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Il Guerriero Sfregiato
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Il Guerriero Sfregiato

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Osservò con attenzione la bellissima bionda dagli occhi castani davanti a sé. Non c’erano indizi fisici su di lei a dimostrazione di ciò che stava dicendo Zander, infatti non sembrava avere cicatrici, ma in lei c’era qualcosa di famigliare.

“È vero” commentò Jessie rispondendo alla domanda che Shae non aveva espresso a voce. “Azazel mi ha morsa e mi ha inserito un localizzatore nel fianco diversi mesi fa. Non mi dimenticherò mai la sensazione dei suoi canini nel collo” aggiunse nell’abbassare la maglietta per mostrare due cicatrici che Shae fece fatica a distinguere. Definirle cicatrici è un’esagerazione, assomigliano a delle punture di zanzara, pensò Shae amaramente.

Si toccò le proprie. Provava indignazione. Era sempre stata una donna sicura di sé, mentre ora era sfigurata dalle cicatrici. Si sentiva brutta e usata, e non sapeva come avrebbe fatto a convivere con la propria immagine. Non aveva nemmeno più il controllo sulla propria mente, che le fece provare una scarica di rabbia incontrollabile senza preavviso. Senza contare il fatto che ora vedeva il mondo in toni di rosso e arancione, nonostante fosse un aspetto assolutamente trascurabile rispetto a ciò che aveva sofferto.

Già, quella donna non conosceva il dolore. Era stata morsa solamente una volta e non aveva più dovuto provare l’agonia provocata dal veleno del demone. Non era nemmeno stata stuprata o torturata o obbligata ad uccidere innumerevoli demoni, umani o altre prigioniere. Certo, a Shae aveva fatto piacere uccidere fino all’ultimo i demoni che aveva affrontato, ma eliminare gli innocenti aveva lasciato un segno nella sua anima che non sarebbe mai stato rimosso.

“Ma tu non sei stata imprigionata per mesi, e adesso tu sei libera e io sono qui dentro”.

“Abbiamo confinato Jessie in una cella come questa fino a quando ci ha provato che non fosse un pericolo. Ci arriverai anche tu” aggiunse Zander incrociando le braccia al petto. Shae voleva credergli con tutto il cuore, ma la speranza era qualcosa di fragile a cui non osava aggrapparsi con troppa forza.

“Hai ragione” intervenne Jessie, sorprendendo Shae. “Non mi ha portata con sé quando se n’è andato, e di questo sono grata. Mi dispiace che tu e le altre abbiate dovuto soffrire così tanto, ma siamo più simili di quanto pensi. Hai imparato a gestire la vista a infrarossi? Ci ho messo un sacco di tempo a capire come farla smettere”.

Shae inarcò un sopracciglio. “Sei riuscita a farla smettere?” La ragazza bruciava di gelosia; era stato tutto così facile per questa donna. Non aveva nemmeno dovuto avere a che fare con i mal di testa accecanti causati dalla vista a infrarossi.

“Sì. Ti posso insegnare” propose Jessie con un sorriso cordiale in volto. Shae percepì l’interesse delle altre prigioniere; era certa che stessero ascoltando attentamente, dato che era qualcosa che volevano tutte. Doveva fare attenzione a come avrebbe risposto.

“Mi piacerebbe. In realtà farebbe comodo a tutte noi. Sono mesi che la vista infrarossi mi provoca dei mal di testa terribili. Sarebbe un sollievo se riuscissi a liberarmene. Posso farti una domanda? Come ti nutri?” Chiese a bassa voce. Non voleva rivelare la propria sete di sangue incontrollabile in quanto riteneva che l’avrebbe aiutata ad apparire migliore agli occhi del Re, ma allo stesso momento aveva bisogno di aiuto a gestirla.

“Mi ricordo dei mal di testa, anche se gli scienziati ritenevano che fossero i tentativi dell’Arcidemone di controllarmi, non il cambiamento nella mia vista. Mi nutro mangiando come facevo prima, ma non credo sia ciò che mi stai chiedendo. Bevo sangue un giorno sì e uno no, e ti posso dire che in quanto umana ho creduto di essere impazzita quando sono passata dal non sapere niente del mondo soprannaturale a provare la sete di sangue. Non ho mai creduto in queste cose perché nel mio mondo non sono mai state considerate reali, quindi ho veramente creduto di essere diventata pazza. Fortunatamente Zander e gli altri Guerrieri Oscuri mi hanno aiutata a gestire la mutazione”.

Shae soppesò le parole di Jessie; si chiedeva se avesse ragione. Il pensiero di quegli stronzi di Arcidemoni che tentavano di influenzarla le faceva venire voglia di abbattere le sbarre per correre da loro e ucciderli. Non voleva continuare a vivere se fossero stati in grado di manipolarle la mente.

Assimilò solamente dopo il resto dell’affermazione di Jessie. “Non mangio cibo vero da così tanto tempo. Mi mancano i gamberi e le capesante” disse malinconicamente. “Cosa succede alle vittime quando ti nutri?”

Jessie guardò Zander e poi Shae, quindi quest’ultima si rese conto di aver detto qualcosa di strano. Si irrigidì, era pronta per ciò che sarebbe successo dopo. “Non consideriamo vittime i nostri donatori. E la maggior parte delle volte Jessie consuma il sangue nelle sacche che Jace porta a casa dall’ospedale”.

“Ma quando mi nutrivo da una persona la mia sete di sangue non aveva la meglio su di me. Era facile controllare la fame, e prendevo solamente ciò che mi serviva”. Jessie e Shae si scambiarono un’occhiata empatica. “Non ho vissuto tutto ciò che hai dovuto soffrire tu, ma comprendo i cambiamenti che stanno accadendo in te. Non esisteva un termine per definirmi, e mi rifiutavo di essere associata a uno Skirm, quindi ho deciso di chiamarmi Dhampiro. Zander mi ha accettata come una di loro”.

“Dhampiro” ripeté Shae. “Mi piace”. Era combattuta; non sapeva più quale fosse il suo posto. Non era più un vampiro, ma era d’accordo con Jessie; non era nemmeno uno Skirm. Gli appellativi erano importanti nella loro società. Era stata un vampiro, un funzionario prestiti, una figlia e una sorella. Le era di conforto avere un nuovo modo per descrivere la propria identità, dato che odiava essere lasciata nel limbo.

“Mi sai dire qualcosa circa il piano di Kadir? Forse non lo sai, ma ha usato un vampiro per rapire la mia Prescelta, e devo sapere se lei o degli altri sono in pericolo” le chiese Zander cambiando argomento. Shae lo guardò scioccata. Avevano tenuto la cosa segreta al Reame; non aveva idea che la nullità che l’aveva rapita avesse fatto lo stesso con la Prescelta del Re. Si trattava della sua Regina, e provò empatia per la poveretta. Sapeva fin troppo bene cosa voleva dire essere torturata.

“Non so molto. Non ha mai nascosto quanto fosse incazzato quando hai sventato tutti i suoi piani. Ogni volta in cui l’hai battuto mi ha dato speranza, anche se si sfogava buttando una di noi sul ring”.

“Shae, mi—” cominciò Zander.

“No” lo interruppe; non voleva le sue scuse. “Eravamo contente che lo fermassi. L’ultima cosa che serve al Reame è che lui diventi più potente. Per quanto riguarda i suoi piani, non so quanto ci sia oltre l’ovvio volerti sottrarre l’Amuleto di Triskele”. Shae ripensò all’Amuleto benedetto dalla Dea e di come investiva il custode di certi poteri. Non invidiava Zander per il proprio compito di proteggere l’artefatto Santo che disegnava un bersaglio sulla sua schiena ma anche su quella dei suoi cari. La ragazza non si sentiva a proprio agio con il pericolo che correva il maschio Alfa di fronte a sé.

Il Re fece per rispondere, ma si interruppe quando udì il suono dei passi. Tutti e tre si voltarono verso le scale su cui apparvero degli stivali di pelle nera, e Shae si rese conto di desiderare che si trattasse del proprio Guerriero sfregiato.

“Jace. Ci sono novità?” Domandò Zander all’uomo che si fermò a qualche metro da sé. Era delusa, e si chiese se Gerrick la stesse evitando. Non che gliene avrebbe fatto una colpa, dopo il modo in cui si era comportata. Si ammonì mentalmente prima di concentrarsi sulla preoccupazione principale del momento, ovvero uscire da quella dannata cella.

“In realtà sì” rispose guardando Shae di sfuggita. “Sono arrivati i risultati preliminari delle analisi del sangue delle ragazze”. A Shae accelerò il battito cardiaco e si ritrovò a respirare a fatica quando l’agitazione ebbe la meglio su di sé. Avevano già trovato un modo per aiutarle? E se fossero state delle brutte notizie? Non era sicura di voler stare a sentire ciò che aveva da dire il guaritore. Si cinse la vita con le braccia in attesa del responso.

“Che cosa avete dedotto?” Domandò Zander.

“Niente di sorprendente. I livelli di veleno nelle ragazze sono ben più alti di quelli di Jessie. Addirittura in una di loro sono cento volte più elevati”. L’uomo non doveva pronunciare il suo nome perché Shae sapeva di essere la donna in questione. Aveva provocato appositamente i demoni in modo che mordessero e stuprassero lei, lasciando in pace le altre. “Gli scienziati teorizzano che il veleno si sia moltiplicato spontaneamente, ma non credo sia la spiegazione corretta. Ritengo che il motivo sia collegato al numero di volte in cui è stata morsa, ma anche ai picchi di rabbia. Non abbiamo rilevato quel fenomeno in Jessie, i suoi livelli sono diminuiti progressivamente da quando l’abbiamo confinata qui, e non ha dimostrato le emozioni di queste donne, quindi a questo punto sono tutte congetture”.

“Prendi un altro campione adesso che sono calme. È l’unico modo per dimostrare la loro teoria” ordinò Zander. Shae non desiderava diventare un ratto da laboratorio, e le prese a bruciare la rabbia nelle vene; fu solamente il proprio bisogno di risposte a sovrastare il disagio provocato dal venir analizzata e bucherellata.

“Stiamo per trovare una cura?” Domandò poi Zander al guaritore quando questi si avvicinò alla cella di Shae.

Jace si guardò indietro verso il Re Vampiro. “In realtà abbiamo preso la cura su cui stavamo già lavorando e l’abbiamo adattata alla struttura del veleno che abbiamo rilevato nel loro sangue. Abbiamo un antidoto che possiamo testare. Sfortunatamente al laboratorio non possiamo fare altro senza dati empirici. Il problema è che non abbiamo idea degli effetti collaterali che l’antidoto potrebbe avere su un essere vivente”. Shae sentì la speranza gonfiarle il petto; forse avrebbe avuto la possibilità di tornare a com’era prima dell’incubo. Non le fregava un cazzo degli effetti collaterali, voleva la cura.

CAPITOLO CINQUE

“Non sapevo avessimo fatto così tanti progressi!” esordì Zander in tono entusiasta.

Jace si avvicinò alle sbarre della cella di Shae e rispose al Re nel sistemare il kit a terra. Aveva diversi oggetti in mano.

“Lascia che ti aiuti” mormorò Zander raggiungendo il Guerriero.

“Nel corso dei secoli abbiamo sviluppato diversi antidoti che credevamo che avrebbero funzionato, ma solamente dopo aver avuto a che fare con Jessie abbiamo realizzato qualcosa di efficiente. Puoi per favore portare il braccio tra le sbarre in modo che possa prendere un campione di sangue?” Domandò Jace a Shae.

“Cosa vi fa pensare che possa funzionare su queste donne?” Chiese Zander.

“È accaduto qualcosa che non era mai successo prima. Il siero che abbiamo aggiunto ai campioni di sangue ha neutralizzato il veleno presente”.

Shae ascoltò con attenzione nel portare il braccio tra le sbarre. “Pensate che sia veramente possibile?” Voleva crederci. Avrebbe sempre avuto addosso delle cicatrici e i ricordi l’avrebbero sempre tormentata, ma sarebbe stata una donna libera se solo fosse stata capace di non provare più sete di sangue.

“Come ho detto” rispose il guaritore nel portarle un laccio emostatico intorno al braccio, poi disinfettò l’area interessata e alzò lo sguardo su di lei. “Non abbiamo modo di sapere se è veramente efficace, ma i test iniziali sono promettenti”.

“Wow, è la notizia migliore di tutto il giorno, cazzo!” esclamò Zander porgendo a Jace una siringa e un tubo per far defluire il sangue nella provetta. L’uomo inserì l’ago senza darle fastidio. “So che non ce ne avresti parlato se non fossi preparato per proseguire”.

“Sì, ho una dose con me”. Shae perse un battito all’affermazione del guaritore, e le presero a sudare le mani dall’entusiasmo. Improvvisamente non le importò di essere un ratto da laboratorio. “Io e gli scienziati” proseguì Jace “crediamo di doverla usare su una delle ragazze con i livelli più bassi di veleno nel sangue”. L’entusiasmo di Shae lasciò spazio alla delusione di non essere adatta alla prova.

Jace rimosse il laccio emostatico e la siringa, quindi le pulì il braccio. “Mi dispiace, Shae. So che vuoi offrirti volontaria, ma i tuoi livelli sono troppo alti”.

Shae non si preoccupò di nascondere la propria rabbia e la delusione. “Immaginavo. Promettimi che farai tutto ciò che serve per guarire le altre”.

“Non ho intenzione di lasciare nessuna di voi in questo stato” la rassicurò Jace, quindi si spostò con Zander alla cella successiva.

Shae cercò di portare la testa tra le sbarre per osservare ciò che stavano facendo. Ringhiò dalla frustrazione quando si rese conto di non riuscire a farlo, quindi si concentrò su ciò che stavano dicendo. Li sentì chiedere a un’altra ragazza se fosse stata disposta a farsi iniettare l’antidoto. Shae non fu sorpresa di apprendere che avevano scelto la prigioniera più recente. Era stata imprigionata solamente qualche giorno prima e Shae non sapeva nemmeno come si chiamava.

Udì del movimento contro il metallo e dei mormorii quando Jace le spiegò che cosa avrebbe fatto. Sembrava tutto molto cinico, qualcosa che non prendeva in considerazione l’importanza di ciò che stava per succedere. Non sopportava il fatto di non riuscire a vedere quello che stavano facendo. Sembrava che tutti nelle segrete fossero in attesa della reazione della ragazza. Improvvisamente esplose il caos; udì delle urla e vide Jessie affrettarsi verso la cella.

“Cosa sta succedendo?” Esclamò Shae, ma non le rispose nessuno. Udì Jace tuonare degli ordini, dicendo di tenere ferma la donna, e le vennero i brividi lungo la schiena. Non era il guaritore che aveva sperato fosse.

Vide passare Jessie davanti alla propria cella dopo un’attesa agoniante. “Jessie, cos’è successo? Ditemi qualcosa!” La implorò Shae, ma la ragazza avanzò senza risponderle né guardarla negli occhi. Qualche minuto più tardi Zander e Jace le passarono davanti portando con sé la ragazza. Lo spettacolo le fece venire la nausea. Urlò dalla disperazione e fece agitare le sbarre. La poveretta era irriconoscibile.

Sanguinava dagli occhi, dal naso e dalle orecchie, così come da ciò che una volta era stata la bocca. La carne del suo corpo aveva iniziato ad annerirsi e a marcire, lasciando intatte solamente qualche macchia della sua pelle color caramello. A Shae venne da vomitare quando la raggiunse il tanfo che emanava. Era chiaro che la donna stesse marcendo da dentro. Aveva abbandonato la testa indietro e la carne bruciata metteva in mostra i nervi del collo di lei, ed era come se le fossero stati dislocati gli arti. Le venne un conato quando vide cadere un pezzo del mignolino di lei sul pavimento di pietra. Le vennero le lacrime agli occhi al pensiero che la donna era morta per nessuna buona ragione. Si sentì ribollire di rabbia.

“L’avete uccisa. Come avete potuto farlo?!” Jace si voltò all’accusa di lei, e lesse il rimorso nei suoi occhi color ametista. Non l’aveva fatto apposta e chiaramente soffriva a causa dell’accaduto. Shae sapeva che i Guerrieri Oscuri erano dei bravi uomini che si meritavano il rispetto e la fiducia, e nonostante la rabbia che provava in quel momento, la sua opinione su di loro non era cambiata.

“Non sapevo sarebbe successo” rispose Jace prima di salire al piano superiore. Shae fissò le scale per un lungo istante prima di raggiungere il letto dove vi si abbandonò, ignorando i pianti e le domande delle altre donne. Era sempre stata quella che aveva rassicurato le altre, dicendo loro che qualcuno le avrebbe portate in salvo, ma non aveva più niente da offrire loro. Era appena stata privata dell’unico bagliore di speranza che aveva provato in sette mesi. Non sarebbe mai più uscita da quella cella. Le venne voglia di abbattere i muri e scattare di corsa fino a che l’avrebbero retta le gambe. Non sarebbe mai più stata la donna di prima e non c’era speranza nemmeno per le altre, quindi perché avevano mentito?

Si coricò nel riflettere sulle implicazioni che ciò avrebbe avuto sul proprio futuro. Si era preparata a morire in infinite occasioni nel giro dei mesi precedenti, ma le era sempre stata negata la possibilità. Maledì silenziosamente la Dea per aver giocato alla carota e il bastone con lei. Non si era calmata dallo sfogo che aveva avuto, e quel pensiero la fece solamente arrabbiare di più.

L’ira peggiorò, ed era come se avesse avuto il proverbiale diavolo sulla spalla che le sussurrava all’orecchio di vendicarsi. Si ammonì; era ridicola e doveva calmarsi. Cercò di respirare a fondo come aveva suggerito Jessie, eppure affondò con le unghie nelle lenzuola fino ad arrivare al materasso.

Venne distratta da qualcuno che bussò alle sbarre. Era stata talmente presa dai propri pensieri da non rendersi nemmeno conto che qualcuno stava scendendo le scale. Inizialmente vide una figura arancione-rossiccia, e poi distinse l’odore del maschio. Dovette sbattere le palpebre diverse volte prima di vedere distintamente il volto sfregiato di Gerrick. Aveva ancora la vista a infrarossi, ma riconobbe il cupo insieme della sua bocca e gli occhi del colore del ghiaccio. Stranamente la sua rabbia svanì come polvere nel vento. La mera presenza di lui la tranquillizzava, e Shae si godette la sensazione.

“Ti ho portato da mangiare. Le altre hanno mangiato mentre tu dormivi” la informò porgendole un vassoio di metallo. Le prese a brontolare lo stomaco quando la raggiunse il profumo emanato dal piatto. Le venne voglia di privarlo del vassoio in fretta e furia prima che la propria sete di sangue avesse la meglio su di sé e si ritrovasse a nutrirsi dal collo di qualcuno. Il bisogno di sangue era diventato un incubo ed era terrorizzata dall’intensità della propria sete del momento.

Durante i mesi precedenti i demoni avevano affinato la sete di Shae per renderla un’arma di violenza e morte. Odiava la propria mancanza di controllo; le sfuggiva di mano proprio quando credeva di aver avuto la meglio su di essa. Si ritrovò a fissare il cibo tra le mani di Gerrick, godendosi il delizioso aroma che emanava, ma la sua attenzione si spostò in fretta verso la vena del collo di lui. Doveva avere il suo sangue. Nulla aveva importanza in confronto al bere il suo sangue fino all’ultima goccia.

“Tutto ok, Rossa?” La sua voce roca la distrasse dall’istinto omicida che le aveva annebbiato la mente. Se avesse fatto del male a quell’uomo avrebbe distrutto tutto ciò che restava di buono nel proprio cuore e nell’anima.

“No. È come se dentro di me ci fosse qualcosa che vuole solo uccidere. Lo odio” ammise portandosi la testa tra le mani. Non aveva avuto intenzione di dire la verità, ma le erano sfuggite le parole di bocca e non aveva la minima intenzione di rimangiarsele, adesso che lui ne era a conoscenza. Voleva che quell’uomo sapesse tutto di sé, sia le cose belle che quelle brutte.

“Quindi ti arrendi? Hai intenzione di lasciarli vincere?” Inclinò il capo di lato e la guardò attraverso le sbarre.

Gli occhi di ghiaccio di lui inizialmente sembravano freddi e distanti, ma Shae fu in grado di individuarvi il calore e la voglia di vivere. “Dev’essere bello giudicarmi dall’esterno di questa cella. Non hai idea di che cos’ho passato e di quanto abbia combattuto” sbottò.

“Ecco il fuoco che ho visto prima. Dovrai tenertelo stretto se vuoi uscirne. Ora, vuoi questo cibo? Io non sono sul menù”. Che peccato, pensò Shae. Voleva il suo sangue più di ogni cosa. Per poco non sorrise quando lo vide inarcare appena un angolo della bocca. Il suo mezzo sorriso le fece venire le farfalle allo stomaco e le fece provare bisogno sessuale. “Non preoccuparti, ti porteranno presto del sangue”.

“Come se ti morderei veramente. Dammi da mangiare”. Le venne l’acquolina in bocca al pensiero di assaggiare il sangue di lui, a dispetto del suo tono imperativo.

“Dovrai venire più vicina” la sfidò; Shae giurava di aver visto un barlume di lussuria negli occhi di lui. Si chiese se si fosse sbagliata, quindi esitò quando si alzò e si diresse verso di lui. Non le sfuggì il modo in cui la guardava, e l’ansia le fece aumentare il battito cardiaco. Dopo tutto ciò che aveva passato credeva di aver avuto abbastanza degli uomini, ma Gerrick la stava facendo dubitare.

“Che profumino” mormorò concentrandosi sul cibo.

“È lo stufato di manzo fatto in casa, una specialità di Elsie. Sono sicuro che quando l’assaggerai mi darai ragione” si fermò in corrispondenza del passavivande della cella.

“Non mangio da quando mi sono fatta quel panino al prosciutto al lavoro il giorno in cui mi hanno rapita. Tutto ciò che ci hanno dato sono stati degli umani da prosciugare”. Non sapeva come mai si stesse aprendo con lui; sicuramente era vittima di un suo incantesimo che le faceva vuotare il sacco, perché non sembrava in grado di chiudere la bocca. “E se non li uccidevamo quando ce li portavano ci torturavano e ci stupravano. La cosa peggiore era che a parte di me piaceva uccidere”. Si sarebbe aperta totalmente se Gerrick avesse veramente voluto conoscerla. Quando i due incrociarono lo sguardo, Shae lesse comprensione negli occhi di lui, non repulsione.

Gerrick non avrebbe dovuto sapere cosa significasse quando una femmina veniva violata in modo inimmaginabili. E non avrebbe nemmeno dovuto capire cosa significasse venir privati della possibilità di risparmiare la vita di un innocente. Erano state private del libero arbitrio ed erano state solamente soggette al dolore e al tormento. L’empatia che dimostrava lui era però innegabile.

“Il sangue di ogni vita a cui hai posto fine è una responsabilità di Kadir e Azazel, non tua, e non avrò pace fino a quando non li avrò uccisi”. Shae era commossa dalla veemenza del tono di lui e dal suo intento di proteggerla. Di sicuro era qualcosa che faceva parte della natura dei Guerrieri Oscuri, il cui dovere era proteggere i civili, ma sembrava andare oltre. “Non parliamone più. Devi mangiare”. Non distolse lo sguardo da lei nel porgerle il vassoio.

Si allungò verso il vassoio di legno e le loro mani si sfiorarono. Immediatamente venne come catapultata in un altro mondo. Era disorientata e non aveva idea se si fosse veramente spostata da qualche parte o se si trovasse in un ricordo. Ciò che sapeva era che si trovava in una prateria, ma dubitava di esserci già stata.

Era una vista mozzafiato dominata da una distesa di lavanda a perdita d’occhio. Le vennero i brividi, e quando abbassò lo sguardo si rese conto di avere addosso un abito di puro cotone, diverso da quelli che aveva indossato.

Il tessuto azzurro-verde era spesso, pesante e grezzo al tatto, e si estendeva fino alle caviglie. Il top era bianco e si componeva di talmente tanti strati che le rendevano difficili i movimenti. Percepiva la costrizione tipica di un corsetto che le strizzava la cassa toracica e le rendeva difficile respirare. Il seno minacciava di traboccare dalla scollatura e un corpetto nero adornava l’esterno della blusa. Era un tipo di abbigliamento che ricordava quello dei secoli precedenti.

“Santa Dea, dove mi trovo?” Sussurrò. Avanzò di diversi passi fino a quando sentì un sasso farle male al piede, quindi lo sollevò e si rese conto di avere addosso solamente dei sandali di seta che non fornivano alcun tipo di protezione. Erano le calzature peggiori che avessero mai potuto inventare.

“Evanna” le sussurrò all’orecchio una voce bassa e roca. Quando si voltò per poco non cadde a terra. Era Gerrick, ma non assomigliava affatto al Guerriero che aveva incontrato.

Aveva un sorriso a trentadue denti sul suo bellissimo viso privo della cicatrice. I suoi capelli biondi erano lunghi e acconciati in una coda all’altezza della nuca, a differenza del taglio corto a cui era abituata. I suoi occhi di ghiaccio irradiavano calore e la invitavano a perdercisi dentro. Nulla nella sua espressione ricordava la freddezza di ciò che era diventato; non si trattava del Guerriero che aveva combattuto come se non avesse avuto nulla da perdere.

Gli abiti di lui non le risultavano strani come quelli che indossava in prima persona. Riconobbe il kilt e il top ondeggiante, tipico scozzese. Gerrick indossava persino i calzettoni al polpaccio e le scarpe nere, così come lo sporran. Era stupendo, e Shae non poté non chiedersi che cosa portasse sotto al kilt.

La prese tra le braccia e la baciò in bocca, ma si rese conto di conoscere già la sensazione del suo abbraccio e del sapore delle sue labbra. Era come creta nelle sue mani, e le loro labbra danzarono in sincrono. Trasalì quando la strinse ulteriormente a sé contro al suo petto solido e tra le sue braccia forti. La ragazza non provava più il disgusto che sentiva ogni volta in cui veniva toccata, al contrario quell’uomo stimolava la passione e il desiderio di lei.

Gli accarezzò i bicipiti e poi gli portò le braccia al collo infilandogli le mani nei capelli setosi. Lo sentì gemere dal piacere, quindi gli tirò appena le ciocche quando gli mordicchiò il labbro inferiore; era pronta per far scendere i canini, ma non li sentì affatto. Non provava nemmeno sete di sangue.

Aprì la bocca per chiedergli che cosa stesse succedendo, ma lui colse solamente l’occasione per farvi entrare la lingua. Era aggressivo, e assunse subito il controllo della situazione, prendendo da lei ciò che voleva. La propria mente fu sgombera di tutti i pensieri tranne che di quell’uomo e dei suoi baci. Era ovunque sul proprio corpo; le tirava le stringhe della blusa e le allentò prima di interrompere il bacio. Shae sollevò il capo e prese un respiro. “Gerrick” esordì.

“Mmmm” mormorò lui sulla pelle del collo di lei mentre le accarezzò il fianco, diretto al seno. “Che bello toccarti, Evanna”. Due cose avrebbero dovuto interrompere il momento di intimità, ma il cervello di lei non era in grado di elaborarle. Uno: parlava con un accento che non aveva notato, e due: l’aveva chiamata Evanna. Chi diamine era Evanna? Che cosa stava succedendo. Si chiamava Shae...vero?

Aprì la bocca per porgli una domanda, ma la chiuse subito quando Gerrick pronunciò un incantesimo che fece cadere a terra il tessuto che componeva la propria camicia, il quale venne steso a terra come fosse stato una coperta. Riprese a baciarle le labbra, forzandola a terra e spostandole i capelli da una spalla all’altra prima di farla accomodare.

Si rese conto che i propri capelli erano biondi. Era spaventata quando lo guardò negli occhi. Gerrick le portò una mano sulla guancia, e la visione svanì in un flash.

In un batter d’occhio si trovò nuovamente nelle segrete e Gerrick era di fronte a sé e le aveva portato una mano sulla guancia. Per poco non rovesciò il contenuto del vassoio quando balzò indietro.

“Cos’è successo? Ti sei immobilizzata per qualche minuto” commentò lui.

Stava impazzendo. “Ti conosco?”

“Sì. Ci siamo incontrati qualche ora fa quando vi abbiamo salvate da Kadir”. Gerrick indietreggiò e si appoggiò al muro dietro di sé portando una caviglia sopra l’altra; sembrava confuso.

“No, intendo prima di allora. Avrei potuto giurare che…” lasciò la frase in sospeso, non era sicura di che cosa dire. Non avrebbe assolutamente mai ammesso di aver immaginato di limonare con lui in un campo di fiori con addosso degli abiti di secoli prima.

“Non ci siamo mai incontrati prima. Non mi dimenticherei di te” ammise. Poteva sembrare rilassato con le braccia abbandonate lungo i fianchi, ma i suoi occhi tradivano ciò che provava veramente. Era attratto da lei, ma era ovvio che la cosa non gli piacesse. “Mangia” ordinò.

Shae si sedette sul letto con le gambe incrociate, quindi si concentrò sul piatto avanti a sé. Grugnì quando ne prese un morso, il brodo caldo e appetitoso era paradisiaco. “Grazie per avermi portato da mangiare, credevo che non mi sarebbe più stato dato” commentò.

Il Guerriero le rivolse un’occhiataccia. “Credevi che vi avremmo lasciate morire di fame? Non siamo dei selvaggi, Shae.”

Strinse lo sguardo su di lui quando ingoiò il boccone. “So che Zander non torturerebbe mai così qualcuno della propria specie. Ho solo pensato che dato il fallimento dell’esperimento, darmi da mangiare non fosse una priorità”.

“Allora non conosci così tanto bene i Guerrieri Oscuri. Nessuno di voi è un esperimento”. Praticamente stava ringhiando, era chiaramente molto arrabbiato. “Jace mi ha riferito quello che hai detto. Non ha mai avuto intenzione di farle del male”.

“Lo so. L’ho sentito ammettere di non sapere quali effetti avrebbe potuto avere su di noi. Ho capito che era arrabbiato a causa di ciò che era successo. Non so che cosa mi sia preso...ho solamente reagito. Ma Dea, non ho mai visto niente del genere, e fidati che ho visto parecchie cose durante la mia prigionia”.

“Posso solo immaginare che cosa tu abbia visto nel loro covo. So fin troppo bene di che cosa sono capaci. Lasciano solamente morte e distruzione sul loro cammino, ma fortunatamente abbiamo messo loro il bastone tra le ruote quando vi abbiamo liberate”.

Quando abbassò lo sguardo sul piatto si rese conto di aver divorato tutto in tempo record; avrebbe dovuto mangiare più lentamente. Il suo stomaco non era abituato al cibo, e le vennero i crampi, ma doveva ammettere che Gerrick aveva ragione: era il miglior stufato che avesse mai mangiato. Non riusciva a comprendere come mai la sua Regina avesse fatto qualcosa di talmente umile come cucinare. Non vedeva l’ora di dire a sua mamma che la Regina Vampiro aveva cucinato per lei. Sarebbe stata tanto scioccata quanto Shae. Nella mente di quest’ultima la famiglia reale era al di sopra di compiti del genere, specialmente considerato il fatto che avevano a disposizione dei domestici a cui delegare tali obblighi. Sicuramente avevano cose più importanti da fare come gestire tutta la specie dei vampiri.

Il solo pensiero della famiglia reale e della propria madre fecero crescere la necessità di Shae di uscire dalle segrete. “Pensavo che sarei morta in quelle celle. Avevo abbandonato tutte le speranze di riuscire a scappare e rivedere la mia famiglia. Sarò stata liberata dalle loro grinfie, ma non sono libera. Lasciami andare, Gerrick” lo implorò sperando di fare leva sulle sue emozioni. Quando però notò l’espressione stoica sul volto di lui si rese conto di aver fatto un errore. Forse erano vere le voci che giravano circa l’assenza di sentimenti nel Guerriero che aveva di fronte a sé.

Non si arrese. “Devo tornare dalla mia famiglia. Non serve che i miei poveri genitori continuino a credermi morta” sussurrò cercando di sembrare miserabile. Non le risultò molto difficile dato che era ricoperta di lividi e ridotta male, quindi era certa di sembrare patetica. Arrabbiarsi e impartire delle richieste non aveva funzionato, ma forse quell’approccio l’avrebbe aiutata.

Si mise le mani nelle tasche anteriori dei pantaloni di pelle; non sembrava affatto commosso dall’implorare di lei. “Bel tentativo, ma non succederà. Sei in grado di garantirmi che non attaccherai nessuno dei membri della tua famiglia? Vuoi veramente rischiare?” Si spinse in piedi sollevandosi dal muro prima di avvicinarsi alle sbarre della cella.

Shae si alzò in piedi; gli rivolse un’occhiataccia stringendo i pugni. Era sexy, ma la faceva anche infuriare. Era stata forte per così tanti mesi, e ora voleva solamente nascondere la testa nella sabbia e far finta che fosse tornato tutto alla normalità. Voleva sentirsi amata e al sicuro. A casa sua si era sempre sentita così, e non avrebbe permesso ai demoni di privarla anche di quello. Abbassò lo sguardo quando sentì una fitta di dolore alla mano e si rese conto di aver distrutto il cucchiaio che stringeva. Merda.

“Ho fatto cose impronunciabili...non voglio più fare del male a nessun essere vivente, specialmente ai miei famigliari. Ma non posso nemmeno restare confinata dietro queste sbarre per un altro istante!” Esclamò, non riuscendo a controllare la propria ira.

Era come se i muri si stessero stringendo su di lei e si ritrovò a far fatica a respirare. Lasciò cadere il cucchiaio, quindi afferrò il vassoio e lo scagliò contro le sbarre. Sfortunatamente non raggiunse il maschio come era sua intenzione. Le pesava il petto e dalle dita si allungarono degli artigli, quindi strappò le lenzuola fino a quando non c’era più nulla da distruggere. In quel momento si fermò a fissare l’uomo incredibilmente bello.

“Hai finito?” Domandò lui in tono apatico. Shae non si fidava delle proprie parole, quindi si limitò ad annuire senza distogliere lo sguardo da lui. Si trovò improvvisamente con le lacrime agli occhi; quel maschio aveva risvegliato qualcosa in lei che non comprendeva e non era certa di voler comprendere. Era troppo schietta, e tenne la bocca chiusa per la prima volta da quando Gerrick l’aveva raggiunta nelle segrete.

Gerrick si allungò attraverso il passavivande e le afferrò le mani. “Non sarò tranquillo fino a quando non ti avrò portata a casa dalla tua famiglia. E se per farlo devo diventare uno scienziato, allora così sia”.