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Zenith
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Zenith

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Questa non è la realtà.

Alzai lentamente la testa e spostai lo sguardo al di sopra delle ginocchia. Quattro enormi zampe di animale erano rivestite da una coltre di lunghi peli chiari. La pelle, di un rosa sporco, incrostata di melma e filamenti d’erba secca, era incisa da profonde rughe e cicatrici. Il collo mi diventò molle. Uno sconcertante grugno rosa espirava caldi sbuffi ritmati e rilasciava una bava arcuata giallastra. Davanti a me, un suino della taglia di un elefante sovrastava il buio. Lo guardavo senza riuscire a crederci, ma l'animale continuò a oscillare piano, storcendo di tanto in tanto la bocca per emettere un grugnito. I piccoli occhi pelosi mi osservavano.

Mi alzai con una calma irreale. L’enorme testa si mosse piano, attratta da qualcosa verso il basso, poi fece sobbalzare le orecchie leggere con uno schiocco di lingua e uno scatto improvviso di cui non sembrava capace. Abbassai lo sguardo. La mia mano era scomparsa nelle calde fauci fino al polso. Guardai le piccole pupille nere, lucide come se fossero di plastica, e tirai in maniera impercettibile il braccio. Era incastrato. Non feci in tempo a pensarlo che la testa del maiale scattò ancora in avanti di un po’. Dal gomito in giù, in un attimo, il braccio era tutto steso sul letto avvolgente di un quintale di lingua. Non capivo se dovermi preoccupare.

Piantai il palmo della mano sull’ovale umido del naso, infilai per sbaglio un dito in una narice e spinsi mentre tiravo il braccio incastrato più forte che potevo verso di me. Non si spostava di un millimetro. Continuai a fare forza e dare strattoni, cercai di afferrare e stringere qualcosa con la mano all’interno della bocca, ma il maiale restava impassibile. Aspettava che la smettessi. E quando mi fermai a riprendere fiato, con un altro scatto, mi avvolse la spalla, senza alcuno sforzo. Dovevo preoccuparmi.

La testa del maiale si sollevò lentamente. Ruotai il corpo intorno alla giuntura per seguirne il movimento ed evitare che si spezzasse e mi ritrovai con la faccia a pochi centimetri dal muso rosa. La bava giallastra si allungava sotto la mia ascella, ondeggiava e sfilacciava sul pavimento. Trattenni il respiro e smisi di dibattermi. Il maiale sembrò non avere atteso altro, spalancò le fauci e, con l’ostinata lentezza di un pachiderma, mi avviluppò la testa e le spalle.

La mia faccia si compresse sul fondo delle pareti umide della cavità orale, il mio corpo scivolò avanti e indietro risucchiato dalla gola. Un millimetro alla volta, il condotto si allargò, si adattò a me come una guaina di gomma. Iniziai a scendere giù, nel fondo dell’esofago. Una serie indefinita di pugni mi premevano addosso dappertutto e mi spingevano avanti nel condotto sempre più stretto e buio. Una membrana elastica come una busta di plastica aderì alla mia faccia impedendomi di respirare finché non si strappò e mi ritrovai affacciato alla bocca dello stomaco. Cercai un appiglio sui bordi scivolosi, non riuscii a trovarlo e slittai giù, in caduta libera.

Dal nulla si diffuse intorno a me la luce di un cielo disseminato di grandi nuvole bianche. Un orizzonte si assestava in lontananza con i riflessi d’oro di un’alba o di un tramonto. Un freddo flusso d’aria mi investì e mi spinse la felpa sotto il collo, lasciandomi a pancia scoperta nell’assordante fischiare del vento. Cercai di ricacciarla al suo posto per guardare in basso, ma non riuscii a vedere niente finché non venni fuori dall’ultima nuvola.

Mi sfracellai con un boato su un piano solido. Attorno a me si sollevò un immenso sbuffo di polvere. Restai immobile in una concentrazione di tempo infinita, in attesa che la coscienza si spegnesse definitivamente. Non provavo alcun dolore. Sentivo le mani e i piedi enormemente distanti. La mente si era frantumata in migliaia di schegge, ma la coscienza persisteva come un’ostinazione del dormiveglia.

Iniziai lentamente a radunare i pezzi rotti verso il centro del corpo. Provai a muovermi quando mi sembrò di avere di nuovo una consistenza. Mi alzai come un manichino scomposto, un braccio pendeva dal lato sbagliato del gomito, il collo aveva un’inclinazione innaturale, i jeans sembravano contenere un accumulo di frammenti. Le mani, dilatate fino a sembrare finte, si riassestarono sotto i miei occhi, le ginocchia scattarono in linea. Nel cranio e nella mandibola un formicolio delle ossa mi sistemò il volto.

Quando la nuvola di polvere si posò, dalla terrazza dove mi trovavo vidi una città in rovina che si estendeva, vuota e silenziosa, sotto di me. Era fatta di ammassi di case costruite una sopra l’altra in assurde arrampicate verso il cielo, talmente incastrate tra loro da sembrare inaccessibili. Mi girai intorno. La terrazza su cui ero finito era un quadrato senza vie d’uscita a mezza altezza su uno di quegli ammassi di case. Mi appoggiai al parapetto e guardai in alto. Uno squarcio di azzurro filtrava attraverso una finestra dietro cui non c’erano stanze né tetti. Il centro di un pavimento in forte pendenza a quadri larghi gialli e neri si trasformava senza motivo in un tetto di tegole. Una scalinata partiva da un davanzale per finire nel bel mezzo di un muro. Sulla stessa parete, un po’ più in alto, c’era una saracinesca grigia aperta a metà che nascondeva in parte uno specchio. Niente aveva senso. Era come se tutto fosse stato costruito senza l’intenzione di essere utilizzato, persino il grande ponte a campata unica che saltava da una parte all’altra l'intera città.

Sentii una leggera vibrazione sotto la pianta del piede. Ritirai lo sguardo in basso sulla linea all’angolo tra il pavimento e il parapetto e restai in attesa finché non vibrò ancora, assorbendo il propagarsi di un colpo battuto a terra in lontananza. Le vibrazioni si fecero sempre più forti fino a diventare veri e propri terremoti momentanei. Cercavo di bilanciarmi con movimenti in circolo dei piedi, stare troppo vicino al parapetto mi dava la sensazione di cadere di sotto. In un'apertura su un altissimo campanile dal tetto a mongolfiera, un’enorme campana dorata iniziò ad oscillare. Si inclinò espandendo un rintocco che echeggiò e si compattò contro i muri delle case. Dopo alcuni secondi ci fu un altro rintocco. Suonava a morto.

Al di sopra dell’insieme di terrazze costruito in fondo alla città, le lunghe corna di una giraffa salivano e scendevano al ritmo dei terremoti, sormontando una testa di dimensioni spaventose che passeggiò in parata sul collo lungo e dritto. Il corpo gonfio come una cornamusa era sorretto da esili e altissime gambe sbilenche che, impattando contro il terreno, propagavano le onde d’urto da cui erano investiti gli edifici. Tutto iniziò a tremare sotto i miei scarponi. Il terzo rintocco della campana fu scavalcato dal boato delle torri e dei palazzi che venivano giù, di lato, come se una mano gigante li stesse spingendo. Dopo poco la mano raggiunse anche l’insieme di case su cui mi trovavo. Una profonda crepa si ramificò in diagonale sul campanile. La parte superiore si inclinò trascinandosi la campana che rintoccò contro il muro.

Ripresi a cadere velocemente verso il basso. Le ultime cose che vidi furono l’alba o il tramonto che fluiva via, lontano, in un fascio di colori confusi tra i banchi di polvere che si alzavano. Uno sciabordio di acque si modulò sul fragore della città che crollava. Cadevo verso un’estesa superficie di acqua verde scuro che si intravedeva sotto uno strato di vapore. Nella penombra verdastra tutto intorno, ad altezze differenti, le entrate di alcune grotte si protendevano dalla parete rocciosa come bocche con denti di stalattiti e stalagmiti.

I piedi ruppero la superficie dell'acqua e mi trascinarono giù fino a sfiorare il fondo limaccioso che si intorbidì. Risalii lentamente agitando le braccia e mi tenni a galla muovendo le gambe. Da una sponda lontana qualcosa aveva preso la mia direzione, la vedevo emergere e immergersi in mezzo al vapore. Mi ripulii gli occhi con una mano, sputai fuori dai denti l'acqua entrata in bocca. Tra i bianchi addensamenti fumosi che ruotavano in circolo sullo stagno, il muso striato di alghe e limo di una gigantesca rana incideva la superficie delle acque, avvicinandosi. Sopra la sua schiena, una scimmia dal busto dritto la cavalcava con lo sguardo profondo di un marinaio di vedetta in attesa di scorgere terra.

La rana deviò verso una sponda a pochi metri da me, si tenne a un bordo con le zampe e mi guardò. La scimmia girò lentamente la testa e tese una mano. I suoi occhi sembravano occhi umani, tra le guance allargate in due batuffoli di peli bianchi. Nuotai verso di loro, afferrai la mano della scimmia e mi arrampicai con una mano alla parete melmosa e con l'altra al ginocchio della rana. Mi misi seduto dietro la scimmia e immersi le mani nella morbida pelliccia intorno alla sua vita. La rana abbandonò il bordo e si rimise in acqua. Incantai gli occhi sui peli sulla testa della scimmia che ogni tanto si girava a controllare che stessi ancora al mio posto. Percorremmo in silenzio lo stagno respirando vapore fino a una sponda lontana a cui la rana si aggrappò.

Mi lasciai andare all'indietro, scivolai in acqua e allargai le braccia per galleggiare. La rana venne giù dal bordo. Allungò le zampe posteriori e anteriori come se fosse morta di colpo e si inabissò, fino a che la superficie non raggiunse le spalle della scimmia. Poi l'acqua le sommerse del tutto. Immersi una mano sotto la superficie e la agitai, riuscii a intrecciare le dita tra i peli del volto della scimmia, cercai di scendere fino alle braccia, per prenderle una mano, ma ormai era andata giù. Galleggiai fino a riva e affondai i gomiti nella melma. Salii sul bordo, mi stesi a pancia in su, con le gambe ancora immerse in acqua. Restai a respirare per un po', poi mi rigirai per sedermi sulla sponda.

Sentii qualcosa nella tasca. Tirai fuori la bustina del tabacco, aprii la chiusura ermetica. Sia i filtri sia le cartine sia il tabacco al suo interno erano rimasti asciutti. Rullai una sigaretta, la infilai in bocca e sollevai una chiappa per prendere l’accendino dalla tasca posteriore dei jeans. Provai ad accenderlo, ma si era bagnato. Mi alzai e mi misi a camminare nel buio. Continuai a spingere la rotella dell’accendino mentre mi osservavo intorno. Forme appena visibili, curve come pance di donne incinte attraversate da vene nere, erano sospese nell'oscurità. Qualcosa sembrava muoversi al loro interno. Mi avvicinai a una pancia più grande delle altre nel momento in cui l'accendino aveva ripreso a funzionare. Portai la fiamma in avanti per fare luce, allungai una mano. Le dita passarono attraverso la superficie, come se fosse fatta di fumo, facendo vibrare tutto, ma quando ritirai la mano, la pancia riprese la sua forma.

Qualcosa cigolò in fondo al buio. Mi voltai e vidi in lontananza una porta nera senza pareti attorno. Mi avvicinai, la spinsi piano. Un lungo corridoio buio si proiettava su una nuova oscurità. Attraversai la porta e andai avanti. Arrivai in fondo al corridoio. Un abisso infinito si apriva sotto i miei piedi. Mi inclinai in avanti, tenendomi a una parete, e mi affacciai. Allungai un passo che restò sospeso nel vuoto. Oltre il corridoio non esisteva più niente.

Avvicinai l'accendino alla punta della sigaretta per darle fuoco, ma al contatto con la fiamma, il buio iniziò a incendiarsi come un gigantesco foglio di carta nera. Il chiarore si diffuse allargandosi concentricamente, scintille di fuliggine cadevano leggere dal cielo staccandosi dai bordi del buio bruciato dal fuoco. Una luce livida e fredda, una strana luce turchese, avanzò attraverso il buco che continuava ad allargarsi. Indietreggiai, mi misi una mano davanti agli occhi per vedere cosa si nascondeva al di là del buio.

Un sentiero di terra era steso in un campo di sterpaglia a pochi passi da me, fuori dal corridoio. La punta del piede attraversò il confine. La gramigna secca ai lati del sentiero si faceva più alta man mano che andavo avanti, lunghi e sottili giunchi si piegavano tetramente al vento in fondo al campo. Attraverso i banchi di nuvole che percorrevano il cielo notturno filtrava la presenza di stelle lontane che emanavano quel freddo chiarore turchese che si riversava su una prateria spoglia proiettata verso un’alta collina spettrale. Una corona di rovi, sulla quale scheletri di alberi allungavano le loro ombre, si infittiva alla base della collina. Un riflesso della luce turchese si stendeva sulle increspature di un corso d'acqua che proveniva da uno sfondo di colline più lontane e si immergeva tra i giunchi per riapparire al di là del canneto e superare il confine della prateria, serpeggiando per un tratto nel mezzo del nulla. Alla fine del sentiero si allargava un grande campo circolare di terra battuta, al riparo del fianco curvo verso l’interno della collina.

Quando arrivai al centro del campo, il terreno iniziò a vibrare sotto di me. Indietreggiai, inciampai nelle mie stesse scarpe e mi ritrovai seduto a guardare una gigantesca nuvola di terra che si gonfiava. Qualcosa stava risalendo dal profondo. Strisciai all’indietro. Il terremoto si fermò, la nube si disperse lentamente in direzione della collina. Davanti ai miei occhi si erano innalzate due enormi braccia emerse fino ai gomiti con i pugni serrati verso l'alto, completamente rivestite di rampicanti.

Le dita del pugno di sinistra si aprirono, lentamente, dal palmo rivolto al cielo. Una figura seduta, con la testa tra le gambe raccolte e le braccia intorno alle ginocchia, era nascosta dal morbido volume dei capelli ricci e castani. Le lunghe braccia sottili si distesero. Un collo esile sollevò la testa verso l’alto mentre le mani spinsero verso il basso, ai lati delle caviglie. Le ginocchia si portarono in avanti, rette dagli stinchi neri e lucidi. Occhi dalla lucentezza dorata mi guardarono dal viso di lucida ossidiana di una ragazza dalla bellezza impossibile che si metteva in piedi.

Aveva le braccia nelle maniche bianche di una vestaglia che scendeva lungo i fianchi e lungo l'esterno delle gambe e lasciava nuda la parte centrale del seno, del ventre, dell’incisione dell’ombelico e dell’incontro fra le cosce nere e lucide. Bianchi arabeschi di stoffa attraversavano la parte scoperta e univano i due lembi della veste che ondeggiava nella brezza notturna. La ragazza si affacciò dal palmo della mano gigante, con la faccia incuriosita.

«Tu» disse. Il riverbero della sua voce era simile a un lamento di balena «Hai camminato attraverso il nulla e la sostanza eterea dei tuoi sogni. Sai perché sei qui?».

Scossi la testa.

«La realtà si è frantumata, qualcosa di soprannaturale è accaduto, qualcosa che succede una volta ogni generazione» le sue labbra modulavano le parole lentamente, quasi in ritardo rispetto alla voce. Il corpo si muoveva languidamente, come se fosse immerso in un fluido attraverso cui parlava.

Voltò la testa alla sua sinistra, tra i capelli si intravedeva l’incredibile lucentezza della nuca. Il pugno rivesito di rampicanti sulla destra si aprì. Un’altra figura piegata, avvolta da una morbida massa di capelli ricci e biondi iniziò a stiracchiarsi come se si fosse appena svegliata. Due mani bianche, dalle dita lunghe e sottili, sollevarono i capelli sopra la fronte. Gli zigomi sporgenti, attraversati da riflessi azzurri, tendevano la pelle delle guance bianca e lucida come alabastro. Anche il suo corpo era nudo, dentro il vestito nero unito da ricami sul seno bianco e pieno, sul ventre morbido, sulle gambe scolpite. Si alzò in piedi e si affacciò come aveva fatto l’altra, osservandomi con gli occhi d’argento.

«Una volta ogni generazione» disse. La sua voce era come un rumore, un disturbo, come il crepitio del ghiaccio che si incrina.

«In una notte d’inverno che ha invaso l'estate» iniziò la prima voce «Un’essenza sente il presagio della morte che la sta cercando. I suoi sensi si allertano e si acuiscono fino a permetterle di vedere l'invisibile, di sentire il silenzio, di credere all'incredibile e di affacciarsi su una dimensione oscura, al di là della vita, prima ancora che la morte sia riuscita ad afferrarla».

«Da una porta aperta tra le due dimensioni è possibile guardare la morte dalla vita, ma è anche possibile guardare al contrario, la vita dalla morte. La morte sopraggiunge, la porta resta aperta, l’essenza non è più viva, non è ancora morta, non del tutto. La morte non può impossessarsene completamente, ma soltanto per una notte. Questa è una di quelle notti» continuò la seconda voce.

«Tu sei l’essenza che ha sentito la morte arrivare, le sei sfuggito attraverso il passaggio che hai lasciato aperto. Hai portato la morte nella vita e la vita nella morte, hai generato un paradosso che dovrai risolvere fino alla fine di questa notte, quando la porta dovrà essere di nuovo chiusa» concluse la prima voce.

L’eco delle due voci mi volteggiò intorno come un vento che saliva a spirale, intrecciandole. Chiusi e riaprii gli occhi un paio di volte, guardai prima una e poi l'altra ragazza. Avevano un’età indefinita. Alcuni riflessi, sui loro volti, rischiaravano lineamenti morbidi di adolescenti, altri tagli di luce incidevano profonde rughe sulla loro pelle. Mi portai le mani alle tempie, cercai di contenere la velocità con cui avevano preso a rincorrersi i pensieri.

«D’accordo» dissi «L’unica cosa che si è aperta questa sera è stata la mia testa. C’era una crepa larga quanto un dito proprio qui, sulla tempia, che deve aver danneggiato il cervello, ma non importa. Come avete fatto ad apparire? E come si fa ad uscire da questa allucinazione?».

«Non siamo apparse per nostra volontà, non senza che tu ci abbia cercato» la ragazza dalla pelle bianca aprì un braccio verso l'altra per poi ripiegarlo su di sé.

«Tu ci hai chiamate».

«Io?».

Io le ho chiamate.

Ancora quella stupida voce nella testa. Mi guardai attorno.

«Nove anime» ricominciò la prima voce «raggiungeranno la collina, questa notte».

«Nove anime in bilico. Attraverseranno il confine e resteranno sospese».

«La tua essenza potrà cambiare gli eventi e salvarle, se saprai orientarti nel buio».

Il terreno riprese a tremare. Indietreggiai senza sapere dove direzionare lo sguardo e i piedi. Una base di piramide sormontata da una lunga e stretta torre dalle pareti devastate dal tempo venne fuori dal terreno da qualche parte a est, come era successo poco prima con le due braccia rivestite di rampicanti. Sulla facciata rivolta a noi, nove alte finestre ad arco erano in linea con la grande entrata alla base.

«Avrai nove ore».

«La torre resterà in attesa di ognuna delle anime».

«Fino al termine di questa notte».

«Finché non avrai fatto la tua ultima scelta».

«Ognuna delle vostre vite sarà restituita se salverai più anime di quante ne perderai».

«Nessuna delle vostre vite sarà restituita se perderai più anime di quante ne salverai».

«In un’unica sorte comune di cui sarai responsabile».

Si sollevò un silenzio attraversato da centinaia di sussurri che si prolungavano in echi ossessivi nella piccola valle.

«Non sono stato capace di salvare neppure la mia vita» dissi, indicando al di là del buio alle mie spalle. Ma i due pugni di rampicanti si stavano già richiudendo.

Mi ritrovai tra le dita la sigaretta che non avevo più acceso alla fine del corridoio. La guardai, la feci rotolare nel palmo. Non avevo più nessuna voglia di fumare, ma la accesi lo stesso.

Capitolo 3

La prima anima non aveva le sembianze di un’anima. Era un ragazzo lungo e magro con le spalle a spigoli. Portava una giacca e un paio di pantaloni grigio chiaro, una camicia bianca aperta sul collo e scarpe nere. Avanzava tra l'erba alta e rada con le ginocchia sollevate. Gli occhi castani dalle ciglia lunghe mi guardavano sopra un naso con la punta schiacciata sul volto rettangolare. La strana lucentezza della pelle la faceva sembrare vagamente plastificata.

«Pensavo che non avrei trovato nessuno qui. Sono venti minuti che cammino» disse. Fece altri due ampi passi e si fermò, allungò una mano «Ambrose Denitti. Designer di interni. Interni di lusso».

Il polso della camicia venne fuori dalla manica della giacca. Trattenne il fianco della stessa con l'altra mano.

«Che razza di situazione» dissi. Mi alzai da terra, dalla sterpaglia dove me n'ero stato seduto fino ad allora. Strinsi la mano davanti a me.

«Sico» dissi.

La fronte dell'anima si corrugò. Tirai un'ultima boccata dalla terza o quarta sigaretta da quando ero arrivato, prima di schiacciarla sotto la punta dello scarpone. Le spalle appuntite traslarono di lato per farmi spazio. Mi allungai verso il sentiero.

«Ho l'auto che si è fermata sulla statale. Non so che cosa le sia preso, non mi ha mai dato problemi. Per quello che l’ho pagata, c’è da non crederci. A dire il vero devo essere uscito un po' fuori strada» fece frusciare la giacca, allungando un braccio all'indietro mentre mi camminava accanto «Ho provato a contattare il soccorso stradale, ma non c'è campo» controllò il display di un grosso cellulare, ticchettandoci sopra con due dita «Non è che mi faresti provare con il tuo?» mi puntò con l’antenna del telefono.

Scossi la testa e alzai le spalle.

L’aria intorno a noi era cambiata, un vento leggero si era alzato, mentre nel cielo le nuvole si assottigliavano piano.

«Posso pagarti la telefonata» disse l’anima, allargando le braccia.

Mi fermai, mi girai verso di lui «Non ho un telefono» dissi.

«Va bene, va bene. Facciamo così: vieni con me fino alla macchina e resta almeno a controllarla mentre io cerco aiuto».

Feci ancora no con la testa.

«Senti, sei l'unico che può aiutarmi. Non vedo nessun altro qui,» fece un giro completo su se stesso «ho un Porsche Boxster grigio metallizzato con tettuccio apribile automatico e interni in pelle rossa immatricolato sei mesi fa, fermo fuori strada a non so quanti chilometri. Che dici, vogliamo lasciarlo lì incustodito per molto?».

Ripresi a camminare, il ragazzo mi seguì. Scavalcammo l'erba alta ai bordi del sentiero per avvicinarci alle due braccia di rampicanti. Gli ultimi steli di gramigna gli finirono dentro i pantaloni, scostò la gamba con rabbia e assestò un calcio a un cespuglio rinsecchito, sradicandolo. Bestemmiò qualcosa tra sé e sé.

«Domani sono pieno di appuntamenti, devo chiudere due contratti importanti. Non posso stare qui a perdere tempo con te, ma mi serve il tuo aiuto» si fermò.

Una mano lanciò il telefono all’altra, scivolò sotto la stoffa della giacca e cavò un portafogli dalla tasca posteriore dei pantaloni. Lo aprì con il pollice. Tirò fuori con l’indice e il medio un pezzo da cinquanta e lo sventolò verso di me. Il riflesso bianco spalmato sulla punta piatta del naso lo faceva sembrare ridicolo.

«Prendili, dài». Credeva di essere ancora vivo.

La morte è un concetto relativo. Basta solo andarci oltre.

«Ti è mai capitato» dissi «di pensare a qualcosa che non abbia a che fare con la tua vita?».

«Che cosa vuoi dire?».

«Che dovresti pensare di rinunciare ai tuoi appuntamenti».

«Dici che andrà via tutta la notte per tirare fuori la macchina?» gettò il pollice alle sue spalle. La banconota scivolò di nuovo nell’apertura di pelle. La mano scomparve dietro il suo culo.

«Dico che adesso è tardi per pensare a queste cose».

«Dici?».

«Dico che sei morto».

«Morto? Che cosa vuoi dire con morto?».

«Tutto quel buio l’hai visto? L’erba che comincia di punto in bianco nel vuoto? Questa strana luce turchese, queste due braccia enormi che vengono fuori dal terreno?» poggiai una mano sul braccio più vicino, appena raggiunto «Ti sembra la vita, questa? Ti sembra la realtà?».

Si allontanò di qualche passo, si puntò addosso le dita di entrambe le mani.

«E io? Ti sembro uno che è morto? Non lo vedi che sto in piedi? Sono solo uscito fuori strada. Certo, devo aver tamponato qualcosa, adesso non ricordo. Ma poi ho camminato fino a qui» quasi urlò.

I due pugni giganti, con le foglie prese da un leggero fremito, iniziarono a schiudersi sopra di noi. Ci spostammo più indietro. Le ragazze si sollevarono, Ambrose si ritrasse alla loro vista. La ragazza vestita di bianco gli accennò un invito ad avvicinarsi. Il suo viso continuava a mutare. Adesso sembrava quello di una adolescente e anche il suo corpo non era più quello di una donna, le braccia e le gambe si erano fatte più esili e i seni neri, che erano stati sodi, adesso erano appena accennati.

«Che cosa ci fanno nude? Chi sono?» Ambrose si rivolse a me.

Alzai le spalle.

«Ambrose» iniziò la voce della ragazza vestita di nero «Hai ventisei anni. Li hai attraversati tutti senza un solo piccolo dolore e senza un solo piccolo affetto. Non hai mai conosciuto sacrifici o rinunce. Ti sei ritrovato a ventitré anni a capo dell’azienda di tuo padre, senza un percorso di studi, senza alcun merito, ma per diritto di discendenza. Nei giorni della sua morte, non provavi niente. Soltanto la voglia irrefrenabile di prendere possesso dei tuoi nuovi beni per vivere una vita dinamica, in continuo movimento e in continua mutazione. Hai iniziato a cambiare auto e donne come un bambino che fa presto a dimenticare un gioco vecchio per uno nuovo. La tua vita è stata una corsa continua lontano dalla verità che ti sembrava così noiosa e statica. Una vita di continue bugie. Dette a chi? Dette a te stesso. Che ne pensi, hai avuto una morte abbastanza dinamica?».

«Io non sono morto» scattò di nuovo il ragazzo «Mi si è fermata l’auto. Ho avuto un piccolo incidente mentre rientravo. Ho sbattuto contro qualcosa, ma non è stato niente di grave. Vi sto parlando, sono davanti ai vostri occhi. Non sono morto» tentò di convincerci agitando il cellulare.

«Mente a se stesso, come ha sempre fatto, tanto da aver confuso la verità con le sue bugie. Non è in grado di ricordare. E oramai non c'è più tempo. La sua auto corre a grande velocità lungo una strada di campagna. Un sorpasso azzardato nei pressi di un dosso spezzerà la sua vita questa sera. Dovrai evitare l’impatto» la ragazza dal vestito bianco si rivolse a me.

«O lasciare che la morte faccia il suo corso» aggiunse l'altra, con lo sguardo fisso sul volto di Ambrose.

«Tieni a mente che alla sua sono legate tutte le altre vite. A partire dalla tua».

Le dita delle mani da cui ci parlavano iniziarono a richiudersi. Le due ragazze si sedettero senza smettere di guardarci.

«Aspettate» Ambrose riprese ad agitarsi nel completo grigio «Voi non lo sapete, non potete saperne niente, della mia vita e di quello che mi è successo. Voglio sapere chi vi ha detto quelle cose su mio padre, voglio sapere chi siete».

«Siamo spiriti della morte» un sussurro filtrò attraverso il sorriso che sezionò il viso della ragazza dalla pelle bianca «Lei è la Dolce Illusione. Io sono la Pura Verità».

I pugni si serrarono definitivamente, Ambrose si girò verso di me, indicandoli con la punta del telefono tesa alla fine del braccio alle sue spalle.

«Ma lo senti come parlano, lo senti cosa dicono? Sono completamente pazze. E tu credi alle loro cazzate?».

«Io non credo a niente» mi avviai verso il buio.

«Aspetta» la mano di Ambrose mi afferrò una spalla. Mi girai. «Dove stai andando?» chiese.

«Non lo so».

«Benissimo, vuol dire che verrò con te» fece per infilarsi il telefono in tasca. Come uno sciabolare di enormi lamiere, le pareti nere volteggiarono nell’aria del buio immenso davanti ai nostri occhi, al di là del prato turchese, per ricomporre il corridoio oscuro. La mano di Ambrose scivolò giù dalla mia spalla.