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Definita
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Cadence

Una volta che la limousine se ne fu andata, tornai in casa. Sentendomi come se fossi in trance riuscii in qualche modo a mettere un piede davanti all’altro e arrivai faticosamente in cucina. Pensai di chiamare Joy visto che sapeva la verità su tutto, ma non volevo addossarle questo peso mentre stava celebrando il suo anniversario. Andai, invece, verso il frigorifero alla ricerca di un drink—preferibilmente forte.

Sfortunatamente tutto quello che trovai fu una bottiglia mezza vuota di champagne rimasta dal Capodanno di quasi sei mesi prima e poche bottiglie di birra di solito riservate agli ospiti. Sospirai e mi annotai mentalmente di cominciare a fare maggiori scorte di alcool in casa. Decidendo che una birra sarebbe stata meglio di uno champagne sgasato, stappai la bottiglia e mi diressi di sopra in camera mia.

Lungo la strada, mi fermai nella camera di Kallie per spegnere la luce che aveva lasciato accesa. Come al solito sembrava che fosse passato un uragano e avesse lasciato vestiti ovunque al suo passaggio. Passai attraverso il labirinto fino a raggiungere la lampada. Quando andai a spegnerla vidi il vecchio e consunto orsacchiotto seduto ai piedi del suo letto. Lo aveva avuto lì sin da bambina e non aveva mai provato alcun imbarazzo adolescenziale nel tenere a letto il suo compagno d’infanzia. L’amore e la venerazione per mia figlia mi percorse tutto il corpo. Era così forte, mai desiderosa di scendere a compromessi per compiacere gli altri e questo mi rendeva così orgogliosa. Quell’orgoglio portò un sorriso sul mio volto quando allungai il braccio per spegnere la lampada prima di dirigermi verso la mia camera.

Una volta lì, aprii la porta del mio armadio e allungai il braccio per prendere la scatola da scarpe che era infilata nello scaffale più alto. Avevo bisogno di essere assolutamente sicura prima di avere un completo attacco di panico per quella che poteva essere solo una coincidenza o un ricordo errato. Dentro alla scatola c’erano le lettere che avevo scritto a Fitz mentre ero incinta di Kallie ma che non avevo mai spedito. Non so perché le avessi tenute per tutti quegli anni. Forse perché sapevo che un giorno avrei dovuto affrontare qualcosa del genere. Le giustificazioni che avevo per mantenere un tale segreto. Kallie non era l’unica a essere all’oscuro.

Anche Fitz non sapeva di lei.

Sistemandomi sul letto, misi la birra sul comodino e soffiai via la polvere dal coperchio della scatola. Lentamente sollevai il coperchio. Un gruppo di buste chiuse con un elastico di gomma era in cima. Lo tirai fuori e lo misi di lato. Al di sotto c’erano dei ritagli di giornale e la locandina di Cantando sotto la pioggia. La aprii e andai in fondo per trovare la foto di gruppo di tutti i membri dello staff del Campeggio Riley. Avendo memorizzato molti anni prima la posizione di Fitz nella foto, lo rintracciai facilmente e corsi con il dito sulla sua immagine. Fissai a lungo la foto ingiallita. Era un volto che non vedevo da così tanto ma che non ero mai riuscita a cancellare dalla mia memoria. Poi questa sera quello stesso volto si era presentato sulla mia porta per portare Kallie al ballo.

Misi l’immagine di nuovo nella scatola e passai al resto del contenuto, individuando un pezzo di carta quadrato piegato.

L’indovino cinese.

Non ebbi bisogno di aprire l’origami che Fitz mi aveva dato l’ultimo giorno per sapere cosa dicesse ogni sua parte. Avevo memorizzato le parole che aveva scritto tanto tempo prima.

I tramonti ti apparteranno sempre.

Quando sarà buio ti ricorderò di trovare la luce.

Avrai per sempre il mio cuore.

Lasciarti sarà per sempre il mio più grande rimpianto.

Ingoiando il groppo che stava cominciando a formarsi in gola, allungai il braccio verso il cumulo di buste. L’elastico, corroso dagli anni, si ruppe quando cercai di toglierlo, facendo sì che tutte le lettere mi cadessero sul grembo. Non aveva alcuna importanza. Anche se erano state impilate nell’ordine in cui erano state scritte, ricordavo la data di ognuna di loro. Aprii la busta che era in cima al cumulo ora disordinato. Estraendo il foglio scritto all’interno, cominciai a leggere. Era l’ultima lettera che avevo scritto a Fitz.

Al possessore del mio cuore,

Non dovrei cominciare questa lettera chiamandoti in questo modo, specialmente poiché sembra più che altro un caro John. O forse non è un caro John visto che non siamo neppure insieme. In ogni caso non posso fare a meno di chiamarti ancora possessore del mio cuore perché è ciò che sarai sempre per me—non ha importanza cosa abbia deciso la vita per noi.

Nostra figlia è venuta al mondo una settimana fa proprio oggi. L’ho chiamata Kalliope perché il suono del suo pianto quando è nata era come musica per le mie orecchie. Il nome proviene dalla mitologia greca e significa “voce meravigliosa”. Forse sono più in linea con i talenti musicali di mia madre di quando avessi inizialmente pensato.

Kallie, come l’ho soprannominata, è la bambina più bella che abbia mai visto. Vorrei che tu potessi incontrarla, ma visto che sicuramente non ti manderò mai questa lettera, so che non accadrà mai. Ho visto una foto di te, di tuo padre e di tua moglie sul giornale di oggi. Era stata presa a una manifestazione politica a sostegno di tuo padre. Da quel che sembra, sarai ben presto il figlio di un senatore degli Stati Uniti. Sembravi così orgoglioso nella foto e io ho sentito il mio cuore carico di ammirazione per la tua forza nel sopportare una vita su cui hai avuto ben poca scelta. La foto, però, mi ha anche resa triste. Sai, non ho potuto fare a meno di notare il pancino di tua moglie.

Vorrei che le cose avessero potuto essere diverse per noi, ma accetto le scelte che ho fatto. Non rimpiangerò mai il tempo che ho passato con te. È stato speciale e lo considererò per sempre prezioso. Tuttavia, sono arrivata a rendermi conto che non posso continuare a coltivare la speranza che forse ti ribellerai contro tuo padre e tornerai da me. Devo lasciarti andare. Stare con me sarebbe solo un motivo di scandalo per la tua famiglia. Questo tipo di attenzione non sarebbe giusta per te. Non c’è bisogno che i tuoi errori del passato vengano portati alla ribalta—anche se quello che è accaduto a Georgetown è stato un tragico incidente. Non sarebbe giusto nei confronti del tuo figlio non ancora nato, come non sarebbe giusto per me o per Kallie.

E, cosa più importante, mi sono resa conto che avevi ragione su di me. Non merito di essere “l’altra donna,” e sicuramente non voglio che Kallie cresca con una nuvola di illegittimità sopra la sua testa. È per questo che non ti dirò mai della sua esistenza. Ed è per questo che questa sarà la mia ultima lettera. Ora devo pensare a Kallie. Mia figlia. La mia nuova ragione di vita. Lei è la mia priorità, proprio come la tua priorità dovrebbe essere la tua nuova famiglia. Devo provvedere a creare una vita per lei anche se questo significa creare una vita senza di te.

Le lacrime offuscarono la mia vista e riuscii a malapena a leggere la mia stessa firma in fondo. La lettera mi scivolò tra le dita e mi cadde sul grembo. Quello che avevo appena letto, anche se vero, erano farneticazioni di una adolescente col cuore spezzato che era stata obbligata a crescere troppo presto. Ero stata troppo aperta e fiduciosa. Il primo amore era stato ingenuo. Non rimpiangevo però tutto l’amore che gli avevo dato con tutta me stessa. E lui l’aveva preso tutto—non lasciando alcuno spazio per permettere a un altro uomo di entrare. La mia testa si perse nei ricordi mentre mi asciugavo velocemente le lacrime.

Cercai ancora una volta dentro alla scatola, avendo bisogno di trovare l’articolo di giornale che mi aveva spinto a prendere quella decisione tutti quegli anni prima. Adesso l’articolo poteva essere una potenziale conferma che Austin era esattamente chi sospettavo fosse. Non fu difficile trovarlo tra i ritagli piegati accuratamente. Il titolo in grassetto splendeva come un faro nella notte.

IL SENATORE QUINN SPINGE PER UNA RIFORMA EPOCALE DELLE TASSE ENTRO 90 GIORNI

Scorsi velocemente l’articolo non essendo particolarmente interessata nel riguardare I dettagli di una riforma che alla fine aveva gettato in recessione il nostro paese. Ero più interessata ai dettagli sulla foto che accompagnava l’articolo.

I miei occhi esaminarono l’immagine. Il fotogramma era su Fitz, suo padre e la giovane moglie incinta di Fitz. I reporter erano tutti attorno con i microfoni puntati verso il senatore mentre scendevano i gradini del Campidoglio. Il mio cuore si strinse mentre venivo travolta da un vecchio senso di gelosia nel vederla di nuovo. Era decisamente bella, ma non era per questo che ero infastidita. Non mi piaceva la donna dai capelli scuri perché aveva la vita che io avevo solamente sognato.

Quale era il suo nome?

Per quanto precisi fossero i miei ricordi di quel periodo della mia vita, in qualche modo riuscivo a bloccare quel piccolo dettaglio.

Sforzandomi di non guardare quella foto scorsi con il dito il testo dell’articolo, fermandomi quando trovai il passaggio che stavo cercando.

“Posso dirvi che abbiamo un assoluto interesse per il successo di questa riforma. Siamo dedicati interamente al miglioramento della tassazione per le famiglie lavoratrici e le piccole aziende americane,” ha dichiarato Quinn. Alla richiesta di ulteriori dettagli non ha dichiarato nulla. Quinn ha invece deviato il discorso su suo nipote in arrivo, sfruttando l’opportunità di sottolineare come il partito repubblicano investa sui suoi candidati. “Per quanto voglia parlarne, ho un impegno precedente. La moglie di mio figlio sta aspettando un bambino. Le mogli dei senatori repubblicani sono così felici per il piccolo Austin e hanno organizzato una festa in onore del nascituro.”

Austin.

Erano tutte le conferme di cui avevo bisogno. Non potevo negarlo. Il ragazzo che si era presentato sulla mia soglia era, effettivamente, il figlio di Fitz. Chiusi gli occhi, feci un profondo respiro e mi pizzicai il setto nasale. Espirando guardai lentamente in alto verso il soffitto.

Ho sbagliato in tutti questi anni? Avrei dovuto dirglielo? Avrei dovuto lottare con più forza per Fitz?

Non sapevo quali fossero le risposte, ma improvvisamente mi trovavo con il dover giustificare le mie azioni. Pensavo di aver fatto la cosa giusta in quel tempo. Avevo i miei genitori per aiutarmi con tutto mentre Fitz non aveva nessuno. I miei genitori appoggiavano la mia scelta. Pensavo di aver seguito la strada altruistica ma ora non ne ero così sicura. Quella che una volta vedevo come una nobile decisione sembrava pronta a esplodermi in faccia.

Guardai verso la bottiglia di birra ormai tiepida che non avevo toccata e seguii le linee di condensazione che si erano formate attorno alla base. Un piccolo rivolo d’acqua si stava lentamente facendo strada verso il comodino. Il modo in cui l’aveva fatto non seguiva un senso preciso. Si era semplicemente mossa verso il bordo. L’acqua trovava sempre una strada. Desiderai che la mia vita potesse essere così semplice, che avesse quella forza gravitazionale a spingermi verso una destinazione.

Ero così confusa. Diciassette anni fa mi affidavo ai miei genitori per un consiglio. Ora sedevo da sola alla ricerca di una guida che non sarebbe arrivata mai.

5

Cadence

Lunedì mattina ero seduta alla mia scrivania con Joy seduta proprio davanti a me, il suo volto inorridito dopo che avevo finito di raccontarle quello che era successo nel fine settimana. Il nodo di terrore che mi si era formato allo stomaco venerdì sera era ancora lì, ma stava peggiorando a ogni ora che passava.

Kallie era tornata dal ballo puntuale, proprio come promesso, ed eravamo rimaste alzate fino alle due del mattino a guardare i nostri musical preferiti. Io avevo scelto come primo film Gli strilloni, la storia liberamente basata sullo sciopero degli strilloni di New York del 1899. Per come la vedevo io, nessuno poteva resistere a un giovane Christian Bale. Lei aveva scelto come secondo musical della notte—Mamma Mia! Tra tutti quelli che avrebbe potuto scegliere... la mia solita fortuna. Mi ero agitata e sentita a disagio per tutto il secondo film, la trama mi era veramente troppo vicina. E ora non riuscivo a togliermi dalla testa quella maledetta canzone della colonna sonora.

C’erano state parecchie occasioni per dirle di Austin e raccontarle la verità su suo padre, ma ogni volta mi ero tirata indietro quando le parole cominciavano a formarsi sulla lingua. Non riuscivo proprio a dirglielo. Come risultato ora mi stavo ascoltando una lezione da Joy.

“Cadence, non va bene. Il senatore Quinn è suo padre—l’uomo che si oppone con forza contro tutto quello per cui lottano i Sognatori di Dahlia. Quando verrà a sapere di Kallie e scoprirà cosa fai per vivere, mi piacerebbe dire che addolcirà il suo atteggiamento ma quell’uomo sembra senza pietà.” Joy fece una pausa e sussultò. “Lasciando da parte le implicazioni politiche, devi andare da Fitz. È passato così tanto tempo.”

“E dirgli cosa? ‘Ehi, ti ricordi di me? Quella stupida ragazza a cui hai dato una botta un’estate di diciassette anni fa? Bene, sei il papà della mia bambina.’ Andiamo, Joy. Probabilmente non si ricorda neppure di me. Non ho bisogno di andare da Fitz, ma devo dirlo a Kallie.”

“Allora, perché non lo hai fatto? Deve saperlo prima che accada qualcosa di folle. Gesù Santo! Riesci a immaginare cosa accadrebbe se finisse con l’uscire con Austin?”

Strinsi con forza le labbra fino a farle formare una linea sottile.

“Fidati, ci ho pensato per giorni. Solo che non so proprio come dirglielo. Sono andata a correre ieri mattina. Avevo bisogno di un po’ di ‘tempo per me’ per schiarirmi le idee. Non ha funzionato, e allora sono andata a correre anche nel pomeriggio. Sono sicura che i tipi che stavano curando il prato attorno al monumento a Washington abbiano pensato che fossi impazzita. Devo essere passata davanti a loro almeno venti volte.”

“Cosa ci stavi facendo lì?” chiese Joy con un’espressione corrucciata.

“Stanno facendo dei lavori nel mio quartiere e tutti i marciapiedi sono bloccati. Correre lungo il Mall è stato più facile. In ogni caso ero pronta a dire tutto a Kallie quando sono tornata a casa ma poi mi sono bloccata.”

Joy scosse la testa.

“Io credo ancora che dovresti dirlo a Fitz. Non si tratta solo di Kallie. Anche Austin dovrebbe saperlo. E se ha dei sentimenti per lei?”

Sbattei la testa contro la scrivania.

“Dovevi ricordarmi anche questo?” mi lamentai.

“Ehi, lo so che sei in una posizione difficile. Sto solo cercando di aiutarti a vederla da tutte le angolazioni in modo che—”

“Salve? C’è nessuno?” disse una voce femminile fuori dalla porta del mio ufficio. Joy smise di parlare ed entrambe ci girammo per vedere chi fosse. Quando non entrò nessuno, mi alzai e andai in corridoio.

Una donna con una bambina piccola stava osservando le porte di legno ormai consunto degli uffici lungo il corridoio. La bambina teneva stretta al petto una bambola dall’aspetto logoro. Si guardava attorno, sembrando confusa mentre la donna che la teneva per mano la trascinava di porta in porta.

“Posso aiutarla?” chiesi.

“Oh!” rispose lei colta di sorpresa. “Mi dispiace. Non c’era nessuno in portineria e così ho deciso di vedere se riuscissi a trovare qualcuno in uno degli uffici. Avrei dovuto prendere un appuntamento prima ma io-io non potevo aspettare. Ho bisogno di parlare con qualcuno subito.”

Aveva un lieve accento che non fui in grado di localizzare ma che sembrava di origine spagnola. Era difficile da dire per iI modo in cui la voce le si rompeva. La sua espressione era terrorizzata, quasi disperata. Era un’espressione che conoscevo anche troppo bene.

“Per cortesia, entri e si accomodi,” le dissi. Una volta entrata, le feci cenno di sedersi al piccolo tavolo rotondo che c’era nell’angolo. “Mi spiace che non abbia trovato nessuno ad accoglierla. La mia segretaria attualmente è in maternità. Il resto del personale ha cominciato a gestire le cose mentre lei non c’è. Cosa possiamo fare per lei?”

La donna guardò avanti e indietro me e Joy.

“il mio…il mio nome è-è Emilia Garcia,” balbettò.

Impaurita. Arrivano qui sempre impaurite.

“É un piacere conoscerla.” Mi sedetti davanti a lei al tavolo. Nel corso degli anni avevo scoperto che risultava meno intimidatorio per i nuovi clienti se mi sedevo lì invece che dietro alla mia scrivania. Sembrava le facesse sentire sullo stesso terreno. Allungai la mano verso di lei perché la stringesse, sperando di metterla più a suo agio. Era fredda e sudata, un chiaro segnale che la donna era sull’orlo di un esaurimento nervoso. “Sono Cadence Riley, e lei è la mia collega Joy Martin.”

Fece un cenno verso Joy, poi cominciò a giocherellare con il bordo della sua camicia rosa

“Io, ecco…io vengo da Richmond, Virginia.”

“É piuttosto lontana da casa,” notai. Se l’espressione ansiosa che aveva sul volto non era già più che sufficiente, sapere che aveva viaggiato per più di due ore con una figlia piccola, senza un appuntamento fissato, diceva lungamente quanto fosse disperata.

“Sì, è vero,” ammise. Poi mi guardò con i suoi occhi marroni scuro terrorizzati, ricordandomi un cervo abbagliato dai fari di un’automobile. “Di nuovo, sono così dispiaciuta di essermi presentata senza appuntamento. Io–Io non so proprio da dove cominciare.”

“Signora Garcia, tutte le persone che entrano attraverso le nostre porte lo fanno per un motivo. Perché non comincia semplicemente dall’inizio?”

Lei guardò nervosamente verso la bambina.

“Oh, ecco. Mia figlia. Non voglio che…” cominciò.

Guardai la bambina seduta sul grembo di sua madre. Non poteva avere più di cinque anni e capii la sua esitazione. Mi alzai dalla sedia e mi inginocchiai davanti alla bambina.

“Come ti chiami?” chiesi dolcemente.

“Mayra,” rispose timidamente.

“Bello, ciao Mayra. Sono molto lieta di conoscerti. Il mio nome è Cadence. Quanti anni hai?” Lei alzò cinque dita.

“No, no. Non ha ancora cinque anni,” la rimproverò sua madre, tirando giù il pollice di Mayra in modo che tenesse sollevate solo quattro dita. “Non compirai cinque anni per qualche altra settimana.”

Sorrisi, ricordando come Kallie si aumentasse sempre l’età di qualche mese.

“Quasi cinque? Wow! Sei già grande allora! Forse, però non sei così grande per colorare, vero?” chiesi. I suoi occhi marroni si spalancarono per l’eccitazione mentre scuoteva la testa. “Beh allora, se la mamma è d’accordo, vorresti andare con la signorina Joy a cercare un libro da colorare e dei pastelli?”

Lei alzò ansiosamente lo sguardo verso sua madre.

“Vai. Ricordati le buone maniere,” le disse Emilia annuendo.

Mayra si illuminò di gioia e saltò dal grembo di Emilia. Joy andò verso di lei e le prese la manina. Una volta che non furono più a portata d’orecchio, tornai al mio posto e allungai la mano sul tavolo per prendere quella di Emilia.

“Signora Garcia,” cominciai.

“Per favore, mi chiami Emilia e mi dia del tu.”

“Emilia, sento che sei nervosa. Non esserlo. Qualunque sia il motivo, siamo qui per aiutarti.”

Lei mi concesse un piccolo sorriso.

“Ho sentito altre persone parlare della sua gentilezza. Per questo motivo sapevo che dovevo venire qui. Dovete aiutarm–mi.” La sua voce si ruppe di nuovo all’ultima parola e questo mi spezzò il cuore. La mia unica speranza era che potessi aiutarla. Qualche volta era troppo tardi.

“Perché non cominci dall’inizio e poi andiamo avanti?”

Lei deglutì e fece un profondo respiro.

“Si tratta del mio fidanzato. Il padre di mia figlia. Lo-lo hanno preso!”

Poi cominciò un racconto che avevo sentito innumerevoli volte. Ogni volta i nomi e i luoghi erano diversi ma la storia era sempre la stessa.

Il fidanzato di Emilia, Andrés Mendez, si era trasferito negli Stati Uniti dall’Ecuador con la sua famiglia quando aveva tre anni. Lui, sua sorella più piccola e i suoi genitori erano tutti immigrati senza documenti—un fatto che Andrés non aveva saputo fino a quando, a diciassette anni, si stava per preparare per andare al college. Aveva bisogno di un numero di previdenza sociale per fare domanda per i prestiti studenteschi. Ed era stato in quel momento che i suoi genitori gli avevano detto la verità sulla sua provenienza.

“Andrés è così intelligente,” disse Emilia con una nota di orgoglio nella voce. “Andò a finire che non ebbe bisogno di avere un prestito. Fu premiato con una borsa di studio per frequentare Harvard.”

“É fantastico!”

“Sì,” concordò lei, ma poi il suo tono tornò di nuovo triste. “Ha fatto domanda per un visto per motivi di studio ed era tutto pronto per andare in Massachusetts. Quell’estate, però, sono rimasta incinta di Mayra. L’ho spinto ad andare comunque, ma Andrés si è rifiutato di lasciarmi. È andato invece a Virginia Tech a studiare ingegneria. I miei genitori erano furiosi ma I suoi neppure capirono a cosa stesse rinunciando. Non avevano mai sentito parlare di Harvard fino a quando Andrés era stato accettato in quella scuola.”

Mi allungai verso la scrivania e presi un blocco per cominciare a prendere degli appunti. Scrissi qualche informazione di base.

Intelligente. Accettato ad Harvard con borsa di studio. Mayra.

“Emilia, sei anche tu senza documenti?”

“No, sono nata qui. Mia madre è nata in El Salvador, e mio padre è nato qui. Lei alla fine è diventata una cittadina naturalizzata anni dopo che si furono sposati.”

“Andrés ha finito il college?”

“Grazie a Dio, sì. Anche se non è stato facile. Mentre lui frequentava io son rimasta a casa. I miei genitori si occupavano di Mayra mentre io lavoravo per pagare le sue rette scolastiche. Andrés di solito prendeva il Metro bus fino al campus, ma qualche volta lo portavo io quando non lavoravo. A quel tempo, a causa del suo status di immigrato, non poteva avere la patente.”

Niente patente. Aiuto dalla famiglia.