidente. Me ne andai subito. Porsi con grande cordialità la mano a zia Rosina sperando di rabbonirla, ma essa mi concedette la sua guardando altrove.

Non appena ebbi varcata la soglia di quella casa il mio stato d’animo mutò. Che liberazione! Non avevo più da studiare le intenzioni della signora Malfenti né di forzarmi di piacere alla zia Rosina. Credo in verità che se non ci fosse stato il rude intervento di zia Rosina, quella politicona della signora Malfenti avrebbe raggiunto perfettamente il suo scopo ed io mi sarei allontanato da quella casa tutto contento di essere stato trattato bene. Corsi saltellando giù per le scale. Zia Rosina era stata quasi un commento della signora Malfenti. La signora Malfenti m’aveva proposto di restar lontano dalla sua casa per qualche giorno. Troppo buona la cara signora! Io l’avrei compiaciuta al di là delle sue aspettative e non m’avrebbe rivisto mai più! M’avevano torturato, lei, la zia ed anche Ada! Con quale diritto? Perché avevo voluto sposarmi? Ma io non ci pensavo più! Com’era bella la libertà!

Per un buon quarto d’ora corsi per le vie accompagnato da tanto sentimento. Poi sentii il bisogno di una libertà ancora maggiore. Dovevo trovare il modo di segnare in modo definitivo la mia volontà di non rimettere più il piede in quella casa. Scartai l’idea di scrivere una lettera con la quale mi sarei congedato. L’abbandono diveniva più sdegnoso ancora se non ne comunicavo l’intenzione. Avrei semplicemente dimenticato di vedere Giovanni e tutta la sua famiglia.

Trovai l’atto discreto e gentile e perciò un po’ ironico col quale avrei segnata la mia volontà. Corsi da un fioraio e scelsi un magnifico mazzo di fiori che indirizzai alla signora Malfenti accompagnato dal mio biglietto da visita sul quale non scrissi altro che la data. Non occorreva altro. Era una data che non avrei dimenticata più e non l’avrebbero dimenticata forse neppure Ada e sua madre: 5 Maggio, anniversario della morte di Napoleone.

Provvidi in fretta a quell’invio. Era importantissimo che giungesse il giorno stesso.

Ma poi? Tutto era fatto, tutto, perché non c’era più nulla da fare! Ada restava segregata da me con tutta la sua famiglia ed io dovevo vivere senza fare più nulla, in attesa che qualcuno di loro fosse venuto a cercarmi e darmi l’occasione di fare o dire qualche cosa d’altro.

Corsi al mio studio per riflettere e per rinchiudermi. Se avessi ceduto alla mia dolorosa impazienza, subito sarei ritornato di corsa a quella casa a rischio di arrivarvi prima del mio mazzo di fiori. I pretesti non potevano mancare. Potevo anche averci dimenticato il mio ombrello!

Non volli fare una cosa simile. Con l’invio di quel mazzo di fiori io avevo assunta una bellissima attitudine che bisognava conservare. Dovevo ora stare fermo, perché la prossima mossa toccava a loro.

Il raccoglimento ch’io mi procurai nel mio studiolo e da cui m’aspettavo un sollievo, chiarì solo le ragioni della mia disperazione che s’esasperò fino alle lagrime. Io amavo Ada! Non sapevo ancora se quel verbo fosse proprio e continuai l’analisi. Io la volevo non solo mia, ma anche mia moglie. Lei, con quella sua faccia marmorea sul corpo acerbo, eppoi ancora lei con la sua serietà, tale da non intendere il mio spirito che non le avrei insegnato, ma cui avrei rinunziato per sempre, lei che m’avrebbe insegnata una vita d’intelligenza e di lavoro. Io la volevo tutta e tutto volevo da lei. Finii col conchiudere che il verbo fosse proprio quello: Io amavo Ada.

Mi parve di aver pensata una cosa molto importante che poteva guidarmi. Via le esitazioni! Non importava più di sapere se ella mi amasse. Bisognava tentare di ottenerla e non occorreva più parlare con lei se Giovanni poteva disporne. Prontamente bisognava chiarire tutto per arrivare subito alla felicità o altrimenti dimenticare tutto e guarire. Perché avevo da soffrire tanto nell’attesa? Quando avessi saputo – e potevo saperlo solo da Giovanni – che io definitivamente avevo perduta Ada, almeno non avrei più dovuto lottare col tempo che sarebbe continuato a trascorrere lentamente senza ch’io sentissi il bisogno di sospingerlo. Una cosa definitiva è sempre calma perché staccata dal tempo.

Corsi subito in cerca di Giovanni. Furono due le corse. Una verso il suo ufficio situato in quella via che noi continuiamo a dire delle Case Nuove, perché così facevano i nostri antenati. Alte vecchie case che offuscano una via tanto vicina alla riva del mare poco frequentata all’ora del tramonto, e dove potei procedere rapido. Non pensai, camminando, che a preparare più brevemente che fosse possibile la frase che dovevo dirigergli. Bastava dirgli la mia determinazione di sposare sua figlia. Non avevo né da conquiderlo né da convincerlo. Quell’uomo d’affari avrebbe saputa la risposta da darmi non appena intesa la mia domanda. Mi preoccupava tuttavia la quistione se in un’occasione simile avrei dovuto parlare in lingua o in dialetto.

Ma Giovanni aveva già abbandonato l’ufficio e s’era recato al Tergesteo. Mi vi avviai. Più lentamente perché sapevo che alla Borsa dovevo attendere più tempo per potergli parlare da solo a solo. Poi, giunto in via Cavana, dovetti rallentare per la folla che ostruiva la stretta via. E fu proprio battendomi per passare traverso a quella folla, che ebbi finalmente come in una visione la chiarezza che da tante ore cercavo. I Malfenti volevano ch’io sposassi Augusta e non volevano ch’io sposassi Ada e ciò per la semplice ragione che Augusta era innamorata di me e Ada niente affatto. Niente affatto perché altrimenti non sarebbero intervenuti a dividerci. M’avevano detto ch’io compromettevo Augusta, ma era invece lei che si comprometteva amandomi. Compresi tutto in quel momento, con viva chiarezza, come se qualcuno della famiglia me l’avesse detto. E indovinai anche che Ada era d’accordo ch’io fossi allontanato da quella casa. Essa non m’amava e non m’avrebbe amato almeno finché la sorella sua m’avesse amato. Nell’affollata via Cavana avevo dunque pensato più dirittamente che nel mio studio solitario.

Oggidì, quando ritorno al ricordo di quei cinque giorni memorandi che mi condussero al matrimonio, mi stupisce il fatto che il mio animo non si sia mitigato all’apprendere che la povera Augusta mi amava. Io, ormai scacciato da casa Malfenti, amavo Ada irosamente. Perché non mi diede alcuna soddisfazione la visione chiara che la signora Malfenti m’aveva allontanato invano, perché io in quella casa rimanevo, e vicinissimo ad Ada, cioè nel cuore di Augusta? A me pareva invece una nuova offesa l’invito della signora Malfenti di non compromettere Augusta e cioè di sposarla. Per la brutta fanciulla che m’amava, avevo tutto il disdegno che non ammettevo avesse per me la sua bella sorella, che io amavo.

Accelerai ancora il passo, ma deviai e mi diressi verso casa mia. Non avevo più bisogno di parlare con Giovanni perché sapevo ormai chiaramente come condurmi; con un’evidenza tanto disperante che forse finalmente m’avrebbe data la pace staccandomi dal tempo troppo lento. Era anche pericoloso parlarne con quel maleducato di Giovanni. La signora Malfenti aveva parlato in modo ch’io non l’avevo intesa che là in via Cavana. Il marito era capace di comportarsi altrimenti. Forse m’avrebbe detto addirittura: «Perché vuoi sposare Ada? Vediamo! Non faresti meglio di sposare Augusta?». Perché egli aveva un assioma che ricordavo e che avrebbe potuto guidarlo in questo caso: «Devi sempre spiegare chiaramente l’affare al tuo avversario perché allora appena sarai sicuro d’intenderlo meglio di lui!». E allora? Ne sarebbe conseguita un’aperta rottura. Solo allora il tempo avrebbe potuto camminare come voleva, perché io non avrei più avuta alcuna ragione d’ingerirmene: sarei arrivato al punto fermo!

Ricordai anche un altro assioma di Giovanni e mi vi attaccai perché mi procurava una grande speranza. Seppi restarvi attaccato per cinque giorni, per quei cinque giorni che convertirono la mia passione in malattia. Giovanni soleva dire che non bisogna aver fretta di arrivare alla liquidazione di un affare quando da questa liquidazione non si può attendersi un vantaggio: ogni affare arriva prima o poi da sé alla liquidazione, come lo prova il fatto che la storia del mondo è tanto lunga e che tanto pochi affari sono rimasti in sospeso. Finché non si è proceduti alla sua liquidazione, ogni affare può ancora evolversi vantaggiosamente.

Non ricordai che v’erano altri assiomi di Giovanni che dicevano il contrario e m’attaccai a quello. Già a qualche cosa dovevo pur attaccarmi. Feci il proposito ferreo di non movermi finché non avessi appreso che qualche cosa di nuovo avesse fatto evolvere il mio affare in mio favore. E ne ebbi tale danno che forse per questo, in seguito, nessun mio proposito m’accompagnò per tanto tempo.

Non appena fatto il proposito, ricevetti un biglietto dalla signora Malfenti. Ne riconobbi la scrittura sulla busta e, prima di aprirlo, mi lusingai fosse bastato quel mio proposito ferreo, perché essa si pentisse di avermi maltrattato e mi corresse dietro. Quando trovai che non conteneva che le lettere p. r. che significavano il ringraziamento per i fiori che le avevo inviati, mi disperai, mi gettai sul mio letto e ficcai i denti nel guanciale quasi per inchiodarmivi e impedirmi di correr via a rompere il mio proposito. Quanta ironica serenità risultava da quelle iniziali! Ben maggiore di quella espressa dalla data ch’io avevo apposta al mio biglietto e che significava già un proposito e forse anche un rimprovero. Remember aveva detto Carlo I. prima che gli tagliassero il collo e doveva aver pensata la data di quel giorno! Anch’io avevo esortata la mia avversaria a ricordare e temere!

Furono cinque giorni e cinque notti terribili ed io ne sorvegliai le albe e i tramonti che significavano fine e principio e avvicinavano l’ora della mia libertà, la libertà di battermi di nuovo per il mio amore.

Mi preparavo a quella lotta. Oramai sapevo come la mia fanciulla voleva io fossi fatto. M’è facile di ricordarmi dei propositi che feci allora, prima di tutto perché ne feci d’identici in epoca più recente, eppoi perché li annotai su un foglio di carta che conservo tuttora. Mi proponevo di diventare più serio. Ciò significava allora di non raccontare quelle barzellette che facevano ridere e mi diffamavano, facendomi anche amare dalla brutta Augusta e disprezzare dalla mia Ada. Poi v’era il proponimento di essere ogni mattina alle otto nel mio ufficio che non vedevo da tanto tempo, non per discutere sui miei diritti con l’Olivi, ma per lavorare con lui e poter assumere a suo tempo la direzione dei miei affari. Ciò doveva essere attuato in un’epoca più tranquilla di quella, come dovevo anche cessar di fumare più tardi, cioè quando avessi riavuta la mia libertà, perché non bisognava peggiorare quell’orribile intervallo. Ad Ada spettava un marito perfetto. Perciò v’erano anche varii proponimenti di dedicarmi a letture serie, eppoi di passare ogni giorno una mezz’oretta sulla pedana e di cavalcare un paio di volte alla settimana. Le ventiquattr’ore della giornata non erano troppe.

Durante quei giorni di segregazione la gelosia più amara fu la mia compagna di tutte le ore. Era un proposito eroico quello di voler correggersi di ogni difetto per prepararsi a conquistare Ada dopo qualche settimana. Ma intanto? Intanto ch’io m’assoggettavo alla più dura constrizione, si sarebbero tenuti tranquilli gli altri maschi della città e non avrebbero cercato di portarmi via la mia donna? Fra di loro v’era certamente qualcuno che non aveva bisogno di tanto esercizio per essere gradito. Io sapevo, io credevo di sapere che quando Ada avesse trovato chi faceva al caso suo, avrebbe subito consentito senza attendere di innamorarsi. Quando in quei giorni io m’imbattevo in un maschio ben vestito, sano e sereno, l’odiavo, perché mi pareva facesse al caso di Ada. Di quei giorni, la cosa che meglio ricordo è la gelosia che s’era abbassata come una nebbia sulla mia vita.

Dell’atroce dubbio di vedermi portar via Ada in quei giorni non si può ridere, ormai che si sa come le cose andarono a finire. Quando ripenso a quei giorni di passione sento un’ammirazione grande per la profetica anima mia.

Varie volte, di notte, passai sotto alle finestre di quella casa. Lassù apparentemente continuavano a divertirsi come quando c’ero stato anch’io. Alla mezzanotte o poco prima, nel salotto si spegnevano i lumi. Scappavo pel timore di essere scorto da qualche visitatore che allora doveva lasciare la casa.

Ma ogni ora di quei giorni fu affannosa anche per l’impazienza. Perché nessuno domandava di me? Perché non si moveva Giovanni? Non doveva egli meravigliarsi di non vedermi né a casa sua né al Tergesteo? Dunque era d’accordo anche lui ch’io fossi stato allontanato? Interrompevo spesso le mie passeggiate di giorno e di notte per correre a casa ad accertarmi che nessuno fosse venuto a domandare di me. Non sapevo andare a letto nel dubbio, e destavo per interrogarla la povera Maria. Restavo per ore ad aspettare in casa, nel luogo ove ero più facilmente raggiungibile. Ma nessuno domandò di me ed è certo che se non mi fossi risolto a movermi io, sarei tuttavia celibe.