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Solo Per Uno Schiavo
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Solo Per Uno Schiavo

4

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Solo Per Uno Schiavo

Al si alzava, ogni giorno, molto presto. Cercava di andare in bagno durante la notte, mentre la sua Padrona dormiva. Non sempre, però, ciò era possibile. Aveva bisogno di un permesso speciale, anche per fare pipì. Ma non doveva assolutamente svegliarla, per chiederglielo. In linea di massima, era meglio non far sapere ad Aletta che lui, in bagno, ci andava. Perché, a quel punto, lei avrebbe voluto sapere perché lui -in bagno- ci stava andando. E cosa ci andava a fare e come lo faceva. La prospettiva di morire di blocco intestinale era molto più allettante di quel ridicolo terzo grado.

Quella mattina, Al era stato più discreto del solito. Dopo l’incidente col bellissimo Efebo era cruciale non attirare l’attenzione. Non più del solito, almeno. Quindi, aveva già obbedito a mezza dozzina di richieste assurde. Era lì che svolgeva il suo allenamento -Aletta lo voleva sempre pompato e senza un filo di grasso- quando uno degli Schiavi di Melinda piombò nella suite. La notte prima, Amir era stato trovato sul Ponte Principale. Svenuto, insanguinato, derubato. Le guardie erano già all’opera.

“Devo andare! Tu finisci i tuoi esercizi! Se scopro che non hai combinato nulla, ti aumento il carico!” minacciò la donna, prima di correre fuori dalla stanza.

E Al obbedì. Non che avesse chissà che altro da fare. Sicuramente Aletta sarebbe rientrata subito.

Ma Aletta non rientrò. La Bestia, quindi, decise di sfidare la sorte. Prese un libro e iniziò a leggere. Poteva farlo solo in quei rari momenti in cui ci si dimenticava di lui.

Lui adorava leggere. Avrebbe voluto farlo sempre. Aveva una grande immaginazione, ma era riuscito a finire pochissimi libri. Spesso era stato interrotto, proprio sul più bello. E quel libro, lui, non l’aveva mai più visto.

Oltre trent’anni di Schiavitù l’avevano svuotato. Era vivo, ma era morto dentro. Non aveva una vera e propria opinione emotiva. Nessuno gli chiedeva un parere. E quando succedeva, la sua risposta doveva corrispondere al volere dei Padroni. Un perfetto Animale domestico, creato per soddisfare ogni tipo di desiderio. Quelli di tutti, tranne il suo. Non si poteva dire nulla sul suo carattere. Semplicemente, non ne possedeva uno. Non aveva bisogni particolari che richiedessero soddisfazione. Non c'era nulla che Aletta potesse fare per dargli un po’ di gioia. Non che lei l’avrebbe fatto, sia ben chiaro. Dopotutto, era dovere di Al portare gioia ai Padroni. Non viceversa.

A ogni modo, il libro del giorno si intitolava, ‘Più Forte Della Morte’. L’autore, Albireo, era famoso per le tematiche e le storie a sfondo omosessuale.

O, forse, quel genere era quello più popolare a Firokami.

La trama era molto semplice. Il figlio di un ricco uomo d’affari di Frican torna a casa dall’Università e si innamora di uno Schiavo zombie.

A metà lettura, intrigato e confuso, Al sbirciò la fine. E fu ancora più confuso. Una conversazione tra due personaggi di cui, ancora, non aveva letto nulla. L’Amore è sempre più forte. Sia della Vita, sia della Morte. Fine. L’Albireo era famoso anche perché, nelle sue opere, il lieto fine era una costante. Anche se quei personaggi erano, apparentemente, morti. L’importante è stare assieme a chi si ama. Così pensava Al, anche se lui non avrebbe mai avuto un lieto fine del genere. Ritornò, comunque, a leggere dove aveva interrotto.

Arrivò esattamente fino al momento in cui il padre -disperato- decide di non interferire con la storia tra suo figlio e lo Schiavo, in modo da fargli capire da solo che razza di errore sia mischiarsi coi morti. E proprio in quel momento, Aletta entrò nella stanza. La Bestia era seduta, a gambe incrociate, sul pavimento. Aletta lo guardò e sorrise. Brutto segno. Lo Schiavo, però. Non si scompose. Chiuse il libro e lo rimise a posto. Aletta si sedette, mentre poggiava una borsa sul tavolo.

“Che follia! Dove andremo a finire! Aggredire un Padrone! Sarà sicuramente uno Schiavo che non è stato educato a dovere. Posso solo immaginare cosa gli faranno, quando lo troveranno. Tu cosa pensi che dovremmo fare, a Schiavi del genere?” chiese Aletta.

“Punirli, Padrona,” rispose Al.

“Certo,” annuì la donna. Poi, indicò la borsa. “Ti ho portato la colazione. Mangia.”

Al si alzò, raccolse la busta e si rimise sul pavimento. Zuppa, un po’ di carne, del succo di frutta. Si trattava palesemente di avanzi. Non era certo la prima volta. Ma il pensiero che il giorno prima si fosse scopato un Angelo del Paradiso e quella mattina una donna sul viale del tramonto, gli faceva specie. Non aveva proprio fame, ma non poteva disobbedire a un ordine. Poi, lo avrebbero lasciato senza cibo per giorni. Quindi, infilò una mano nel sacchetto e prese la prima cosa che gli capitò. Lo Schiavo aspettava pazientemente la vecchiaia. A quel punto, avrebbe smesso di essere interessante per i Padroni. Nessuno avrebbe speso tempo e denaro per un restauro. Avrebbe dovuto aspettare una decina d’anni, non di più. Non vedeva l’ora di essere vecchio e brutto. La sua Padrona adorava la carne fresca. Perdeva tempo con lui solo ed esclusivamente perché la sua bellezza era fuori dal comune. Ma alla prima ruga gli avrebbe dato un calcio in culo ben assestato. E non ci sarebbe stato nulla tra lui e il Mare. Ma, in quel preciso istante, Aletta era lì che gli toccava le natiche con la punta delle sue scarpe tacco dodici.

“Mettiti a quattro zampe, per mangiare.”

Lo Schiavo obbedì. E la punta di quel tacco dodici gli penetrò lo sfintere.

“No, sdraiati e mangia,” ordinò, di nuovo, Aletta. Lo Schiavo obbedì un’altra volta, sperando fosse l’ultima. Ma Aletta infilò il tacco fino al calcagno. Quel sottile pezzo di metallo riaprì abrasioni vecchie, mentre ne apriva di nuove. E Al urlò.

“Vi prego, Padrona! Fa male!” implorò, irrigidendosi.

La donna, per tutta risposta, rise e iniziò a fare avantindietro.

“Certo che fa male. Deve fare male! Mica mi diverto, sennò!”

La sofferenza della Bestia era quasi commovente. Sarebbe stata capace di scioglierle il cuore, se ne avesse avuto uno.

Al ruggì di dolore, stringendosi la testa fra le mani. Come avrebbe voluto essere uno Schiavo Zombie in un lontano Paese dimenticato.

“Hai due scelte. Disabituare il tuo intestino a lavorare come si deve oppure diventare un Cuore per i Padroni. Non ringraziare me. È stata un’idea di Gene!”

“Non so cosa significhi, Signora. Potreste spiegarmelo, per favore?”

Aletta si appoggiò allo Schiavo, sorridendo.

“Ti faremo un clistere, dopo ogni pasto. Tempo un mese, il tuo intestino non vorrà più essere tale. Perché non ci riuscirà,” disse, raggiante, mentre sfilava -finalmente- il tacco dal culo di Al. Solo per calpestargli i testicoli, subito dopo.

La Bestia non aveva pace.

“E il Cuore sarà proprio qui, tra le tue palle. Che non ti verranno tagliate solo perché Gene è più che contrario. Chissà poi perché.”

“Ma mia Signora. Volete rinunciare a me per darmi ad altri Padroni?” chiese lo Schiavo.

“Macché! Il tuo destino è quello di morire sotto la mia proprietà, fattene una ragione,” disse. Poi, rise. “Chi mai rinuncerebbe a te?”

“Ma Signora. Perché mi fate scegliere, tra intestino e Cuore? Voi avrete sicuramente già deciso.”

“Embè? Voglio che tu scelga lo stesso!” rispose la donna, senza mai smettere né di ridere né di schiacciare i testicoli -ormai martoriati- di Al.

Al era certo che, qualsiasi cosa scegliesse, Aletta l’avrebbe obbligato a fare il contrario. Cosa scegliere, quindi, tra la padella e la brace?

“Distruggete il mio intestino, Signora. Il mio culo diventerà il luogo più pulito dell’universo, per i miei Padroni,” disse, infine, Al. La sua cautela era quasi visibile, mentre pronunciava quelle parole.

“Bene. Mangia,” ordinò la donna, tornando a sedersi e osservandolo.

Lo Schiavo ripensò alle parole che aveva sentito migliaia di volte, quando si trovava ancora a Dora. Morirai qui. E invece era stato comprato da Aletta. Anche lei, talvolta, lo diceva. Ma la Bestia sperava davvero si sbagliasse. Dopotutto, le capitava -molto spesso- di parlare a vanvera. Quindi, continuò a trangugiare la sua colazione. La donna sorrise tutto il tempo. Quando finì, Al scoprì il motivo del suo buonumore. Un vibratore.

Ecco cosa nascondeva.

Quell’arnese era enorme. Ci aveva già a provato, ma non si adattava affatto alla Bestia. L’ultima volta lo aveva perfino tagliato. Al rabbrividì, quando la sua Padrona lo accarezzò con quel glande di gomma. Si fermò proprio sull’entrata. E lo Schiavo rabbrividì.

“Lo riconosci? Siete vecchi amici, mi pare.”

“Vi prego, mia Signora! Perché volete punirmi?” implorò lo Schiavo. E sembrava crederci.

“Ma non è una punizione!” esclamò Aletta, con lo stupore più fasullo che potesse tirare fuori. “Si tratta di una ricompensa! Sborrerai fino all’ora di cena! Non sei contento?”

Il concetto di Premio periodicamente veniva abbinato a quello di Punizione. Senza nessuna logica, ovviamente. I Padroni agivano così perché così era, punto. Un gruppo di bambini troppo cresciuti a cui piace impiccare lucertole e gattini, giusto per. Non provavano nemmeno a nasconderla, la loro natura. Capitava che il bullismo fosse talmente estremo che perfino uno Schiavo navigato come Al se ne lamentasse. Aletta lo sapeva e lo puniva di conseguenza. Sperava, in tal modo, di scacciare la Bestia.

“Vi prego! La mia ricompensa più grande è quella di ammirarvi e stare con Voi! Non perdete tempo a ricompensarmi!” esclamò Al. Ma, in realtà, quel cambio nella routine lo interessava.

Poi, voleva riprovarci. Chissà che quella volta sarebbe stato in grado di ingoiarlo tutto.

Aletta rise. Era riuscita a spaventare un Dio Pagano. Poverella. Mica l’aveva capito che fingeva!

“Alza quel culetto, da bravo,” cantilenò la Signora.

E Al obbedì. Come sempre, i Padroni si rivelavano creature stupide. La donna tirò fuori una lama e incise lo sfintere del poveretto. Era passato del tempo, troppo tempo. E se si fosse abituato e non si fosse tagliato? Meglio prevenire. Dopo, spalmò la verga di lubricante. Quando -poi- iniziò a preparare il passaggio, Al cominciò a masturbarsi. Un disperato tentativo di alleviare il dolore. Ma la Padrona non era affatto d’accordo e gli strizzò le palle.

“Se ti contorci, io -queste- te le strappo.”

Lo Schiavo si bloccò. Allontanò le mani dal suo scroto e se le portò al volto. Quando la punta venne, lentamente, introdotta, urlò. Il dolore fu come lava rovente nel suo intestino. Bene.

“Perché mai devi fare sempre queste sceneggiate ogni volta che ti infilo qualcosa in culo? Non stai mica morendo!”

Al tremava, coperto di sudore freddo. Il dolore era acuto, fisso e pulsante. Calde lacrime gli rigarono il viso. Finalmente, qualcosa di nuovo! La donna aveva infilato quel coso tutto fino alla fine, dove lo bloccò con un plug. Poi, gli toccò il cazzo. Stranamente, era ancora duro.

“Ma che bravo! Guarda, non ti metto nemmeno l’anello!” disse, aprendo il portatile.

Al non si mosse. Cercò di rilassarsi, ma il dolore non accennava a diminuire. Anzi, il buco si strinse. Di conseguenza, divenne ancora più doloroso. Lo Schiavo strinse i pugni, tirandosi i capelli. Tremava tutto. Poi, vennero i singhiozzi. Dopo, si pisciò addosso. Non si era mai sentito così vivo.

Aletta sorrise. Tutto il tempo.

“Padrona, mia Padrona! Vi prego, basta,” pianse la Bestia, sperando di non essere ascoltato.

“Ma che dici? La cena è ancora lontana! Goditelo!” rispose la vipera. “A meno che non ci sia qualcos’altro che catturi la mia attenzione. Sono tutti al capezzale di Amir, adesso. Io sto cercando quel nuovo bocconcino su Internet. Così verrà a giocare con noi!”

D’improvviso, il lampo di genio. E se-?

“Potrei punire qualcuno per Voi, Signora,” propose Al. E si sentì una merda, quando lo fece. Ma quel dolore non lo stava facendo ragionare. E quell’Efebo era troppo conturbante, per lasciarselo sfuggire.

Aletta si voltò, di scatto, il volto illuminato dalla gioia. Uno spettacolo orribile.

“Bello! Punirai il ragazzino in pubblico! Non ti limiterai a scopartelo a sangue, oh no, lo punirai come si deve! Voglio che lo umili nell’intimo! Ma sappi una cosa,” aggiunse, poi, maligna. “Se non ti impegnerai, se non farai del tuo meglio, se non mi piace come ti comporti, se dovesse dispiacerti per lui, povero te! Quello che stai subendo ora, ti sembrerà il Paradiso.”

Dopo di che, gli si avvicinò. Poi, tirò fuori il vibratore. Piano piano. Al si pisciò, di nuovo, addosso.

“Ora vai in bagno e pulisciti. Puoi riposare, almeno due orette. Tanto, quello lì, non si farà vedere prima di pranzo.”

CAPITOLO SEI

Tutta la Compagnia era riunita sul Ponte Superiore. Stine annuì, quasi impercettibile.

“Okay,” disse Aletta, capendo al volo. Poi, si voltò verso Al. “Vedi quel ragazzo? Prima fila, terza sdraio. Bene, vai e colpisci. Vedi di non deludermi.”

E Al lo vide. Aveva sperato fino all’ultimo che non si trattasse di lui. Aletta lo aveva usato altre volte, come mezzo di vendetta. Litigava con qualcuno, o qualcuno osava non leccarle il culo, e lei colpiva. Usando proprio lui. Era la sua arma. Ma in quel momento, la vittima era il suo Angelo. Tutti quei discorsi riguardavano lui. Si erano incazzati. Ma perché? Al non lo sapeva.

Si avvicinò, col gelo nel cuore, non appena ricevuto l’ordine. Sicuramente i Padroni l’avevano già adocchiato, ancor prima che loro due si conoscessero. E come dar loro torto? Una tale bellezza non passava certo inosservata.

Il piano era sempre uguale. Al avrebbe lusingato la vittima e quella ci sarebbe cascata con tutte le scarpe. Poi, una volta venuta a conoscenza che era tutta una finzione istigata da Aletta -e non perché Al trovasse l’oppresso di turno particolarmente attraente- l’umiliante martirio poteva cominciare.

Ma non quella volta.

Doveva assolutamente avvisare il ragazzo, dirgli di fuggire dalla nave. Ma come? Ormai era di fronte a lui. Che fare? Improvvisazione era la parola chiave.

“Ciao”, esordì Al, inginocchiandosi accanto alla sdraio. Ad aprì gli occhi, restando senza fiato. Si ricordava, eccome, di cotanta magnificenza. Il suo microslip stava già diventando stretto.

“Ciao a te”, rispose, quindi, sorridendo. Al incombeva su di lui, i lunghi capelli che celavano il volto da sguardi troppo abili nella lettura delle labbra.

“Devi nasconderti e abbandonare la nave. La crociera la finirai un’altra volta,” bisbigliò.

“Adesso?!”

Quella dichiarazione arrivò completamente inaspettata. Quei bellissimi occhi cremisi fissarono, stupiti, la Bestia.

“No,” sussurrò Al, mentre lo accarezzava. “Dopo che ti avrò scopato”.

La reazione di Ad fu immediata. Emise un lungo gemito di aspettativa, già in preda alla lussuria e al ricordo delle sensazioni provate sotto quelle stesse mani. Sollevò il volto, per poterlo baciare, ma Al seppellì il volto tra i suoi capelli. Non poteva mostrare il minimo cenno d’affetto. Ne moriva, ma non poteva farlo. Avrebbe dovuto essere crudele. Perciò, si sedette e attirò quel bellissimo viso tra le sue cosce. Poco prima di seppellire il suo cazzo nella gola del ragazzo, quello urlò. Spalancando meravigliosamente la bocca.

I Padroni iniziarono ad arrivare, accompagnati dai loro Schiavi. Ognuno di loro ordinò ai servitori di toccarli. Non specificarono nemmeno il come, non avevano bisogno di alcuna tecnica per poter godere. Quello spettacolo era più che sufficiente. Tra la folla, Stine e Gene condividevano lo stesso Schiavo. Amir, alla faccia della convalescenza, stava abusando di un ragazzino. E brutalmente pure.

Al, dal canto suo, era combattuto. Quell’Efebo era splendidamente terribile. Quando gli venne in gola, quasi non si strinse. Ingoiò tutto con gioia. Era sbagliato. Se mostrava piacere, i Padroni gliel’avrebbero fatta pagare.

Decise di aumentare il carico.

Non gli diede tempo di riprendersi. Gli afferrò i capelli sulla nuca e lo guardò. Le labbra gonfie, un rivolo di bava che sgorgava da un lato, gli occhi lucidi, bellissimo.

Oh, quanto avrebbe dato per possedere tale gemma!

Ma quei pensieri erano pericolosi.

Lo afferrò e lo sbatté sulla sdraio. In un attimo, gli fu sopra. E lo penetrò, senza nemmeno prepararlo. Si rese subito conto che, comunque, non ne avrebbe avuto bisogno. Quella bellezza riusciva ogni volta a stupirlo. Ad cominciò a muoversi e gemere, contorcendosi in preda all’estasi.

Non andava bene proprio affatto!

Al cercò di distrarsi da quell’immenso piacere, pensando a come umiliare la sua vittima e -allo stesso modo- a non offenderla. Anche se, a ben vedere, per offendere tale famelico bocconcino ci sarebbe voluto un miracolo.

Si guardò attorno. Tutti i Padroni erano impegnati a scopare col vicino più prossimo. Tutti quanti. Riportò la sua attenzione alla meravigliosa creatura che aveva davanti. Ad tutto sembrava, tranne che umiliato. La Bestia doveva escogitare qualcosa e al più presto. Ma quel folletto ribelle si dimenava oh-così-sinuosamente sotto di lui che gli era impossibile pensare. Allora con una mano gli afferrò -di nuovo- i capelli, tirando forte. L’altra gli immobilizzò un fianco. Le spinte divennero più violente e mirate. Abbandonata la criniera, si concentrò sul piccolo ma delizioso pene del giovane. E strinse.

“Oh, mio Dio!” urlò quello, più volte.

Al si stava innervosendo. Possibile non gli importasse un beato accidente che se lo stesse scopando, con rabbia, davanti a tutti? Senza che fosse stato lui ad approcciarlo? Come poteva portarlo a ribellarsi e nascondersi, se la sottomissione pubblica non lo umiliava minimamente! Anzi, se la stava godendo come un ossesso!

Non voleva ricorrere al dolore fisico, ma sembrava l’unica soluzione.

Afferrò i testicoli, quasi glabri, e strattonò. Il ragazzo urlò, per la prima volta, di dolore. Ma si strinse alle spalle della Bestia, come in cerca di protezione.

“Sei un Dio!” gridò, tra i gemiti. “Sei il mio Dio!”

Al ebbe quasi il coraggio di ammosciarsi, mentre era ancora sepolto in quel calore.

Non glielo aveva mai detto nessuno. Mai, in più di trent’anni!

La felicità gli fece venire un coso alla gola. Subito, però, percepì la malvagia invidia dei Padroni.

Lui un Dio? Un cazzo di Schiavo?! Ma quando mai!

Doveva risolvere e in fretta.

Ritornò a masturbarlo e quello venne, un suono melodioso che Al già conosceva. Sapeva l’effetto che avrebbe provocato. Infatti, poco dopo, i Padroni lo imitarono.

Ma Al era un professionista. Rimase concentrato sul compito. Nulla avrebbe potuto distrarlo. Continuò a spingere, sempre nello stesso punto. Il ragazzo urlava, abbracciandolo disperato. Ci volle pochissimo perché ritornasse duro.

La Bestia agì d’istinto.

Sollevò una mano e la lasciò cadere sul volto del giovane. Non fu uno schiaffo, ma -da lontano- lo sarebbe sembrato. Era ciò che contava.

Riafferrò quei capelli di seta e tirò di lato, esponendo la gola. Digrignò i denti, prima di affondarli in quella tenera carne. Forte. Sangue fresco e profumato gli si riversò tra le labbra. Ad singhiozzò. Dolore? Piacere? Entrambi? Mistero, ma fu delizioso.

“Sei il mio Dio,” ripeté, tra i gemiti.

Niente, non cedeva di mezzo millimetro.

Cosa ci voleva, per spezzarlo? Non c’era verso di farlo spaventare. Nemmeno ferirlo era servito a qualcosa.

A mali estremi, quindi, estremi rimedi.

“Ascoltami,” gli sussurrò. “Ho bisogno che tu lotti con me. Fingi che ti stia stuprando e che non ti piaccia. Cerca di liberarti e scappare. Puoi farlo?”

Il ragazzo lo guardò. Gli occhioni belli colmi di lussuria. Poi, si morse il labbro. Se lo morse talmente forte da spaccarlo.

“Vuoi che implori?” chiese.

No, seriamente. Chi cazzo era, quell’elfo?!

“Certo,” rispose la Bestia, prima di baciarlo. Bacio che venne ricambiato imperiosamente. Subito, lo Schiavo si allontanò. Per Ad, quello, fu il segnale. Iniziò a dimenarsi e cercò di staccarsi da lui.

“Ti prego, no! Lasciami!” urlò, in maniera molto convincente. Troppo convincente. Se si ignoravano i gridolini di due secondi prima, ovvio. Ma i Padroni non erano esattamente in grado di intendere e di volere. In linea generale e ancora meno in quel momento.

Al, quindi, uscì di botto da quel corpicino delicato. Spinse il giovane a terra, tra le sue gambe.

“Succhia!” gli ordinò, malvagio.

Ad scosse la testa, in lacrime. Allora lo afferrò, di nuovo, per i capelli e glielo mise a forza in gola.

Quel piacere, di nuovo. Viscoso. Miele e sangue.

Mentre succhiava, Al infilò un piede tra le cosce dell’Efebo e accarezzò il buchetto -appena usato- con l’alluce. Ad stava dando prova di essere un grande attore. Cercava di spostarlo e, contemporaneamente, se lo spingeva dentro. Lo Schiavo fece, ancora, finta di schiaffeggiarlo. Quando venne, sentì i muscoli di quella gola famelica che lo succhiavano fino all’ultima goccia.

Una volta venuto, lo buttò sul pavimento. Mentre si trovava schiena a terra, gli calpestò -piano- i testicoli.

“Hai capito cos’è che devi fare? Alla prossima fermata, scendi da qui e vatti a trovare un protettore!”

“Ma ne ho già uno!” piagnucolò Ad.

“Allora vedi di stargli attaccato, notte e giorno!”

A quel punto, Ad si sollevò e iniziò ad accarezzare la bellissima Bestia. Piano, con reverenza.

“Va bene. Ma perché devo scendere? Lui è già qui,” disse, guardandolo implorante.

“Bene! Vedi di attaccarti a lui!”

Beata ingenuità.

Non ci arrivava proprio che si stesse riferendo a lui.

Sputò in bocca a quel prodigio della natura e lo maltrattò, per finta, qualche altro istante. Giusto per essere sicuro. Poi, riuscì a chiedergli, in un soffio, “Come ti chiami?”

“Ad, e tu?”

“Al,” rispose la Bestia.

Subito, si ricordò.

“Alon,” si corresse.

Era quello il suo nome. Quand’era stata l’ultima volta che l’aveva usato? Che qualcuno l’aveva chiamato così?

Finiti i convenevoli, si alzò e gli diede un calcio. Uno leggero, quasi un buffetto, per allontanarlo.

“Corri,” gli disse. Ad lo guardò, le lacrime agli occhi. Lacrime di piacere, ovviamente. Venne, immediatamente, circondato da marpioni di ogni età che fecero a gara per occuparsi di lui.

Ma il ragazzo non rimase a scegliere il suo salvatore. Si alzò di scatto e scappò nella sua cabina.

“Ehi! Torna qui e continua lo spettacolo!” rise la folla.

Tutti applaudirono, mentre la Bestia si ricomponeva.

Una delle Schiave di Melinda, Selena, gli sorrise. Ma Aletta lo trascinò via. Il resto della cricca li seguì nella suite della donna.

“Notevole! Davvero notevole,” commentò Gene.

“Sì! Bravissimo, Al,” seguì Melinda.

Aletta gli stava accarezzando i lunghi capelli, facendoli scivolare tra le dita.

“Perché non hai pisciato addosso a quel piccolo figlio di troia, me lo spieghi?” domandò, cattivo, Amir.

A quel pensiero, Stine e Gene ebbero un brivido. Un caldo fiume giallo su quella puttana capricciosa. Ebbero quasi un’erezione. Ma Aletta divenne cupa. Le era passato il buon umore.

“Già,” disse, poi. “Perché non l’hai fatto?”

L’atmosfera era stata rovinata.

Selena tremò per la Bestia. Non le era mai passata, quella cotta adolescenziale.

“Maddai, su, non ci avrà pensato!” intervenne Melinda. “Mica è un Padrone, lui! Poverino, che ne sa di certe cose?”

Aletta non l’ascoltò.

Tirò fuori il vibratore, ancora sporco.

“Mettiti a quattro zampe. Subito,” ordinò alla Bestia.

Dalle stelle alle stalle, in meno di un minuto.

CAPITOLO SETTE

Al sapeva quale orrore lo attendeva.

Quel vibratore gigante avrebbe riaperto tutte le ferite e ulcere che avevano appena iniziato a cicatrizzarsi. Poi, l’avrebbero curato col ‘SalvaGente’ -panacea all’ultimo grido, in quel di Firokami, pure più famoso dell’Aspirina- che avrebbe guarito la qualsiasi.

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