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Zenith
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«Sei sicuro?» gli chiesi. «Non direi». «Perfetto». Ripresi la via. Questa volta la prima anima se ne restò ferma ad aspettare.

* * *

Le nuvole avevano ripreso ad ammassarsi nel cielo sopra la statale srotolata dai contorni vaghi di una città lontana come un lungo tappeto d’asfalto steso in un saliscendi infinito verso la notte. Camminavo affianco al guardrail con gli occhi puntati a terra e calciavo una pietra per farla rotolare in salita. Continuavo a strofinarmi le mani per il freddo.

Non avevo mai avuto un'allucinazione così realistica. In realtà non avevo mai avuto alcuna allucinazione, neppure quando da piccolo lo schienale della sella della bici di un mio amico si era infilato nel manubrio della mia bici mentre impennava e tornando a terra mi aveva catapultato all'indietro facendomi svenire. Non lo so quanto ero stato vicino alla morte quella volta, ma ricordo soltanto un buio leggero e un silenzio di pace. Niente porci giganti o cose del genere. Niente colline tetre, niente anime da salvare per tornare alla vita.

Dietro un vecchio cancello arancione, una lampadina lasciata accesa illuminava i tavoli quadrati e le panche di legno accatastati nel cortile di una balera. Tristi triangoli colorati ondeggiavano nell’aria su un filo sospeso da una parte all’altra del cortile. Il buio si insinuava nei cunicoli contorti tra gli ulivi tutto intorno. Ogni tanto qualcosa si muoveva in mezzo all'erba della campagna. Lanciavo un'occhiata di sfuggita e andavo avanti. Una civetta si alzò in volo dalla chioma di un albero vicino, le grandi ali scure si distesero contro il cielo rossastro, facendomi finire al centro della strada. Mi chiedevo che fine aveva fatto il mondo. Colleterno, Domenico, Claudio, Paolo, i miei unici amici. I miei genitori. Mi chiedevo di Lei.

Mi chiedevo quanto fossero lontani e cosa stesse facendo ognuno di loro. Stavano dormendo di sicuro. Forse vagando attraverso i loro sogni, avrebbero potuto incrociare i miei e intravedermi, avremmo potuto incontrarci ancora. Oppure tutto iniziava davvero a finire e non avrei mai più visto nessuno di loro. Non si sopravvive a una cosa come quella che mi era capitata. Questo non era nient'altro che l'ultimo sogno di un uomo già morto, un film per un solo spettatore, un sogno vivido come un'altra forma di realtà viva dall'altra parte della notte. Mi sentivo perso in una solitudine definitiva, come quando avevo ascoltato per la prima volta quella tristissima canzone degli Smashing Pumpkins, For Martha, di un disco che Claudio aveva comprato da poco. Un incredibile senso di abbandono mi gelò per un attimo e mi fece salire le lacrime agli occhi. Ingoiai, mi strinsi a me, continuai a strisciare gli scarponi sull'asfalto.

Raggiunsi l’unico dosso visibile nel raggio di alcuni chilometri, subito dopo una stazione di servizio, e mi voltai indietro a guardare. Non c’erano fari in avvicinamento, tutto sembrava tranquillo. Mi appoggiai al guardrail col fondo dei jeans, ci sedetti sopra, poi presi a colpirlo a ritmo con i talloni. Tirai fuori tabacco, filtri e cartine. Nella leggera foschia che iniziava a sollevarsi dal terreno, mi venne in mente una storia che Domenico ci raccontava spesso. Diceva che era accaduta veramente, ma aveva tutte le caratteristiche di una leggenda metropolitana.

Una notte suo zio rientrava da un lungo viaggio in macchina con la famiglia. A un centinaio di chilometri da Torino trovarono un banco di nebbia fitta che li costrinse a una fila interminabile che andò avanti a passo d'uomo per più di un'ora. Lo zio guidava con la fronte attaccata al parabrezza, il volante schiacciato al petto e i tergicristalli che andavano al massimo per spingere via l'umidità che non smetteva di formarsi. I bambini erano terrorizzati, la moglie continuava a ripetergli di stare attento. La nebbia si infittiva come non avevano mai visto. Qualcuno davanti alla fila decise che non si poteva più proseguire, azionò le quattro frecce e si fermò a bordo strada. La fila si bloccò del tutto.

Dopo molto tempo, quando la nebbia iniziò a diradarsi, le macchine ripartirono una a una. Ripartì anche lui. Si rimise con il petto sul volante, azionò la freccia per superare e si lasciò distanziare dalla macchina che lo precedeva per avere la visibilità della corsia di sorpasso. L'aria diventava sempre più tersa, i nervi dello zio iniziarono a distendersi. Ma mentre accelerava per spostarsi di corsia, il busto di una donna apparve dalla strada, si alzò a sedere dall'asfalto e finì contro il paraurti.

Lo zio lanciò un urlo, sentì il tonfo del torace della donna che rimbalzava contro l'auto e quello della testa che si spappolava sull'asfalto. Inchiodò e scese per andare a vedere che cosa era successo, sicuro di aver avuto una specie di visione. Invece aveva visto bene. Una donna era davvero stesa lì a terra col cervello che tappezzava l'asfalto. Era una prostituta che era rimasta sul ciglio della strada per tutto il tempo in cui le auto si erano fermate per la nebbia. Aveva aspettato che ci fosse maggiore visibilità per poter passare e quando la nebbia aveva cominciato a dissolversi, si era incamminata, nello stesso momento in cui le auto erano ripartite. Le prime erano riuscite a schivarla, ma quella davanti allo zio di Domenico l'aveva investita senza ucciderla. A finirla era stato lui.

Accesi la sigaretta. L’intermittenza di due fari in lontananza segnalò l’arrivo di un’auto che saliva e scendeva lentamente una serie di cunette che precedevano il rettilineo prima del dosso. Aumentò la velocità quando si immise sul piano regolare e si tenne sulla linea centrale della strada finché non diventò continua.

Una seconda auto rischiarò la statale con i coni di luce dei fari che cambiavano angolazione per i continui colpi d’assestamento dati al volante dal guidatore. Percorse il tratto di cunette sobbalzando senza controllo e, in meno di niente, si mise in coda all’altra vettura. Il muso liftato di un’auto da corsa dava scatti nevrotici verso il centro strada per superare, senza riuscire a trovare lo spazio.

Saltai giù dal guardrail e raggiunsi il centro della strada, nel punto più alto del dosso. Mentre andavo, nella nebbia che saliva, guardai giù dall'altra parte. L’asfalto scendeva inclinandosi in una curva a neanche un centinaio di metri. Una debole luce si proiettò sulle frecce bianche dei cartelli neri in sequenza. Era tardi, ormai, per dare retta al dubbio che avessi scelto il posto peggiore per evitare l’impatto. L’auto di Ambrose si ricavò lo spazio a colpi di gas, l’altra si fece da parte. Dietro di me, il riflesso dei fari si intensificava sulla superficie bianca e nera dei cartelli. Il rumore che vibrava sul guardrail non era quello di un’auto.

Restai immobile a tirare dalla sigaretta e spingere fuori il fumo che si arrotolava nell’aria densa. La Porsche andava troppo forte. Avrei fatto la fine della prostituta del racconto di Domenico. Quando il paraurti di un enorme autotreno emerse dalla curva oltre il dosso, raggiunsi il bordo della strada più vicino, scavalcai il guardrail e mi allontanai di qualche metro. Poi mi girai.

Uno stridere di gomme squarciò l’aria, sormontato dalle urla dei clacson delle due auto e dal frastuono di quello dell’autotreno che sbandò in modo spaventoso per deviare. La cabina oscillò in cima alla salita, fuori dalla carreggiata, poi verso la strada, il rimorchio si sbilanciò in contrasto alla sterzata. Sembrava una bestia di dimensioni mastodontiche che inciampa e vacilla prima di crollare abbattuta.

La Porsche finì dritta contro l’angolo anteriore sinistro del muso dell’autotreno. L’onda d’urto che si propagò fece tremare l’aria, il tetto di chiome di alberi oltre la strada e le luci della stazione di servizio. Un unico mostro di ferraglia, vetro e gomma si spinse verso l’alto per la violenza, una serie a catena di scintillii investì l'ignara notte d’estate e una pioggia arcuata di detriti esplose, rimbalzando a decine di metri di distanza. Poi, trascinato dal contraccolpo del rimorchio, l’autotreno si inclinò sul fianco e si schiantò al terreno, strisciò per qualche metro e sbalzò a grande distanza quello che restava della Porsche. L’altra auto schizzò incolume sull’asfalto e inchiodò prima della curva oltre il dosso.

Aspettai che tutto si fermasse prima di attraversare la nube di terra sospesa nella foschia e innalzata dal telone del rimorchio. Mi misi sulla strada, cercai l’auto di Ambrose. La gente era venuta fuori dalla stazione di servizio, a piedi, si era fermata a vedere. Alcuni si passavano le mani sulla testa, altri cercavano di spiegare a quelli che avevano accanto, qualcuno correva avanti e indietro per capire cosa fare. Vedevo le loro ombre muoversi attraverso il filtro bianco della nebbia. Dall’altra parte, nell’auto in discesa illuminata a intermittenza dalle quattro frecce, una figura se ne stava seduta con il volto nelle mani, mentre qualcuno veniva fuori, guardava la strada e attraversava di corsa. La sua voce mi raggiunse prima di lui.

«Mi ha superato sul dosso. Ho detto “Questo è pazzo!”, non credevo che…» il ragazzo si schiantò i pugni sulle cosce «Avrei dovuto rallentare, avrei dovuto lasciarlo passare» iniziò a disperarsi piegandosi in due con una mano sugli occhi.

Andai a prenderlo per un braccio, lo trascinai verso la cabina dell’autotreno. Ci affacciammo a guardare. L’uomo al suo interno se ne stava col tronco tenuto al sedile dalla cintura di sicurezza, la testa riversa da un lato e un rivolo di sangue che si allungava dalla stempiatura tra i capelli verso il basso.

L’hai fatto secco, bella prova.

Dopo qualche secondo iniziò a muoversi e si liberò dalla cintura. Si toccò la ferita e cercò di capire cosa fosse successo, mettendosi in piedi oltre il parabrezza come dietro una teca di vetro attraversata dalle crepe che si diramavano.

«Tiriamolo fuori» dissi.

Feci cenno all’uomo di allontanarsi, mi ficcai la sigaretta tra i denti, piantai la suola della scarpa su una crepa e la mossi piano avanti e indietro, allontanando subito la gamba. Il vetro venne giù un pezzo alla volta. Il ragazzo accanto a me allungò una mano. L’uomo la prese, scavalcò quel che restava del parabrezza ed ebbe un mancamento. Lo trasportammo vicino all’auto del ragazzo, stendendolo oltre il ciglio della strada, al riparo, sotto il guardrail. La ragazza che se n’era stata per tutto il tempo all’interno della macchina scese velocemente.

«È vivo?» chiese.

«È vivo, sì, è vivo» rispose il ragazzo. La strinse e le baciò una guancia quando lei iniziò a piangere.

«Dobbiamo estrarre l’altro uomo» si rivolse poi a me.

La ragazza si chinò sul corpo del ferito. Il suo modo di osservarlo, mentre ravviava i capelli dietro il piccolo orecchio, la delicatezza e la spontaneità con cui la sua mano scivolava tra le mani dell’uomo, stringendone una, mi fece provare qualcosa di strano. Nonostante fossero due sconosciuti, per lei adesso quell'uomo era la cosa più importante al mondo. Avrei voluto sentirmi così anch’io, una sola volta, per qualcuno. Avrei voluto essere l’uomo ferito sul ciglio della strada e che Lei fosse la ragazza piegata su di me. Indietreggiai di qualche passo, poi mi voltai risalendo verso il dosso e mi incamminai in discesa. Lanciai via la sigaretta.

Mi fermai davanti a quella che fino a poco prima era stata una Porsche Boxster grigio metallizzato. Gli uomini della stazione di servizio venivano in fretta verso di noi, ma si fermarono di colpo quando il fuoco divampò intorno alla carrozzeria. Per quello che era stata pagata.

«Gli estintori» urlò qualcuno e corsero tutti indietro.

Cercai il corpo con lo sguardo, sembrava che fosse stato inghiottito dal mostro di lamiere. Poi vidi qualcosa. Un occhio, disumanamente spalancato, rivolto nella mia direzione. Intorno a quell’occhio ricostruii i contorni del viso deformato con le labbra aperte all’inverosimile. L’altra metà del volto era completamente schiacciata sul cruscotto spinto contro i sedili anteriori in pelle rossa. Aggrottai le sopracciglia e tesi un orecchio. Il sottofondo irreale di I wanna be adored, una vecchia canzone degli Stone Roses, veniva fuori dallo stereo che funzionava ancora.

Una pozza di sangue si ampliava a pochi centimetri dalle mie scarpe, come se stesse cercando di raggiungermi. Le gocce, lunghe e fluide, fuoriuscivano dalla base dello sportello chiuso. Immersi un piede nel sangue, camminai nel cono visivo di quell’unico occhio. Mi chiesi se quella che osservavo, al di là del terrore che mostrava, fosse o meno un’espressione interrogativa nel crepitio della plastica che bolliva.

Il riflesso sulla punta piatta del naso di Ambrose si allargò, il bagliore aumentò in un attimo. Scoppiai a ridere senza riuscire a trattenermi. Poi alzai le braccia per coprirmi il volto. Se l’occhio di Ambrose aveva ancora la capacità di vedere, la mia immagine che rideva fu l’ultima cosa che restò impressa nella sua retina. Nell’arco di un solo secondo, una nuova vampata devastò la notte, mischiando sangue, abiti e lamiere, fumo e vite spezzate e avvolgendomi in un vortice di dolore abbagliante che rase al suolo tutto quello che c’era intorno. Mi contorsi per un tempo infinito in quel dolore indescrivibile.

Capitolo 4

Alzai la testa verso il volto della ragazza vestita di bianco. Sembrava serio e preoccupato. Vecchio. Il suo seno si era nuovamente riempito, il suo corpo aveva ripreso le forme morbide che aveva prima dell’arrivo di Ambrose. Infilai il mento nel collo della felpa, con le mani nelle tasche senza neppure ascoltare quello che stava dicendo. Non mi ero mai sentito così perso dentro me stesso come quando avevo attraversato il buio ricolmo di semisfere sospese e il corridoio oscuro per tornare alla collina. La mia essenza altalenava tra esaltazione e frustrazione in un continuo trasfigurare senza forma. Vedevo pezzi di verità e non una verità completa, mi sembrava di arrivare a una meta, poi venivo risucchiato via, tornando al punto di partenza, senza riuscire a tenere il controllo di quella che era per davvero la mia volontà. Non avevo una volontà.

Scossi la testa in risposta alla domanda che indirettamente mi ponevano gli sguardi delle tre figure. Chiusi gli occhi, senza dire una parola. Cercavo di accantonare il ricordo di ciò che era accaduto. Proteggevo la mia scelta con il silenzio o qualcosa del genere. Salvare qualcuno non aveva senso. Non sarebbe cambiato nulla, si sarebbe solo protratto un altro egoismo personale. Il mondo non avrebbe sentito la mancanza di Ambrose e al mondo non eravamo utili né io, né tutti quelli che sarebbero arrivati quella notte. Rappresentavamo la stupidità della vita, una speranza che, come tutte le inutili speranze, non sarebbe mai arrivata a niente di concreto. Eravamo evanescenti. Il ruolo che ci spettava era quello di spettri che non appartenevano più al mondo. Che, forse, non gli erano mai appartenuti.

Vidi il grande braccio piegarsi lentamente, fino a portare la piattaforma dall’aspetto di una mano al terreno. La ragazza vestita di nero, la Pura Verità, scese, raggiunse il ragazzo, gli mise una mano sulla spalla mentre lui immergeva con apparente disperazione la faccia tra le mani. Improvvisamente mi sembrò di sentire freddo.

Ambrose fu accompagnato in una lenta passeggiata verso la torre. Si voltò per un’ultima volta a guardarmi, a guardare il buio che era stato la sua vita. Forse rimpianse qualcosa, forse la morte gli era servita di più che l’esistenza stessa. Poi la ragazza lo spinse dentro, con tatto, quasi con compassione.

Dopo un lungo tempo inciso dalle crepe di un silenzio funebre, scese lei sola dalla torre marcescente. Le lunghe gambe sfilarono in un’andatura veloce, illuminata dal chiaro della pelle liscia e tesa sulle curve di donna. Mi voltai. Mi allontanai dalle due mani di rampicanti mentre la ragazza riprendeva la sua posizione e il braccio si rialzava poco per volta da terra.

Trascinai i piedi verso il confine del prato, là dove poco prima c'era stato il corridoio oscuro. Sul taglio netto del buio pendevano gli ultimi steli di erba turchese. Mi sedetti lì, con il fondo dei jeans sulla terra e le caviglie, sovrapposte l'una all'altra, immerse nel vuoto.

Dove si sta spingendo il tuo sguardo? Che cosa vedi, attraverso il buio?

Un oscuro futuro. Chiusi gli occhi per vederlo meglio.

* * *

Aveva i capelli scalati di media lunghezza, gli occhi piccoli e vicini tra loro, dietro un paio di occhiali da vista dalle lenti azzurre altrettanto piccole e rotonde. Indossava un paio di pantaloni bianchi troppo stretti, una camicia aperta sul collo, rosa con le righe sottili grigie che si deformavano aderendo al fisico flaccido, un paio di ridicoli mocassini bianchi alla moda portati senza calze e un maglione poggiato sulle spalle con le maniche riversate in avanti e i polsi annodati fra loro. Sul taschino della camicia, in un sottile ricamo viola, c'era una coppia di iniziali. Aveva almeno una quarantina d'anni. Stipulava polizze assicurative sulla vita. Quel genere di cose per cui una volta morto danno un corrispettivo in denaro alla tua famiglia.

Valentino era una di quelle persone capaci di far saltare i nervi soltanto col suono della loro voce e di quelle strane erre arrotolate talmente in alto da evaporare dalle parole. La maggior parte di quelle che aveva detto fino ad allora erano una raffica di stronzate. E la sua voce non si era ancora fermata da quando era arrivato.

«…e poi il lavoro bisogna inventarselo, non è più come una volta. Bisogna essere intraprendenti, stare al passo, avere delle ambizioni. Io ho fatto un sacco di sacrifici, adesso è arrivato il mio turno di passare a capo di zona. Ho dato la svolta, mi sono sempre dato da fare. La fatica che fai per gli altri, prima o poi saranno gli altri a farla per te».

«Che sacrifici hai fatto?».

«Stare tutto il giorno fuori casa, mangiare un primo di fretta con il buono aziendale per andare a trovare un cliente, continuare a fare giri fuori orario o restare in ufficio a sistemare le pratiche fino a tardi. La mia giornata di lavoro inizia alle sette di mattino e finisce a mezzanotte. Sono a disposizione del capo ventiquattro ore su ventiquattro. Vado a prendere i suoi figli a scuola, gli faccio la spesa, gli faccio da autista quando capita. Ho rinunciato spesso al giorno di riposo per accompagnarlo ai convegni. Lo faccio per amicizia».

«Se lo fai per amicizia, perché lo metti tra i sacrifici?».

«Io ci tengo alla mia azienda» Valentino sorrise «Non credere che siccome passo la maggior parte del tempo seduto a parlare, il mio lavoro non sia pesante. Lo è più degli altri, anzi. Devo convincere le persone. E per farlo bisogna avere le idee chiare ed essere informati su tutto. Solo così puoi diventare il loro mentore e solo quando ti riconoscono come mentore, puoi dare un valore alla loro vita».

«Tu dai valore alla loro vita?».

«Sì, beh, è solo una delle mie battute» si passò un dito sotto il naso.

Feci un paio di passi indietro, prima di voltarmi verso il campo dove si innalzavano le due braccia di rampicanti.

«Hai assicurato anche la tua vita?» ci avviammo.

«Stai scherzando? Non so come facciano a vivere tranquilli quelli che non l'hanno fatto. Purtroppo fino a ora ho potuto permettermi soltanto una delle polizze base. Ma, con la promozione, andrò immediatamente a maggiorare il premio».

«Daranno una bella somma ai tuoi parenti» dissi.

«Quando morirò, sì» i mocassini bianchi si scontrarono tra loro, Valentino si aggrappò con una mano alla mia spalla «Io dico sempre che la vita è un tavolo verde. Bisogna saper cogliere l'occasione e sapere quando è il momento di aumentare la posta. Non tutti sono abbastanza furbi».

«Qual è adesso la tua posta?» mi voltai verso di lui.

«Eh?».

«Quanto vale la tua vita?».

«Beh. Al punto in cui sono, ha assunto un certo valore, bisogna ammetterlo. Finché ero un semplice agente di zona, nonostante il grande potenziale di vendita, non è che valesse granché. I sacrifici non si fanno per niente» ridacchiò, si sistemò gli occhiali.

Tirai fuori l’armamentario per una sigaretta, la rullai stancamente mentre ci fermavamo.

«Non riesco a capire queste cose. L'azienda, il capo, la promozione…» accesi la sigaretta, bussando sul gomito del primo braccio di rampicanti, le ragazze tardavano a risvegliarsi «Finché accetti di dover chiamare qualcuno tuo superiore, sarai matematicamente il suo inferiore».

Guardai all’insù, ma le dita non davano segno di volersi smuovere. Valentino sorrise con sdegno, avvicinandosi.

«Oggi ho meno superiori di un tempo».

«Vuol dire solo che sei meno inferiore».

«Vuol dire anche che c’è più gente inferiore a me. Io ci ho saputo fare» si puntò un dito sul petto abbondante su cui si tendeva la stoffa rosa della camicia personalizzata «Ho avuto delle ambizioni. Sai cosa dicevo sempre agli altri? Se lavorate come cani e non avete sogni, voi continuerete a lavorare per sempre e io un giorno potrò permettermi di avere qualcuno sotto di me» allargò le braccia.

«Era questo il tuo sogno?».

«Quale?».

«Comandare, avere qualcuno sotto di te?».

«Perché la libertà cosa credi che sia?» sorrise, incredulo «A proposito di inferiori e superiori, ci sono interessi superiori per i giovani come te».

«Stai sbagliando persona» mi misi a cercare per terra.

«Immaginavo che l'avresti detto. Alla tua età si hanno altre cose per la testa, la morte appare lontana».

«Non così tanto» tirai su un pezzo di terra raggrumata.

«Benissimo» le mani di Valentino sfregarono l'una contro l'altra, era venuto fuori il mentore «Un domani avrai una moglie e dei figli, non sai in che condizioni di lavoro sarai. I nostri contratti prevedono il pagamento dell'indennizzo per la dipartita, cosa che tutelerebbe i tuoi famigliari in caso di morte, oppure la riscossione dell'intera somma al momento della pensione. C'è anche la possibilità di rateizzare l'incasso come integrazione alla pensione. Che cosa ne dici?».

«Che hai scelto proprio la notte giusta».

Lanciai il pezzo di terra in alto sopra la mia testa. Si infranse contro lo spigolo del dito medio della grande mano e sparse polvere e terriccio dappertutto.

«Come?» chiese Valentino facendosi indietro e riparando la testa sotto una mano.

«Niente» dissi. Mi ripulii la maglia dalla polvere.

Le due grandi mani al di sopra di noi si scossero fragorosamente. Stagliate in quell'irreale chiarore turchese proveniente dal cielo che si apriva tra le nuvole, le forme lucide e sinuose delle due ragazze si alzarono in piedi e offrirono limpidi paesaggi di carne. Valentino lasciò pendere la mascella tra le guance flaccide, con la testa alzata.

«La seconda anima ha varcato le soglie della notte» la Dolce Illusione avanzò verso la punta di un dito della grande mano, si chinò verso di noi, chiuse le gambe e lasciò che i lunghi capelli le cadessero davanti a una spalla.

Mi sedetti, incrociai le gambe, piantai una mano sotto il mento.

«Che cosa ti attrae, Valentino, della vita? Il denaro, l'affetto, il potere?» la Pura Verità si affacciò dal palmo di rampicanti.

«Niente di tutto questo» la Dolce Illusione scosse la testa.

«Quello che hai sognato durante tutte le notti della tua vita è stata la libertà».

Valentino mosse le spalle. Teneva una mano dentro l'altra congiunte sul davanti come durante una premiazione. Lanciai via la sigaretta senza neanche finirla.

«Eri arrivato a un passo. Stavi per vederla da vicino. Te ne saresti accorto?» riprese la ragazza dal vestito nero. Girò gli occhi verso l’altra.

«Non ti saresti accorto di aver rincorso qualcosa di diverso da quello che credevi».

«Sai perché sei qui?».

Valentino cercò di risvegliarsi, scuotendo debolmente la testa «Stavo… volevo chiederlo a lui, ma abbiamo parlato di altro» mi indicò con una mano.

«È incapace di comprendere, incapace persino di sospettare» la ragazza dal vestito bianco ricambiò lo sguardo dell’altra, le ciglia calarono sul riflesso d’oro degli occhi.

«Anche lui ha dimenticato che questa notte prima o poi sarebbe arrivata. Crede di essere ancora vivo».

«Mentre il suo corpo galleggia in mare aperto trascinato dalla tempesta».

«Il mio corpo?» si guardò addosso, schiacciando il doppio mento sul petto. Si girò verso di me

«Non capisco quello che stanno dicendo. Pensano che sia stupido?».

«Può darsi» alzai le sopracciglia.

«Dovrai raggiungerlo prima che cada dal pontile lungo il quale passeggiava» la Dolce Illusione puntò il suo sguardo nel mio.

«Passeggiavo sul molo, esattamente,» protestò Valentino «vorrei vedere se voi non avreste bevuto un po' di più alla festa della vostra promozione».

«Oppure potrai startene a guardare la sua ombra che barcolla incurante della pioggia a dirotto, per poi scomparire inghiottita dalle onde» le rughe si infittirono intorno alle labbra nello strano sorriso della Pura Verità.

«Non ho mai esagerato con gli alcolici in vita mia. Mai» Valentino stese un braccio in orizzontale «Ci tengo, alla salute».

Mi alzai in piedi, piantai una mano sulla sua spalla. «Sei sicuro di conoscere davvero il valore della tua vita?».