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Il Cercatore Di Coralli
«Ho un figlio poco più grande di te e altri due ancora bambini. Il mio primogenito si è imbarcato per Corcira lo stesso giorno che io ho rimesso piede in Sicilia.»
«Non l'avete salutato?»
«L'ultima volta lo vidi due anni fa. Ma è bene che così si faccia le ossa!»
In quel momento la piccola barca a remi utilizzata per la spola con la spiaggia rocciosa venne velocemente verso la galea.
«Signore, Signore!» chiamò un tale Ali, soldato di vecchia data.
Giordano si sporse a babordo e chiese:
«Cos'è successo?»
«Una piccola imbarcazione degli ziridi... non molto distante da qui!»
Giordano perciò allertò una ventina di uomini e si recò al luogo che gli era stato indicato. In un'insenatura naturale, in attesa che sorgesse il sole, se ne stava attraccata una barca. Chiaramente era stata mandata da Mahdia per spiare le mosse dei siciliani.
Gli abitanti dell'isola se ne stavano già appostati dietro le rocce di pietra lavica, incuriositi dalla situazione. Si trattava di pescatori e raccoglitori di cotone, arabi più che latini, nella lingua così come nella religione.
Per quanto Giordano e i suoi cercassero di avvicinarsi in punta di piedi mentre si inerpicavano a difficoltà tra le asperità della scogliera, qualcuno dei marinai di Hasan dovette vederli, poiché la piccola imbarcazione cominciò ad allontanarsi a forza di remate. Dunque, chi a nuoto e chi calandosi sul ponte dalle rocce, prima che il legno fosse troppo lontano da riva, bloccarono la barca e immobilizzarono l'equipaggio.
Quando Giordano si accorse che sottocoperta gli occupanti principali dell’imbarcazione fossero dei piccioni messaggeri, venne colto dalla paura che l'effetto sorpresa su Mahdia fosse stato vanificato dalle notizie portate da quei volatili. Furioso si scagliò contro i marinai nemici.
«Cosa avete mandato a dire al vostro signore?» domandò in arabo, usando la persuasione della sua spada alla gola per convincerli a parlare.
«Nulla... proprio nulla!» rispose uno di quei marinai, proprio colui che a prima vista doveva essere l'ufficiale di Hasan.
Giordano, non convinto, stava per sgozzare il primo come monito agli altri quando Yasir fece capolino dal boccaporto.
«No, Signore, risparmiatelo... Dice il vero!» e porse un pezzetto di pergamena al nobile comandante.
Su di esso c’era scritto:
“I rūm30 sono a Quawsarah”
«Non lo hanno ancora mandato.» spiegò Yasir.
Giordano sorrise, diede una pacca sulla spalla al suo giovane aiutante e comandò ai suoi:
«Conduciamo questa bagnarola dall'Ammiraglio. È possibile che domani, in luogo del solito tonno salato e delle solite gallette di grano, banchetteremo con carne di piccione!»
Come previsto da Giordano, Giorgio d’Antiochia, l'Amiratus per chi parlava latino, l'Ammiraglio per chi conosceva solo il volgo del popolo, accolse la notizia con grande entusiasmo e riconoscenza. Concesse il bottino agli uomini di Giordano, ma riservò una colomba per sé. La bestiola sarebbe servita per inviare un falso messaggio all'emiro di Mahdia, rassicurandolo che il naviglio siciliano non era presente in quei mari.
Così si accrebbe ancor di più la fama di Giordano, e così, agli occhi degli uomini in armi, l'inspiegabile favore di Ruggero e del suo ministro nei confronti di quel nobile di modesto rango trovò più che una giustificazione nelle gesta di quella sera.
Capitolo 3
22 giugno 1148, Mahdia
Il viso di Kamal recava i segni del sale e del vento. Aveva circa cinquant’anni e aveva passato la sua giovinezza sul mare, gettando le reti e tirando le cime, alla caccia dei migliori coralli del Mediterraneo centrale; un duro lavoro che l’aveva ricompensato con un fisico che perdurava invidiabile nonostante l'età.
Se la sua giovinezza l'aveva passata in mare, lo stesso non poteva dirsi della sua età adulta, in quanto aveva lasciato le reti per darsi all'arte raffinata degli intagliatori di corallo. La bottega di Kamal era rinomata non solo alla corte dell'emiro di Mahdia, ma anche a quella del califfo del Cairo. Perfino le principesse di Palermo, figlie e sorelle di Re Ruggero, avevano indossato inconsapevoli i monili che Kamal sistemava, in quanto aveva saputo ben sfruttare le relazioni commerciali che in passato vi erano stati tra i due regni.
Quella mattina Kamal si recò al molo, proprio come faceva in tutti quei giorni in cui le sue barche prendevano il largo. Intendeva dare indicazione ai suoi uomini circa l'ubicazione di una possibile foresta di corallo nero, volendo appurare se i racconti sulla presenza di tale preziosità nelle vicinanze fossero veraci. Anticipò l'arrivo dei pescatori e guardò l’orizzonte, verso est. Il sole era appena spuntato e rifulgeva sul mare un'intensa luce, accecante se si indugiava con lo sguardo. Quindi notò al largo quelle che sembravano le sagome di grosse imbarcazioni. Pochi giorni prima la città si era rallegrata quando era giunta la notizia che la minaccia di Ruggero fosse ancora lontana. Tutti, partendo da Hasan, erano consapevoli che in quel periodo Mahdia non avrebbe mai potuto contrastare un attacco così diretto, e dunque non avevano potuto far altro che sperare. Ora tuttavia qualcosa non andava... quelle che vedeva Kamal erano proprio le navi del Regnum! Duecentocinquanta legni che coprivano l’orizzonte e si avvicinavano minacciose.
Non potendo appurare la velocità con la quale avanzavano, Kamal credette che in poco tempo sarebbero piombate sulla città. Corse come un pazzo verso il palazzo dell'emiro, gridando nel frattempo per le vie che “Quei maledetti... quegli infedeli... quegli apostati” fossero alle porte. Dicendo “quei maledetti” si riferiva agli Altavilla, dicendo “quegli infedeli” ai siciliani cristiani e dicendo “quegli apostati” ai saraceni che prestavano servizio nell’esercito di Ruggero. Com’è facile immaginare si scatenò il panico.
Giorgio d’Antiochia contava di sfruttare tale trambusto per stanare gli abitanti fuori dalle mura e così prenderli rapidamente sull'istmo che univa Mahdia alla terraferma. Tuttavia, se non era in grado Hasan di contrastare la flotta, lo fu un poderoso vento che, soffiando in opposta direzione a quella delle navi, costrinse le galee ad ammainare le vele e a darsi da fare sui remi. Falliva così l'effetto sorpresa e la possibilità di prendere rapidamente la città con tutte le sue ricchezze, e soprattutto di prendere prigioniero Hasan. Temendo quindi che tutti fuggissero, l'Amiratus, mentre annaspava contro la corrente, mandò un'ambasceria su una piccola imbarcazione a rassicurare l'emiro che veniva in pace e che gli accordi vigenti non sarebbero stati cancellati da atti di aggressione. Chiaramente Giorgio d’Antiochia voleva tentare l'ultima, poiché solo uno stupido non avrebbe capito che duecentocinquanta navi da guerra non erano lì per caso. Quando ad Hasan venne proposta l'alleanza e di marciare insieme verso Gabes, lì dove i ribelli avevano avuto la meglio sul governatore Jūsuf e comandavano ora la città, rispose con un secco rifiuto. Avrebbe preferito la morte piuttosto che unirsi ad un re cristiano per combattere altri servitori di Allah. Ciò nonostante, alla morte prospettata nelle belle parole, Hasan preferì la fuga. Si portò dietro la famiglia, i suoi uomini di fiducia e le ricchezze facilmente trasportabili. Lo seguirono in tanti pure tra i cittadini, soprattutto coloro che, essendo più abbienti, avevano qualcosa da perdere.
Se i restanti si fossero messi in testa di difendere la città in fervor di patria e religione, per certo sarebbero stati sconfitti, e al massimo avrebbero resistito all'assedio un solo mese prima di esaurire le scorte e morire di fame. Chi non fuggì, perciò, si nascose nelle chiese e nelle case dei cristiani, trovando asilo e riparo dalle veniente depredazione dei siciliani.
Nel corso della giornata Giorgio d’Antiochia sbarcò senza colpo ferire e subito si preoccupò di raffrenare la foga dei soldati per qualche ora. Fece in tempo a prendere il palazzo dell'emiro, incustodito e pieno di ricchezze... preservò quindi le donne dell'harem e quei figli di Hasan che erano stati lasciati indietro per la fretta, e fece accampare fuori dalla città quanti cristiani abitassero fra le mura. Infine diede il via libera all'esercito affinché ogni uomo in armi trovasse nel bottino una buona ragione del loro essere soldati.
I soldati del Regno erano ben conosciuti in tutta Europa per la violenza che riversavano sulla gente assoggettata. Per via del gran numero di mori che faceva parte dell'esercito, gli uomini di Ruggero erano conosciuti come i “saraceni di Sicilia”, cosa che, vista la nomea di barbari assassini che avevano gli infedeli, serviva ad aumentare il terrore nelle popolazioni nemiche. Li conoscevano bene quegli abitanti del sud Italia che ne avevano fatto le spese subendo razzie, stragi, stupri e quant'altro quando anni prima il novello Re aveva dovuto affermare con la forza la sua posizione sulle province ribelli.
Adesso toccava alla povera gente di Mahdia conoscere l'infamia della guerra. Quel 22 di giugno sarebbe stato ricordato a lungo dagli abitanti della capitale dell'Ifrīqiya...
Kamal e la sua famiglia erano fuggiti via al seguito dell’emiro. Avevano perciò passato la notte accovacciati tra gli arbusti dalla sterpaglia, tenendo stretti un paio di sacchi contenenti i gioielli che erano riusciti a raccattare prima di lasciare la città.
Tutti disseminati nella zona se ne stavano parecchi concittadini, i quali erano scappati per lo più a piedi, essendo che quelli erano giorni duri e le cavalcature scarseggiavano. Di Hasan e del suo seguito invece non se ne seppe più nulla; le notizie sulla sua sorte cessarono del tutto con la mezzanotte.
Al mattino gli sguardi dei fuggitivi sembravano voler carpire ognuno nell'altro le prossime intenzioni, così da accodarsi in scelte che nessuno era in grado di prendere personalmente. La carovana riprese dunque a camminare seppure nessuno sapesse chi avesse preso l'iniziativa o dove si stesse andando. Era chiaro però che inoltrandosi verso il deserto, con donne e bambini al seguito, non sarebbero andati lontani. Inoltre, il rischio di essere attaccati dalle bande dei tagliagole, beduini sanguinari e senza scrupoli, aumentava man mano che ci si allontanava dalla civiltà. Comunque sia, verso metà mattinata arrivarono dalla direzione di Mahdia un gruppo di uomini a cavallo. Lì per lì i fuggitivi temettero di essere presi dal nemico, ma poi appurarono che i cavalieri erano persone conosciute. Si trattava di alcuni uomini della milizia di Hasan, rimasti in città nel momento in cui il naviglio siciliano era sbarcato.
Un certo Abdel si avvicinò a Kamal e, dall'alto del suo destriero, gli disse:
«Fratello, il capo degli infedeli ha proclamato l'amān31 e invita tutti i cittadini di Mahdiyya a rientrare nelle proprie case. Guarda in fondo verso la direzione da cui vengo e noterai un gran polverone... sono le bestie che il cristiano ci ha affidato affinché donne e bambini tornino comodamente oltre le mura.»
Da tutto ciò si comprendeva quanto Giorgio d’Antiochia conoscesse le usanze di quella gente e sapesse applicare le loro consuetudini in materia di diritto islamico. Ciò che era stato decenni prima per i mori di Sicilia, adesso l'Amiratus lo estendeva anche a quelli d'Africa. Ovviamente per l'antica comunità cristiana di Mahdia quello era un giorno memorabile, di riscatto e rivalsa sui dominatori di molti secoli. Ciò non significava, tuttavia, che i saraceni avrebbero vissuto da dominati, in quanto se fossero stati disposti a sottomettersi al nuovo ordine di cose avrebbero potuto trarne profitto e arricchirsi in funzione delle proprie capacità. Inoltre la sharia sarebbe stata ancora vigente sui fedeli del Corano, così come avveniva in Sicilia, mentre i cristiani e i giudei32 avrebbero avuto altre leggi, basate sulla propria tradizione. Giorgio d’Antiochia, saggio e capace, estendeva quindi il Regno e la sua tolleranza pure all'altra sponda del Mediterraneo.
Kamal sapeva di aver lasciato a Mahdia molto più di quei due sacchi che si era portato dietro, perciò prese la palla al balzo e decise che sarebbe rientrato; forse avrebbe potuto fare affari d'oro con quegli avari cristiani di Sicilia... Guardò la sua famiglia, i suoi figli, e poi assentì col capo facendo capire che cedeva all'invito del nemico. Fu allora che si voltò e vide che migliaia di suoi concittadini marciavano in direzione di Mahdia, convinti a rientrare dalle stesse argomentazioni che avevano fatto presa su di lui.
Non è facile elencare tutti gli atti che compì Giorgio d’Antiochia nella settimana che era cominciata con lo sbarco. Tra le tante cose, mandò i figli e le donne dell'harem di Hasan in Sicilia, trattandoli con benevolenza... invitò molti dei nomadi dell'Ifrīqiya a stanziarsi accanto alla cittadinanza in modo da compensare alla crisi demografica... permise ai parenti di riscattare i prigionieri... elargì denaro ai poveri... fece arrivare grano siciliano in gran quantità per supplire alla carestia... e prestò capitale ai commercianti e agli artigiani cosicché riattivassero le loro attività. Ne beneficiò anche Kamal, il quale, al volgere di tre giorni, credette bene che potesse inviare le sue barche al largo e riprendere a creare monili. In breve tempo i suoi affari triplicarono.
La prosperità del Regno giungeva dunque sulle coste d'Africa. Se non fosse stato per l'imbarazzo e la proibizione coranica di servire un sovrano infedele, per certo gli abitanti di Mahdia avrebbero giurato al Re di Sicilia fedeltà senza riserve. Ciò nonostante, il mondo non conosce soltanto il colore del denaro, e accanto al tintinnio dell'argento e dell'oro si ode anche la voce della propria coscienza, addestrata secondo i precetti della propria educazione. Per gli abitanti di Mahdia, Ruggero, il suo Emiro degli Emiri, e pure tutta la soldataglia, rimanevano e sarebbero rimasti per sempre dei nemici. Avrebbero perciò goduto della prosperità derivata dalla conquista pur senza mai ringraziare.
Al contrario, per i succitati motivi che muovono il mondo, i cristiani indigeni vedevano Ruggero come il liberatore della fede. Essi praticavano il rito greco nella messa, ma si esprimevano tra loro in una lingua sorella a quella del volgo di Sicilia, ovvero parlavano l’ultimo rimasuglio del latino d’Africa. Questi si sentivano i veri vincitori del successo dei siciliani a Mahdia.
Ad ogni modo, benché gli affari sembrassero nuovamente in salute, Kamal sentiva che era venuto meno il prestigio che godeva presso Hasan. L'essere considerato uno degli artigiani di Mahdia, senza essere additato come il migliore nel suo ambito, lo faceva star male. Quando infatti si è ottenuto qualcosa di mancante, spesso chi è avido ricerca qualcos’altro, sentendo nell'animo il vuoto dell’essenziale. Kamal era già ricco, ma poteva esserlo ancora di più se fosse entrato nelle grazie dei nuovi conquistatori. Inoltre, grazie alle politiche di Re Ruggero, poteva guadagnare un prestigio maggiore di quello che godeva in precedenza. La corte di Palermo, con i suoi sfarzi e la sua opulenza, divenne da quel momento il suo principale obiettivo.
Capitolo 4
Inizio luglio 1148, Mahdia
Giorgio d’Antiochia sapeva che se avesse voluto ottenere una rapida vittoria non avrebbe dovuto permettere che le altre città dell'Ifrīqiya si organizzassero. Sicuro quindi che la situazione a Mahdia si fosse ormai stabilizzata, spostò il grosso dell'esercito per mandarlo sia a Susa che a Sfax, o altrimenti chiamata Safāqis. Per certo sperava di sbrigare la questione in poco tempo e di ritornare al suo quartier generale in pochi giorni.
Benché Giordano fremesse dentro e volesse partecipare all'azione, venne lasciato a Mahdia. Il nobile siciliano doveva adesso mettere da parte l'affare della spada per mettere mano a quello della penna.
Kamal aveva sentito parlare di Giordano di Rossavilla già al suo rientro in città. Sapeva che costui era una persona in grazia a Giorgio d’Antiochia e che era stato nominato ‘amil di Mahdia. Credette perciò bene che proprio l’agente del Re fosse la persona adatta per tentare la sua scalata al prestigio e ai privilegi del Regnum. D'altronde l'occasione per incontrarlo non si sarebbe fatta aspettare a lungo...
Dopo alcuni giorni venne anche per Kamal il turno di presentarsi al cospetto di Giordano per depositare la jizya; trattandosi di un testatico dovette farlo per sé e per ciascuno della sua casa. L'obiettivo dell'Amiratus era infatti quello di censire la popolazione, per cui bisognava presentarsi con tutta la famiglia, uomini, donne e bambini. Se si fosse trovato qualcuno dentro le mura non censito o insolvente riguardo alla tassa dei dhimmi33 avrebbe pagato il suo reato con pene severe.
Quando Kamal si recò all'ufficio dell’‘amil, un gruppo di cristiani della città se ne stava sull'ingresso, insultando e gettando terra sui saraceni in fila. La sorte si era invertita e la jizya, il tributo per la protezione degli infedeli, adesso dovevano pagarla coloro che fino a qualche giorno prima la riscuotevano.
Arrivò poi il momento di Kamal, che dunque si presentò al cospetto di Giordano. Quest'ultimo, seduto e chino sui registri, mostrava la lunga chioma castana dai riflessi rame a chi si avvinava, mentre Yasir, accomodato accanto, annotava e conteggiava nomi ed entrate. Era inusuale che un uomo del rango di Giordano dovesse assolvere personalmente la funzione di esattore, ma tutto era stato attentamente organizzato secondo il fine della missione.
«Come ti chiami?» domandò Yasir, intanto che Giordano, a braccia conserte, guardava il nuovo giunto.
«Kamal ibn Umar, e questi sono i miei figli: Salman e Talal. Lei è Basma, moglie di Salman, e questi sono i loro figli, Musad, Maisa ed il piccolo Samir.»
Quindi l'attenzione di Yasir venne rivolta ad una donna, una giovane forse ventenne che se ne stava dietro a tutti gli altri. Yasir era un ragazzo, ma avvertiva pur sempre le pulsioni degli uomini; non seppe staccare gli occhi da quel viso bruno che timidamente osservava oltre le spalle degli altri.
«E lei chi è?» chiese il giovane contabile.
Kamal si voltò, vide la ragazza e, stringendola per le guance affettuosamente, la presentò:
«Lei è mia figlia Faiza... il fiore di Mahdiyya!»
La vide adesso anche Giordano, ma lui, uomo di mondo, non le diede lì per lì tanto peso.
Faiza era davvero un fiore di bellezza: occhi neri e lucenti come l'ossidiana di Cossyra, capelli crespi come le gorgonie dei fondali marini e labbra del colore dei coralli più preziosi. Vestiva di nero e si stringeva al capo un velo della stessa tinta... inoltre era scalza.
«Non hai moglie?» chiese piuttosto Giordano.
«Non più da molti anni, ma rivivo ogni giorno il ricordo della mia prediletta scrutando il viso somigliante di mia figlia Faiza.»
Effettivamente la ragazza doveva somigliare maggiormente alla defunta madre; la tonalità della pelle e i tratti facciali erano differenti sia dal padre che dai suoi fratelli. Yasir, pur senza mai indagare, giunse alla conclusione che quell’uomo avesse avuto tutti gli altri figli da una moglie diversa.
«Qual è il tuo mestiere?» domandò ancora Giordano.
«Vedilo tu... mio Signore!» rispose Kamal, presentandogli una stupenda collana di coralli rossi intagliata a piccoli dadi disposti in sette fili d'oro intessuti in parallelo.
«Per certo hai una signora a cui puoi regalarla.» cercò di accattivarselo l'artigiano.
Giordano allungò una mano e afferrò la collana per osservarla meglio da vicino.
«Davvero splendida!» esclamò.
«Le fai tu queste?» chiese poi incuriosito.
«Ho due barche che i miei figli, Salman e Talal, sanno governare a dovere e condurre fino alle foreste di corallo della zona. Ma io sono anni che non prendo il largo, in quanto preferisco rimanere nella mia bottega a dar vita a questi splendidi monili.»
Dunque Kamal cambiò espressione e tono.
«Riguardo a questa collana, mio Signore, considerala un dono all'amicizia che lega da qualche giorno le nostre genti. E poi, mio Signore, se non è troppo, vorrei mostrarti quali altre meraviglie custodisco nella mia bottega.»
«Non è stato già abbastanza ricco il bottino?» rispose con sufficienza Giordano, il quale chiaramente aveva compreso lo scopo delle lusinghe dell'altro.
«Guarda nel tuo bottino allora, e vedi se riesci a trovare qualcosa come ciò che tieni in mano. Non credere, mio Signore, che le mani dei soldati siano arrivati dovunque... io ho saputo ben custodire i gioielli della mia bottega.»
«Il prossimo!» urlò Yasir, comprendendo che la presenza dell'artigiano stesse diventando molesta.
Kamal sconfortato guardò per l'ultima volta Giordano e gli disse:
«La collana che tieni in mano, mio Signore... sappi che era destinata ad una donna che tu conoscevi bene, e che le doveva essere consegnata per mano di un uomo che conoscevi altrettanto bene.»
Giordano valutò immediatamente l'ipotesi che quel tizio fosse chi cercavano, quindi chiese:
«A cosa ti riferisci?»
«Non era tuo padre Rabel di Rossavilla?»
Giordano si alzò e domandò ancora:
«Come fai a sapere il suo nome?»
E Kamal, sorridendo e cambiando il tono della voce, rispose:
«Te ne parlerò se sarai mio ospite.»
Giordano non seppe proferire altro, impietrito da quelle parole lo vide andarsene senza poter ricevere spiegazioni.
«Credete che sia lui?» domandò Yasir, fissando dal basso il volto inquieto dell’altro.
«Oppure è solo uno che sa il fatto suo e che vuole ottenere prestigio per mezzo del regalo e della lusinga.»
«Conosceva il nome di vostro padre però...»
«Quanto ci metteresti tu a conoscere l'ascendenza di uno qualsiasi dei nostri baroni?»
«Beh... non è una cosa difficile. A questo punto mi chiedo se non sarebbe meglio bandire il nome di ibn Abbād e promettere lauti compensi ai suoi discendenti.»
«Se lo facessimo saremmo circondati da gente che si spaccia per chi cerchiamo... e quel tale Kamal sarebbe il primo a ripresentarsi, vantando un sangue che non è il suo.»
Giordano allora riprese a guardare il dono lasciato sul tavolo.
«A Corcira ho acquistato una schiava molto bella... una fanciulla che era la figlia di un notaio dell'isola. Una ragazzina talmente intelligente da sapere leggere e scrivere, e che ha imparato il latino di Sicilia in pochissimi mesi. Sono sicuro che questa collana le starà d'incanto!»
«E di quel Kamal che ne facciamo?»
«Accettiamo il suo invito. D'altronde per adesso non abbiamo altre strade da percorrere.»
«Non temete che uno sconosciuto possa rivelarsi un nemico?»
«Lo temo, Yasir... Manderò perciò questo pomeriggio stesso un manipolo di soldati a perquisire la sua abitazione e a spogliare la sua bottega di questi magnifici gioielli. Vedremo se gli starà ancora a cuore la mia amicizia!»
«È questo che vogliamo, Signore?» chiese il ragazzo, più perplesso che mai.
«Giovane Yasir, non sempre ciò che è saggio è anche la cosa giusta da fare. Lascia la pratica del bene ai religiosi e scegli quello che è risolutivo per la causa.»
Con quella lezione di pragmatico cinismo, Giordano concludeva la questione dell’intagliatore di coralli. L’avrebbe rimandata a quando si sarebbe presentato al suo cospetto dicendogli di aver accettato l'invito.
Intanto Kamal aveva lasciato il segno, un tarlo nella mente di Giordano che non l'avrebbe reso sereno. Dal momento che conosceva suo padre, era davvero lui l'uomo che cercavano? Oppure tutto era solo dovuto al fatto che l'artigiano cercasse una comoda via per il successo? La stessa sera il nobile siciliano si convinse che non avrebbe aspettato altro tempo e che l'indomani avrebbe bussato alla porta di Kamal... proprio a quella dimora che tanto si era preoccupato di far devastare dai suoi sottoposti.
Capitolo 5
Inizio luglio 1148, Mahdia
Il due del mese i siciliani entravano a Susa senza colpo ferire. La città era stata abbandonata al proprio destino dal suo governatore, uno dei figli di Hasan, e, non avendo più né guida né anima, i cittadini avevano aperto le porte ai conquistatori. La fortuna di Giorgio d’Antiochia sembrava non conoscere fine!