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Non Andare Mai Dal Dentista Di Lunedì
Non Andare Mai Dal Dentista Di Lunedì
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Non Andare Mai Dal Dentista Di Lunedì

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– È vero, mi scusi. Come comprenderà, non posso finire il lavoro qui, ma le posso dare un calmante assai forte che durerà alcune ore.

Peter lo guardò diffidente. Poteva fidarsi di un dentista che lasciava un lavoro a metà per chissà quale ragione?

– Che ne dice? Sarà solo una punturina da niente.

Peter fece un segnale affermativo con la testa vedendo che l'infermiera stava preparando un'iniezione. Lei la diede al dottore e allora lui si avvicinò a Peter, ma proprio in quell'istante l'immaginazione fervida di Peter accelerò e una semplice iniezione si convertì in un gigante, provocando un'emozione viscerale a Peter, che indietreggiò spaventato e, dopo aver emesso uno strillo, si girò di lato e iniziò a correre gridando:

– Mi vogliono assassinare!

Il dottore e l'infermiera lo guardarono mentre si allontanava.

– Dovremmo andargli dietro. Potrebbe rovinare tutto – disse il dottore.

Tutti e due si guardarono, lei cosciente del fatto che portava delle scarpe con i tacchi alti, lui cosciente che la corsa non rientrava nella sua dignità neanche come attività sportiva.

– Forse dovremmo dividerci. Uno che porti a termine la transazione e l'altro che metta in salvo il bambino – suggerì lei.

Il dottore la guardò con dolore, dolore per doversi separare da un esemplare così bello, anche se comprendeva che lei aveva ragione, lei era sempre stata la più intelligente dei due.

Peter continuò a correre e a gridare, finché fece un passo falso e percorse alcuni metri con la gamba zoppa per poi andare a sbattere contro qualcosa. Si fermò, obbligato sia dal dolore al piede che dalla sorpresa suscitata dal recente scontro.

– Figurati se guarda dove va! – esclamò un tizio grande come un armadio.

– Vede un dentista pazzo che mi segue? – chiese mentre si massaggiava il piede ammaccato.

L'uomo lo guardò come se fosse lui quello pazzo e si allontanò lentamente. Nonostante la sua stazza, non voleva fare accordi con qualcuno.

– Che succede? Perché si allontana? – chiese Peter seguendolo.

L'uomo non gli rispose e accelerò il passo.

– Non corra, per favore. Deve aiutarmi a trovare mio figlio. Lei ci mette i muscoli e io l'intelligenza.

– Non mi segua! Io non la conosco.

– Neanch'io conosco lei, ma mi dà delle buone vibrazioni e c'è sempre una prima volta – gli disse, nonostante quel tipo emettesse un odore misto tra sudiciume e alcol e il suo aspetto fisico fosse tutto fuorché tranquillizzante.

– Io non so dov'è suo figlio. Non sarebbe meglio che andasse alla polizia?

Peter non si era accorto che durante la loro conversazione l'uomo si era avvicinato sempre di più a una stazione di polizia e che stava salutando con un lieve movimento della testa un poliziotto in uniforme che stava sorvegliando la porta principale.

Si ricordò dell'avvertimento del dentista. Lui non aveva intenzione di entrarci, era meglio che si allontanasse di soppiatto.

Con un altro segnale il tizio, un poliziotto in borghese per essere più precisi, indicò a un altro poliziotto che doveva arrestare Peter.

Tale poliziotto si avvicinò veloce e silenzioso a Peter e, una volta al suo fianco, gli disse:

– Venga con me, per favore.

Peter si allontanò un po' di più, non aveva mai avuto un buon rapporto con il corpo di polizia e non aveva intenzione di vedere se questa volta sarebbe stato diverso. Il poliziotto si mise di nuovo al suo fianco e lo afferrò per il braccio.

– Non mi faccia usare la forza – gli disse.

– Mi lasci! – gridò Peter mentre si muoveva come un'anguilla —. Le ho detto di lasciarmi!

– Resistenza all'autorità. Ha diritto a… – Il poliziotto gli lesse i suoi diritti mentre lo ammanettava.

Peter si ritrovò di nuovo ammanettato, proprio come gli era successo varie volte in passato. Sapeva che adesso l'avrebbero obbligato a entrare in commissariato e non sapeva quando l'avrebbero lasciato andare, ma era anche cosciente del fatto che aveva un dovere da compiere: ricordava che doveva trovare suo figlio scomparso. Così, senza pensarci due volte, diede un calcio allo stinco del poliziotto e corse fuori più veloce che poté.

Però aveva le braccia ammanettate sulla schiena, cosa che gli faceva perdere l'equilibrio, creandogli delle difficoltà nel camminare, finché alla fine, dopo un ultimo passo falso, baciò il suolo.

– Ahia! – si lamentò e cercò di alzarsi. Gli faceva molto male il naso.

In quell'istante un'ombra alta gli si avvicinò mettendosi davanti a lui e posando una mano sulla sua spalla.

– Mi sembra che sia rotta, fratellino – disse e, nonostante la sua sobrietà, dal tono di voce si capiva che la situazione lo stava divertendo —. Andiamo, abbiamo delle cose da fare.

VII – Entrata nel parco giochi

Il parco giochi traboccava di gente, sebbene fosse un giorno lavorativo.

Batman e Topolino avanzavano con difficoltà. Topolino sorrideva ai bambini che gli si avvicinavano, invece Batman aveva voglia di allontanare quei mocciosi con una manata.

– Le montagne russe! – esclamò allegramente Alexis nel vederle —. Voglio salirci, per favore. Per favore, per favore, per favore!

Batman aprì la bocca, ma Topolino gli fece cenno di non dire niente, indovinando che la parola che il suo compagno avrebbe pronunciato era volgare, per cui Batman respirò e pronunciò un tranquillo "cavolo" che piacque a Topolino e non attirò l'attenzione di Alexis.

Alexis vide con dispiacere che si stavano allontanando dalle montagne russe, ma poco più avanti c'era la ruota panoramica. Alexis la guardò con occhi bramosi, ma il suo desiderio non era destinato a realizzarsi e con dispiacere vide che si stavano allontanando e che stavano andando verso le postazioni del tiro con l'arco.

– Devo fare una telefonata – disse Batman —. Tieni bene d'occhio il bambino.

Sembrò che Topolino non l'avesse ascoltato, quindi Batman gli diede un colpo sulla spalla e Topolino rispose alzando e abbassando il dito medio tre volte.

Batman si allontanò un po', mentre Topolino e Alexis lo stavano aspettando di fianco a una postazione del tiro con l'arco.

– Sì, va tutto secondo i piani – disse Batman al telefono —. Sì, abbiamo seguito l'orario accordato. Ci terremo in contatto. – E dopo aver riagganciato, aprì il cellulare, tirò fuori la SIM e la sostituì con un'altra usa e getta.

– Non hai comprato dello zucchero filato al bambino? O delle mandorle caramellate – disse una volta tornato —. Ricorda che dobbiamo intrattenere il bambino.

Tutti e tre si diressero verso uno di quei posti che vendevano dolciumi. Batman tirò fuori delle monete, comprò dello zucchero filato e lo diede a un Alexis sorpreso, che guardava lo zucchero con un'espressione strana.

– Prendilo, è per te – disse bruscamente Batman.

– Cos'è? – chiese Alexis guardando quella cosa rosa —. Io non l'ho mai preso.

– Prendi lo zucchero filato, non morde – disse Batman, mentre Topolino annuiva con la testa.

– Mia mamma non vuole che mangi caramelle. Questa è una caramella?

– E tua madre non ti ha detto che è molto scortese rifiutare un regalo? Prendi il maledetto zucchero che non me lo porterò dietro per te.

Alexis contrasse le labbra, respirò a scatti e i suoi occhi si riempirono di lacrime dal momento che non era abituato a essere trattato in quel modo.

– Ma cosa fai? È solo un bambino – gli rinfacciò Topolino solo con uno sguardo, mentre Batman sbuffava.

Poi prese per mano Alexis, che si tranquillizzò velocemente.

– Spero che questo giorno passi in fretta in modo da restituire il bambino – disse Batman.

Tutti e tre avevano camminato senza una meta precisa e ora i loro passi li avevano condotti a una giostra di fianco a un edificio con un cartello con su scritto che nell'interno dell'edificio si nascondeva un mondo magico grazie agli specchi.

Alexis lo guardò con occhi bramosi, ma stavolta non disse niente; non capiva perché quei signori l'avevano portato in quel posto e non lo lasciavano salire sulle giostre da sballo.

Tutti e tre entrarono nella casa degli specchi, ma invece di divertirsi grazie alle singolari figure restituite dagli specchi, Topolino e Batman condussero Alexis davanti a uno di essi, Batman lo spinse e i cardini dello stesso girarono per dare accesso a una stanza preceduta da un corridoio breve.

– Dove andiamo? – chiese Alexis, ma non ricevette risposta.

Lo specchio-porta si chiuse dietro di loro e Alexis si spaventò vedendosi circondato dal buio.

– È molto buio – disse e afferrò la mano di chi aveva più vicino, Batman.

– Molla, microbo! – ordinò Batman in malo modo.

Ma quando era spaventato Alexis non obbediva agli ordini, così afferrò la giacca di Batman con le sue manine.

Batman brontolò a causa del fastidio che gli dava quel moccioso, ma non cercò di liberarsene subito, sebbene si sentisse oppresso da un simile attacco alla sua persona, forse perché non era abituato a essere trattato in quel modo e l'oscurità regnante gli impediva di vedere la faccia spaventata del piccolo Alexis.

Batman aprì un'altra porta e vi entrarono tutti e tre. Topolino raggiunse l'interruttore, che illuminò la stanza, e davanti agli occhi di Alexis apparve ciò che a prima vista sembrò una piccola sala giochi, ma che in realtà nascondeva una cella dove nascondere Alexis. Quest'ultimo lasciò andare finalmente Batman e corse a sedersi sul pavimento, dove aveva visto il suo gioco preferito.

Batman e Topolino, approfittando del fatto che Alexis era entusiasta di giocare senza sosta, uscirono dalla stanza chiudendo le porte una dopo l'altra e lasciando il bambino isolato dal mondo esterno.

Una volta fuori, Batman si accorse di avere ancora in mano lo zucchero filato, quindi lo buttò nel primo cestino che vide. Poi tirò fuori dalla tasca un cellulare e fece una chiamata veloce comunicando al suo interlocutore gli ultimi avvenimenti della vita di Alexis.

– Andiamo – disse quando riagganciò e se ne andarono tutti e due.

Nel frattempo Alexis, rendendosi conto che l'avevano lasciato solo, ne approfittò, forse per la prima volta in quel giorno, per rendersi conto che gli mancavano i suoi genitori, anche se sentiva di più la mancanza di sua mamma. Sua madre che, sebbene fosse una persona molto occupata, trovava sempre il tempo per stare con lui, giocare con lui o dargli la cena. Avvertì un sentimento sconosciuto fino ad allora, un'inquietudine che l'obbligò a lasciare il giocattolo che in quel momento teneva tra le mani e, sedendosi in un angolo della stanza, cominciò a pensare ai suoi cari genitori. Si ricordò del consiglio che gli dava sempre sua madre: di non separarsi mai da loro; ma il fatto era che a volte non poteva evitare di fare certe cose. La curiosità che l'aveva spinto a separarsi dalla sicurezza che gli fornivano sia suo padre che la stanza in cui si trovava in quel momento, quella stessa curiosità lo spinse a percorrere con lo sguardo la stanza in cui si trovava. Oltre ai diversi giochi e giocattoli sparsi per la stanza, c'era un tavolo con la sua sedia sulla quale c'era qualcosa coperto con un tovagliolo. Ancora una volta la curiosità influenzò il bambino e quest'ultimo tirò via il tovagliolo per scoprire che stava nascondendo una porzione di torta al cioccolato e un bicchiere di latte.

Alexis non aveva un orologio e non sapeva quanto tempo era passato dalla visita dal dentista, ma vedendo la torta gli sembrò di non aver mangiato da secoli. Si sedette in fretta al tavolo, pronto a mangiare quella torta invitante.

Dieci minuti dopo aveva le mani e la faccia macchiate di cioccolato e un baffo bianco. Sbadigliò due o tre volte in maniera incontrollabile, mentre gli si chiudevano gli occhi e il sonno lo invadeva inevitabilmente. Non aveva neanche voglia di dormire in quel momento, ma presto notò che non poteva tenere gli occhi aperti. Scese dalla sedia e si rannicchiò sotto il tavolo con le gambe ripiegate. Dopo alcuni secondi si era già completamente addormentato.

Poco dopo Topolino entrò di nuovo, sparecchiò il tavolo e si chinò per vedere Alexis. Lo trascinò con attenzione per non fargli male, finché lo tirò fuori da sotto il tavolo. Lo prese tra le braccia e, una volta attraversata la stanza, lo mise in un letto che non si vedeva, dietro un paravento. Poi lo coprì e uscì dalla stanza cercando di fare meno rumore possibile, anche se sapeva che il bambino non si sarebbe svegliato per il momento.

Fuori lo stava aspettando Batman, che nel vederlo gettò via la sigaretta che stava fumando.

– Ora abbiamo qualche ora libera – disse Batman —. Odio fare la babysitter.

Topolino alzò le spalle, iniziava a conoscere il suo compagno.

– Non alzare le spalle, sai che non mi piace – disse Batman —. Odio anche te, compagno.

Topolino fece un mezzo sorriso sotto la maschera e poi fece per togliersela.

Batman trattenne il suo braccio con violenza, mentre si guardava intorno verificando quanta gente c'era. Topolino si fermò, anche se aveva bisogno di togliersi quella maschera quanto prima, iniziava a dargli fastidio.

– Aspetta quando saremo in macchina, qui siamo troppo esposti. Qualcuno potrebbe notare le nostre facce – disse Batman mentre iniziava a camminare verso l'uscita del parco giochi.

Alcuni minuti dopo arrivarono alla macchina e nel vederla Batman lanciò una maledizione, aveva una ruota a terra.

– Maledetti bambini! – gridò, mentre colpiva con rabbia il cofano della macchina.

VIII – Un viaggio improvviso

Vivian era distratta da un po', innanzitutto per colpa della perdita della busta e poi per la visita di quell'uomo che le aveva fatto una richiesta un po' particolare. Ma Vivian era soprattutto una donna d'affari, per essere più precisi, una donna pratica di affari che valutava i pro e i contro di ogni situazione in modo ormai istintivo grazie ad anni di esperienza. Quindi, senza neanche riflettere più dello stretto necessario, calcolò il passo successivo da fare, più per istinto che per un pensiero razionale. Per prima cosa, disse alla sua segretaria che non voleva essere disturbata in nessun caso.

Successivamente decise di trattare la richiesta dello sconosciuto come se si trattasse di un affare in più. Quindi valutò mentalmente i possibili vantaggi e svantaggi della richiesta.

Non le aveva chiesto soldi, né un lavoro, era qualcosa di meno materiale. E Vivian, che si lasciava guidare solo dai suoi sentimenti per la sua famiglia, pensò che avrebbe potuto fare un'eccezione con la richiesta dello sconosciuto. Doveva fare un paio di telefonate, chiedere un paio di favori.

Sganciò il telefono per fare la prima telefonata.

Dieci minuti dopo aveva avviato la faccenda e pensò che presto sarebbe stata l'ora di mangiare e che avrebbe potuto andare a casa. Non era abituata a farlo, ma all'improvviso sentì che aveva bisogno di stare vicino a suo figlio.

Fu l'istinto materno che le fece concentrare i suoi pensieri su suo figlio in quel momento? Fu quell'istinto a suggerirle di chiamare a casa sua e interessarsi del suo rampollo dopo l'appuntamento dal dentista?

Prese il telefono, chiamò casa sua e aspettò pazientemente che qualcuno rispondesse.

– Casa Clarke – sentì rispondere Frans.

– Frans, sono io. Mi passi Peter.

– Signora, al momento suo marito non si trova fra queste mura – rispose Frans con un linguaggio ricercato.

Vivian guardò l'ora e replicò:

– Non può essere. Aveva l'appuntamento alle nove. Dove diavolo saranno?

– Non lo so, signora – rispose Frans, lo stoico maggiordomo.

– Mi faccia il favore di avvisarmi quando arrivano. Potrebbe aver portato il bambino a mangiare un hamburger nel suo vecchio paese.

– Sarà fatto, signora. – E riagganciò dopo aver sentito Vivian riagganciare a sua volta dopo averlo ringraziato.

Il passo successivo sarebbe stato chiamarlo al cellulare, ma Vivian preferì chiamare l'Esattore.

Il cellulare dell'Esattore squillò, per cui lui lo tirò fuori dalla tasca con l'intenzione di vedere chi stava cercando di contattarlo in quel momento. Doveva rispondere, quindi premette il tasto di chiamata.

– Ciao, Vivian. Qualcosa non va?