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L'Ombra Del Campanile
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L'Ombra Del Campanile

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L'Ombra Del Campanile

«Se è uno stregone anche lui, perché combatte i suoi simili?», aveva chiesto un giorno Lucia alla nonna.

«Perché è dalla loro sconfitta che lui riesce ad aumentare i suoi poteri. Non girargli mai le spalle, non ti fidare mai di lui, se scoprisse che sei una creatura dai poteri forti, anche se sei sua nipote non esiterebbe a condannarti al rogo, e guardarti bruciare, mentre anche i tuoi poteri si trasferiscono a lui. Quando sei in sua presenza, non pensare, lui legge i tuoi pensieri, anche i più nascosti, e in più impedisce a te di leggere i suoi.»

Ed era vero! In quel momento Lucia stava sperimentando che non riusciva in alcun modo a penetrare nella sua mente, era come se non avesse pensieri, eppure ne doveva avere.

«Dovrei sapere se mi piace, conoscerlo e capire se posso innamorarmi di lui.»

«Innamorarsi, che parolona! Nelle famiglie nobili come la nostra ci si sposa in base a un contratto. La famiglia trova un buon partito per la ragazza e lei onorerà il marito che le è stato scelto. Ma voglio venirti incontro. Io e il Capitano del Popolo, Guglielmo dei Franciolini, organizzeremo una festa in cui avrete modo di conoscervi, tu e Andrea. E ora vai, ti farò sapere quando si terrà la festa.»

Senza ribattere, Lucia si era già alzata dalla sedia e stava per congedarsi, quando il Cardinale le rivolse ancora la parola.

«Ah, dimenticavo», disse, quasi fosse una cosa a cui non dava affatto importanza. «Mi hanno riferito che qualche giorno fa hai soccorso una tua compagna alla quale si erano incendiati gli abiti. Brava, noi Baldeschi dobbiamo distinguerci in questa città e far vedere che aiutiamo gli altri in ogni circostanza.»

In quel momento Lucia ebbe la percezione della mente dello zio che stava perlustrando gli angoli più remoti del suo cervello. Non riusciva ancora a imporsi di non pensare, ma cercò di ricordare la scena nel suo pensiero in maniera diversa da come era accaduta nella realtà. Ecco, Elisabetta si era avvicinata al falò che il Mastro tintore aveva acceso davanti alla sua bottega all’inizio della discesa del Fortino, per mettere a bollire il pentolone dell’acqua in cui avrebbe immerso i tessuti da tingere con i suoi colori sgargianti. Un lembo del saio della ragazzina era stato lambito dalle fiamme, che erano salite in un lampo ed erano giunte a bruciarle i capelli. Per fortuna, all’improvviso si era messo a piovere e Lucia, che passava di lì per caso aveva osservato la sua pelle arrossata e aveva tirato fuori dalla bisaccia un vasetto di unguento a base di Aloe e semi di lino, un rimedio naturale per le scottature che preparava la nonna.

«Brava, sono fiero di te!», ripeté il Cardinale.

Lucia uscì dalla stanza, sperando in cuor suo di aver buggerato lo zio, anche se non poteva esserne sicura.

Se sa davvero che sono una strega e ho poteri che lui potrebbe invidiarmi, che cosa farà? Mi terrà sotto controllo finché non sarà sicuro delle mie capacità per poi sbattermi senza pietà su un rogo e guardarmi morire tra le fiamme? Ma allora perché propormi un marito? Mah, forse questo è un gioco politico. Far sposare sua nipote con il figlio del Capitano del Popolo aumenterà ancora di più il suo potere temporale su questa città, in cui ancora troppi abitanti si proclamano ghibellini. Non mi stupirei che lo zio voglia accentrare su di sé sia il potere religioso che quello politico. Stai in guardia, Lucia, e non ti far abbindolare né dallo zio, né da questo giovane Andrea.

Avrebbe voluto saperne di più sul conto di Andrea, ancor prima di conoscerlo alla festa ufficiale. Chissà quando avrebbe avuto luogo questo evento? Se lo zio si era esposto, c’era da stare sicuri che non avrebbe tardato tanto a organizzarlo.

Immersa nei suoi pensieri, attraversò il lungo corridoio che la riportava verso l’ala del palazzo in cui abitava. In fondo al corridoio scese la scalinata, ritrovandosi a piano terra, nell’androne in corrispondenza del portone di ingresso. Avrebbe dovuto risalire la scala di fronte a lei per raggiungere i suoi appartamenti. Alla sua destra, attraverso una porta di legno, si poteva accedere alle stalle. Morocco, il suo stallone preferito, percepì la sua presenza e nitrì per salutare la ragazza, che fu tentata di spingere la porta quel tanto che bastava per infilarsi dentro e andare a elargire una carezza al nero destriero. Ma la sua attenzione fu attratta da un’altra porticina in legno, che conduceva ai sotterranei del palazzo. Di solito quella porta era sprangata, ma quel giorno era stranamente socchiusa. La nonna l’aveva avvertita più di una volta di non avventurarsi nei sotterranei. Laggiù era un labirinto, in cui era facile perdersi, rappresentato dalle strade e dalle stanze delle antiche costruzioni dell’epoca romana. Infatti tutti gli edifici più recenti poggiavano le loro fondamenta sulle antiche costruzioni romane. La curiosità di Lucia era troppo forte. Pensava che se quegli anfratti, quelli che ora erano cunicoli, gallerie e cantine, fossero stati un tempo abitati, gli spiriti degli antichi abitanti avrebbero potuto parlare con lei, raccontarle delle storie, confidarle le loro paure e i loro sentimenti. In fin dei conti il Palazzo Baldeschi sorgeva proprio in corrispondenza di quella che al tempo dei romani era l’acropoli, il foro, il centro commerciale e politico della città. Lì c’erano i templi, lì c’erano le Terme, poco più in là, dove adesso sorgeva il nuovissimo Palazzo del Governo, c’era un enorme anfiteatro; più vicino, in prossimità delle mura occidentali della città, la grande cisterna per l’approvvigionamento idrico.

Là sotto sarà buio pesto, pensò Lucia. Avrò bisogno di una fonte di luce.

Entrò nella stalla e fece due moine a Morocco, che reclamò la carota che la ragazza era solita portargli in dono. Lucia la tirò fuori dalle tasche e l’animale fu lesto a prelevarla con le labbra dalle sue mani. Carezzò il cavallo sul dorso del naso, cercando con lo sguardo una lanterna. La vide, la sganciò dal chiodo a cui era attaccata, controllò che fosse carica di olio, poi concentrò il suo sguardo sullo stoppino, che nel giro di pochi istanti prese fuoco. Regolò la fiamma al minimo, uscì dalla stalla e si avventurò giù per le sconnesse scale che si dirigevano verso le viscere della terra. Anche se la Terra era uno degli elementi su cui aveva il controllo, in quel momento ne aveva un po’ timore. Sembrava quasi che quella scala non dovesse finire mai, tanto era lunga. Ma forse era solo l’impressione di Lucia. Finalmente abbandonò con il piede l’ultimo gradino.


L’umidità era forte lì sotto, alla ragazza si stava ghiacciando il sudore addosso, e il fiato le si condensava in piccole nuvolette di vapore. Alzò la fiamma della lanterna. C’erano diversi corridoi, delimitati da antichi muri di pietre e rozzi mattoni. Uno, lunghissimo, si perdeva nel buio avanti a sé. La nonna le aveva detto che c’era un lungo passaggio che poteva essere utilizzato durante gli assedi, per oltrepassare le linee nemiche e procurare provviste per il popolo assediato e armi per i difensori della città. Tale passaggio fuoriusciva addirittura presso la residenza di campagna della famiglia Baldeschi, all’inizio della strada per Monsano, un centro situato a qualche lega di distanza da Jesi, e da sempre storico alleato della nostra città. Alla sua destra, un cunicolo sarebbe di certo arrivato in breve ai sotterranei della cattedrale, forse addirittura alla cripta che accoglieva le reliquie del Santo Settimio. Il cunicolo alla sua sinistra l’avrebbe potuta condurre alla base della chiesa di San Floriano, come all’antica cisterna romana. Chissà se quest’ultima era ancora piena d’acqua, si chiedeva Lucia. Decise di dirigersi alla sua destra, verso i sotterranei della Cattedrale e, in breve, si ritrovò in una piccola cappella squadrata. Quattro statue di marmo bianco, prive della testa, a mo’ di colonne, sorreggevano la volta a crociera della cappella. Con tutta probabilità erano statue che un tempo avevano abbellito le Terme romane. Private delle teste, che giacevano accatastate in un nascosto angolo buio, erano state utilizzate da chi aveva a suo tempo progettato la cattedrale, come colonne. Al centro della cappella, sotto la volta sorretta da arcate gotiche, un piccolo altare in pietra faceva come da cornice a una teca contenente le reliquie del primo Vescovo di Jesi, Settimio. Il Santo, come molti dei cristiani dell’epoca, era stato martirizzato per volere delle autorità romane. Il preside romano che governava la città di Jesi ne aveva ordinato la decapitazione, dopo che Settimio aveva convertito al cristianesimo gran parte della popolazione, compresa la figlia dello stesso governatore. Settimio era stato considerato un pericoloso nemico dell’Impero di Roma e giustiziato. Le ossa erano state trafugate dai primi Cristiani per salvarle dalla profanazione dei pagani, e nascoste così bene che per secoli e secoli nessuno seppe più dove fossero. Il Santo fu decapitato nel 304 e le sue spoglie mortali furono rinvenute solo dopo 1.165 anni addirittura in Germania. Pertanto erano state riportate in quel luogo di culto solo una cinquantina di anni prima.

Che strana l’umanità!, si disse Lucia. Lo stesso trattamento che i romani riservavano ai primi cristiani, che venivano perseguitati, adesso la Chiesa Cattolica sembra riservarlo a chi non la pensa come lei: chi si discosta dalla dottrina ufficiale viene tacciato di eresia e può finire ucciso nella pubblica piazza. Streghe, eretici, ebrei… vengono processati e messi al rogo, solo perché hanno magari il coraggio di manifestare le proprie idee e il proprio sapere. Mah, adesso la Chiesa se la prende con gli eretici, un domani, nel futuro, qualche altra fazione prenderà il sopravvento e magari saranno di nuovo i cristiani a essere perseguitati. Perché a questo mondo non ci deve essere giustizia? Qual è questo Dio che permette che nel mondo, ma soprattutto nel cuore dell’uomo, esista così tanta malvagità?

Mentre seguiva il corso dei suoi pensieri, una flebile lama di luce generata da un sole prossimo al tramonto riuscì a filtrare da una piccola finestra a bifora, situata in alto, in corrispondenza dell’abside della cattedrale sovrastante, andando a illuminare quella zona in cui erano accatastate le teste delle statue romane. L’attenzione di Lucia si soffermò su alcuni particolari che non era riuscita a notare prima, lì vicino a quelle teste scolpite nella pietra tanti secoli prima. Nel pavimento di terra battuta era stato disegnato una specie di pentacolo, diverso da quello che era solita vedere disegnato sulla copertina del diario di famiglia consegnatole tempo prima dalla nonna. Il disegno sembrava asimmetrico, rappresentava una stella a sette punte ricavata tracciando una linea continua all’interno di un cerchio. Ogni punta della stella intersecava un punto della circonferenza, in corrispondenza di ognuno dei quali c’erano delle scritte in caratteri ebraici, di cui Lucia non conosceva il significato. In corrispondenza di ognuno dei sette punti, era visibile la traccia di cera colata, lasciata da una candela che vi era stata accesa. Al centro della figura due bambole di pezza, realizzate con della paglia intorno alla quale erano stati avvolti dei vestiti in miniatura. Rappresentavano una donna anziana e una ragazza: gli abiti dell’anziana erano bruciacchiati, mentre la giovane aveva uno spillone infisso all’altezza del petto. Lucia ebbe un sussulto, il cuore prese a batterle all’impazzata, in un lampo aveva capito tutto. In quel luogo erano stati realizzati dei riti di magia nera, e le bambole rappresentavano lei e sua nonna. Era evidente che qualcuno le voleva vedere sofferenti, se non addirittura morte. Chi? Chi poteva essere? Una sola persona poteva essere scesa lì. La Chiesa sovrastante era ormai chiusa, interdetta ai fedeli da più di un anno, e quindi la cripta non poteva essere raggiunta dalla cattedrale. Il passaggio che aveva percorso lei era chiuso da una porta sempre sbarrata, e la chiave l’aveva solo suo zio, il Cardinale, l’Inquisitore capo Artemio Baldeschi. Certo, era troppo tempo che a Jesi non avevano luogo esecuzioni capitali, l’ultimo rogo era stato acceso sei anni prima, quello in cui aveva perso la vita Lodomilla. Adesso il Cardinale doveva placare la sua sete, la sua voglia di vittime, il suo desiderio di assistere alla sofferenza e alla morte davanti ai suoi occhi, sotto il suo sguardo. Già, perché al contrario della maggioranza degli inquisitori che, una volta pronunciata la condanna, consegnavano la vittima al braccio secolare della Legge, evitando di assistere al supplizio di coloro che avevano condannato, Artemio era solito presenziare all’esecuzione, in prima fila, a volte prendendo in mano la torcia e appiccando il fuoco alla catasta. Sembrava provasse un gusto sadico nel vedere la sua vittima contorcersi tra le fiamme, continuava a fissarla con i suoi occhi fino alla fine, e per un preciso motivo: catturare l’anima del condannato nel momento stesso in cui abbandonava il suo corpo mortale.

Incupita da queste riflessioni, impaurita da ciò che aveva visto, Lucia afferrò la lanterna e si precipitò su per le scale, con la mente occupata da un solo timore. Avrebbe ritrovato la porta aperta? E se lo zio si fosse ricordato di non averla sbarrata e fosse ritornato a chiuderla? O se magari lo avesse fatto apposta, per indurla ad andare là sotto e seppellirla viva? No, non sarebbe stato abbastanza per Artemio, lui doveva vedere in faccia la sofferenza della propria vittima, non sarebbe stato da lui lasciarla morire lì. Voleva solo spaventarla, e c’era riuscito. La porticina di legno era aperta, Lucia uscì nell’androne, ripose la lanterna dove l’aveva presa, non degnò Morocco neanche di uno sguardo e si precipitò all’aria aperta, nella Piazza, ancora col cuore in gola.

Era quasi il tramonto di una calda giornata di fine maggio e la luce rossastra del sole donava dei colori spettacolari alla stupenda piazza in cui più di tre secoli prima era nato l’imperatore Federico II di Svevia. Disse a se stessa che avrebbe dovuto ricercare il significato dei simboli rinvenuti nella cripta nel Diario di famiglia, in quel prezioso manoscritto che le aveva consegnato la nonna. Ma ora doveva calmarsi, e decise di fare due passi per la città. Attraversò la piazza, raggiungendo il lato opposto, svoltò a sinistra e discese per la Costa dei Longobardi, per raggiungere la parte a valle del centro abitato, dove vivevano mercanti e artigiani. I palazzi erano meno sontuosi rispetto a quelli della parte alta della città, ma erano comunque arricchiti di elementi decorativi, con rifiniti portali e cornici intorno alle finestre. Le facciate erano quasi tutte abbellite dall’intonaco, pitturato in colori pastello, quali celeste, giallo, ocra, arancione tenue; era difficile che venissero lasciate in mattoni faccia a vista, come invece era per i palazzi signorili su al centro. A ricordare che quelle dimore erano state costruite grazie ai soldi guadagnati da chi vi abitava, spesso sugli architravi dei portali o delle finestre del primo piano comparivano delle scritte come “De sua pecunia” o “Suum lucro condita – Ingenio non sorte”. In fondo alla Costa dei Longobardi, svoltando a destra, in breve si poteva raggiungere la chiesa dedicata all’apostolo Pietro, fatta edificare proprio dalla comunità Longobarda residente a Jesi nella seconda metà del secolo decimo terzo. “Principi Apostolorum – MCCLXXXXIIII”, si leggeva sopra il portale; chi aveva inciso la data non aveva più molta memoria di come andassero scritti i numeri in latino, o forse non l’aveva mai saputo essendo un architetto di origine bizantina, abituato già ad avere a che fare con le cifre arabe, molto più semplici da memorizzare. Di fronte alla chiesa, il Palazzo dei Franciolini, appena finito di costruire, era la residenza del Capitano del Popolo, Guglielmo dei Franciolini. Anch’egli aveva fatto la sua fortuna come mercante dato che, dopo la scoperta del Nuovo Mondo, nuovi canali commerciali erano sati aperti e molte nuove mercanzie erano giunte anche a Jesi. Chi aveva potuto aveva approfittato, ed era riuscito in poco tempo ad accumulare notevoli ricchezze. Lucia si soffermò sul ricco portale del palazzo, limitato da due colonne e da alcune piastrelle quadrate di pietra arenaria, decorate con raffigurazioni di Dei e simboli dell’epoca romana.


Con tutta probabilità, nello scavare le fondamenta dell’abitazione, erano stati rinvenuti elementi decorativi di una casa di qualche patrizio romano, e questi erano stati riutilizzati per abbellire il portale. Lucia riconobbe il Dio Pan, Bacco, la Dea Diana, e poi ancora dei gigli a tre punte, e… una stella a sei punte formata da due triangoli incrociati tra loro - strano, non era forse il simbolo degli ebrei? – e ancora una stella a cinque punte, un pentacolo, e… un disegno a sette punte inscritto in un cerchio, simile in tutto e per tutto a quello che aveva visto poco prima nella cripta. Questi ultimi disegni non potevano risalire all’epoca romana, e infatti, osservando con attenzione le piastrelle su cui erano realizzati, si notava che queste erano di fattezza diversa, più recenti rispetto alle altre, forse realizzate all’uopo per decorare il portale. Ma che significato aveva tutto ciò? In quella piazzetta conviveva il sacro con il profano: da un lato la chiesa dedicata al principale degli apostoli, a Pietro, il primo Papa della storia del cristianesimo, dall’altro figure pagane e simboli che potevano accusare il padrone di casa di essere un eretico. Eppure lo zio Cardinale era in buoni rapporti con il Franciolini, addirittura le aveva proposto il figlio come suo futuro sposo! Più guardava quei simboli, più Lucia pensava che quel luogo avesse qualcosa di magico. Forse quel palazzo era stato costruito sopra i ruderi di un tempio pagano, e aveva mantenuto le sue peculiarità. Cercò di concentrarsi, di aprire il suo terzo occhio alla veggenza, invocò il suo spirito, per farlo librare in alto e scrutare elementi che altrimenti non avrebbe visto. Già tra le sue mani disposte a coppa si stava materializzando la palla semifluida dai colori variopinti, quando il portone del palazzo si spalancò all’improvviso, mostrando nella penombra un giovane che indossava una leggera armatura da battaglia, a cavallo di un potente destriero a sua volta bardato in testa a protezione di eventuali colpi che potevano essere inferti da spade e lance.

Il cavaliere reggeva con la mano destra il gonfalone della Repubblica Jesina, rappresentante il leone rampante ornato dalla corona regale. Non appena il portone fu del tutto aperto, spronò il cavallo all’esterno, quasi travolgendo Lucia che era lì davanti. La ragazza, spaventata, si deconcentrò, e la sfera subito scomparve. Il cavallo, di fronte all’ostacolo imprevisto, si impennò, scalciando in aria con le zampe anteriori. Lucia sentì uno zoccolo a brevissima distanza dal suo viso, ma non si lasciò prendere dal panico e infisse il suo sguardo negli occhi azzurro mare del cavaliere, che aveva la visiera dell’elmo sollevata. Per un attimo si perse in quegli occhi, il cavallo si acquietò e il cavaliere ricambiò lo sguardo alla damigella, fissando a sua volta gli occhi nocciola della ragazza. Ci fu un momento di calma, di totale silenzio, l’incrocio dei due sguardi sembrava aver fermato il tempo.

Chi era quel bel cavaliere, pronto a un’ipotetica battaglia in difesa della propria città? Era forse Andrea? Se così fosse stato, avrebbe dovuto essere grata al suo malvagio zio! Ma forse il Franciolini aveva altri figli. Non ebbe il tempo di aprire bocca, perché dopo pochi istanti, le campane della chiesa di San Pietro iniziarono a suonare, e a esse via via si unirono quelle della chiesa di San Bernardo, poi quelle di San Benedetto, e infine quelle di San Floriano. Lanciando un ultimo sguardo a Lucia, il cavaliere spronò di nuovo il cavallo, raggiungendo la limitrofa Piazza del Palio, l’enorme spiazzo all’interno delle mura, dominato dal Torrione di Mezzogiorno. In breve, altri cavalieri in armi si strinsero attorno a colui che stringeva in mano il gonfalone, poi arrivò anche gente a piedi, armata di balestre, pugnali e qualsiasi altra arma potesse essere usata contro il nemico.


«Gli anconetani ci stanno attaccando!», gridò il nobile Franciolini. «Li hanno avvistati le nostre vedette dal Torrione del Montirozzo. Oggi, 30 Maggio 1517, ci prepariamo a difendere le mura della nostra città.»

Tutte le porte furono chiuse, la maggior parte degli uomini a piedi si dispose sugli spalti, mentre i cavalieri si assiepavano nel piazzale all’interno di Porta Valle, pronti alla sortita contro il nemico. Ma per quella notte, l’esercito anconetano, guidato dal Duca Berengario di Montacuto, non si avvicinò a Jesi, rimase accampato più a valle, a poche leghe dal centro abitato di Monsano, seminascosto nella boscaglia ripariale in prossimità del Fiume Esino.

Per alcuni giorni rimase l’allerta. All’imbrunire le scolte raggiungevano gli spalti, a rafforzare la guardia di solito demandata ad alcune vedette, e dalle mura risuonava il richiamo di un canto che da parecchi anni la popolazione non sentiva più:

«Squilla la tromba che già il giorno finì,

già del coprifuoco la canzone salì!

Su, scolte, alle torri guardie armate, olà,

Attente, in silenzio vigilate!»

Il Capitano del Popolo aveva imposto il coprifuoco alla cittadinanza. Alle nove di sera, chi non saliva sugli spalti delle mura, aveva l’obbligo di ritirarsi in casa. Ma la guardia era destinata ad abbassarsi presto. Per la sera del 3 Giugno era prevista la festa a Palazzo Baldeschi, in cui sarebbe stato annunciato il fidanzamento della nipote del Cardinale, Lucia, con il cadetto di casa Franciolini. In quei giorni, ogni volta che Lucia incrociava gli occhi di suo zio, anche se non era capace di leggere i suoi pensieri, nel suo volto vedeva disegnata una sola parola: “tradimento”. Ma non riusciva a capacitarsi quale interpretazione dare a quella parola, al contempo così semplice e così complessa.

CAPITOLO 2

Guglielmo dei Franciolini, Capitano del Popolo di Jesi, era un saggio amministratore, e sapeva bene che non era il caso di autorizzare una sontuosa festa proprio nei giorni in cui il nemico era alle porte della città. Ma non poteva andare contro il Cardinale, rinverdendo ancora una volta i dissapori tra autorità civili ed ecclesiali. Giusto pochi anni prima, il Palazzo del Governo era stato terminato e inaugurato con la benedizione dello stesso Papa Alessandro VI, che aveva concesso alla cittadinanza jesina di continuare a fregiare il leone con la corona regale, purché nella città e nel contado fosse osservata l’autorità ecclesiastica. Tanto che sulla facciata del palazzo si poteva leggere, al di sopra del simbolo della città, la scritta “Res Publica Aesina - Libertas ecclesiastica – MD”. E quindi il famigerato Papa Rodrigo Borgia aveva accordato una certa libertà alla Repubblica Jesina, purché si assoggettasse comunque al potere della Chiesa. Con quest’accordo, agli jesini furono anche risparmiati gli orrori perpetrati nel resto delle Marche dal figlio del Papa, Cesare Borgia, che si era proposto di diventare signore assoluto della Romagna, dell’Umbria e delle Marche con la ferocia e il tradimento. Era storia passata, di quasi vent’anni prima, ma comunque Guglielmo doveva rispettare i patti. Inoltre, era proprio il fidanzamento di suo figlio Andrea con la nipote del Cardinale a suggellare ancor di più l’accordo tra guelfi e ghibellini della sua città. In fin dei conti, il nemico era accampato da qualche giorno sulle rive del fiume, parecchio più a valle, e non accennava a muoversi. In quelle notti di coprifuoco, le vedette e le scolte non avevano notato movimenti; i fuochi di bivacco dell’accampamento erano ben visibili, quasi tenuti accesi a bella posta per tutta la notte dagli anconetani. Il timore, non infondato, di Guglielmo e di suo figlio Andrea, era che tutto ciò fosse un trucco. Forse i nemici aspettavano rinforzi per attaccare, o forse attiravano l’attenzione degli jesini su quel piccolo accampamento, mentre il grosso dell’esercito sarebbe apparso altrove. Il pomeriggio di giovedì 3 giugno era stato particolarmente caldo. Mentre Guglielmo si preparava per la cerimonia, aiutato da alcuni servi a indossare eleganti e colorati abiti di broccato, che contribuivano ad aumentare in maniera notevole la sua produzione di sudore, finiva di impartire ordini ai comandanti delle sue guardie.

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