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Il Dono Del Reietto
Il Dono Del Reietto
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Il Dono Del Reietto

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Sacrifici a Corrupto in tutta Xantis elevammo

Ciò non piacque a Energon della Razionalità

Egli arrestò lo scorrere del tempo e a Tron rivolse la sua protesta

“Ho accolto i Quattro in Magicka, il mio Mondo, per farne l'Arena

Per ere Ti sei appagato del loro scontro, tutto i miei servi hanno registrato

Nessuno dei Quattro ha ancora vinto e Corrupto non è della Contesa”

La Guerra degli Quattro volgeva al termine

Tutti avevano perso

I Primi Nati dormivano da tempo

Ma Limpa giunse a perseguitarci

Tron divertito dai nuovi risvolti decise di allargare la Contesa

In antitesi a Corrupto inviò Limpa della Conservazione

E il Diamante risplendette nella Volta Celeste

Ella aprì un varco da cui scaturì il suo Emissario

Il Cigno di Cristallo solcò i cieli con una scia di polvere splendente

Tutti gli elfi da essa investiti provarono sollievo e gioia: il loro aspetto mutò

Crebbero in statura e in purezza, i capelli divennero rilucenti come i diamanti

Gli Elfi di Cristallo ci mossero guerra e cruenti furono gli scontri

La Guerra i Quattro era finita

Nessuno aveva prevalso

Ma una nuova Contesa si era aperta

Tanti Nuovi Dei giunsero e vi presero parte

Nuove razze furono generate e tante altre guerre furono combattute

Fiumi di sangue furono versati e molto magicka fu dissipato

Il rito originale continuava, ma da tempo immemore, la parte finale era stata omessa dalla tribù, forse perché contemplava il graduale declino della loro razza e soprattutto perché, ormai, tutti ritenevano falsa e fastidiosa l'ultima strofa. Non era possibile che i deboli umani, giunti in epoche più recenti, fossero stati generati direttamente da Tron in persona.

Djeek amava recitare il Rito, perché lo portava a fantasticare, ma fantasticare poteva essere letale per un goblin... Infatti, se prima era tardi, dopo le sue elucubrazioni, lo era molto di più. Dove avrebbe trovato il coraggio di presentarsi a Hork con il sacco vuoto? Il tempo che gli restava non sarebbe bastato neanche se i ratti della Grantana fossero usciti, come per magia, tutti allo scoperto. Fu esattamente allora che proprio la fantasia gli fece balenare un'idea bizzarra.

Registri di Dharta Misathon (ottavo giorno del mese quarto nell'anno 11522).

Nuovi arrivi.

Djeek impugnò il bastone che lo superava in altezza di almeno mezzo piede e, sollevando schizzi, si mise a correre rumorosamente verso la grande tana delle nutrie. Era buio e c'era la nebbia, ma nessuna delle due cose infastidiva più di tanto la sua vista da goblin. Arrivò a una montagnola di argilla con alcuni fori a cui facevano capo profondi cunicoli nei quali centinaia di roditori trovavano rifugio. Djeek l'aveva ribattezzata Grantana ed era una specie di scatola dei desideri. Purtroppo, ogni tentativo di penetrarvi era risultato vano. Diverse volte, aveva provato a scavare, ma l'operazione era lenta e le creature facevano in tempo a spostarsi in zone sicure della complessa rete di tunnel. Aveva provato a versare dell'acqua, ma questa defluiva per poi essere assorbita nel terreno in profondità. Nemmeno appiccare il fuoco in prossimità delle buche era servito.

Stavolta, però, disponeva di un nuovo strumento. “Se grazie a questo bastone, quell'umano ha stanato e messo allo spiedo il Grande Mostro della Palude, io potrei riuscire a stanare almeno qualche roditore” pensò Djeek senza troppa convinzione.

Strinse forte l'impugnatura, imitando goffamente la posizione dell'elementalista, socchiuse gli occhi e si sforzò cercando di scuotere la montagnola con il pensiero. Purtroppo, non accadde nulla. Provò altre volte sbarrando gli occhi o serrando i denti: niente, niente di niente!

Alla fine, stremato e rassegnato, si genuflesse reggendosi al bastone. Attraverso di esso, sentiva flebili e lontane le vibrazioni che si trasmettevano sul terreno: erano i ratti che si muovevano e scavano sotto la superficie. Già altre volte, poggiando l'orecchio a terra, aveva potuto sentirli: così vicini eppure, così irraggiungibili. Gli sembrò quasi di vederli lì sotto, immaginò di poter penetrare nel cunicolo e seguirli nei loro nascondigli. Sentì i loro passi furtivi quasi come se gli passassero sul ventre e, come in un sogno, immaginò di schiacciarseli addosso con le braccia: avvertì il loro sgomento nel vedere le loro tane tremare e crollargli addosso. Sentì il calore del loro sangue scorrergli sul petto e l'inebriante odore dell'adrenalina che trasudava dalla loro pelle.

Come risvegliandosi da una visione, Djeek aprì gli occhi e vide una valanga di ratti evacuare terrorizzati dalla montagnola semi-crollata. Si lanciò alla caccia e, nel giro di un minuto, aveva già riempito il sacco.

Era salvo: ciò lo rendeva felice e, per la prima volta, fiero di sé. Poco dopo, un altro pensiero, ancora più divertente, gli stampò sul volto butterato un ghigno ferino, cioè l'equivalente goblin del sorriso. «Non vedo l'ora di vedere la faccia di Kitzo: il sacco è più pieno di prima!» pensò ad alta voce.

Raggiunse il luogo del nascondiglio e, mentre con fare reverenziale riponeva nella fessura il bastone, pensò di conferirgli un nome. «Lo chiamerò Grande Verme.» Cioè il modo gergale usato per riferirsi all'emissario di Corrupto. Come il Verme Primordiale aveva stanato gli elfi grigi dalla caverna, così il suo aveva stanato i ratti dai loro cunicoli.

Arrivò nei pressi dell'abitato a notte fonda, proprio mentre Hork stava provvedendo a reclutare nuovi piccoli. Era suo compito, al termine dello svezzamento, sottrarre i cuccioli alla madre per portarli al vivaio che, volutamente, era posto nella zona proibita alle femmine. Bisognava recidere immediatamente i legami di nascita: la famiglia era un vezzo che la società goblin non poteva permettersi. Nessuno conosceva i propri genitori e nulla escludeva che un figlio un giorno potesse inconsapevolmente uccidere il padre, oppure che potesse ingravidare la madre o una sorella. Ciò era in perfetta coerenza con il fatto che i vincenti avessero diritto di vita e di morte sui più deboli e che a loro spettasse di trasmettere il proprio seme senza limitazione alcuna: solo così il branco sarebbe diventato sempre più forte.

Hork faticò non poco per sopraffare le feroci resistenze della femmina: dopo aver ricevuto un morso sul braccio e un profondo graffio sulla guancia, era riuscito a torcerle il polso dietro alla schiena e a piantarla contro il muro esterno della capanna. Fu in quel momento che l'addestratore annusò che ella era di nuovo pronta all'accoppiamento. Così, decise di approfittarne prima che gli altri se ne accorgessero. Non fece in tempo a strapparle il vestito, che venne preso per la collottola e sbalzato indietro di diversi piedi da Ghuk, un goblin esploratore. Questi acciuffò per il peli della testa la femmina che tentava la fuga e si preparò a inseminarla. Nel frattempo, Hork si stava rialzando tramortito. Però, un altro maschio, Rok, rifilandogli con noncuranza un calcio violentissimo, lo rimandò a terra dolorante. Quest'ultimo si lanciò per interrompere Ghuk che nel frattempo si stava già accoppiando e ne scaturì una rissa brutale. La femmina ne approfittò per darsi alla fuga. Tuttavia, mentre passava vicino a Hork che giaceva a terra, questi ebbe il riflesso di afferrarle la caviglia facendola cadere. L'addestratore si alzò sulle gambe malferme per lo stordimento e stava per lanciarsi sulla goblin, quando vide arrivare Hutzo, uno dei razziatori più feroci. Si immobilizzò e balbettò qualcosa come: «Signore, stavo giusto venendo a chiamarti! Quei due indegni volevano... ouch!» Ricevette un pugno nello stomaco, che lo sollevò di tre piedi, seguito da una ginocchiata in faccia mentre ricadeva.

«Vai a prendere i cuccioli, e torna a fare la mammina al vivaio! Verme!» gli intimò il bruto. Poi, emise un ringhio che raggelò gli altri due contendenti i quali si dileguarono all'istante. Con una mano, afferrò per il collo la povera femmina facendole entrare le unghie nella pelle e la sollevò per accoppiarsi. Quando ebbe finito, la getto via come uno straccio e se ne andò.

“Questa volta, è andata in maniera piuttosto tranquilla” pensò Djeek mentre si affrettava ad allontanarsi dal luogo della scena. Spesso, gli scontri per la riproduzione erano molto più violenti, con morti e mutilati tra i pretendenti. Succedeva sempre così: la malcapitata di turno, nel marasma, si ritrovava a essere presa con la forza da molti maschi e alla fine, era impossibile conoscere esattamente il padre della figliata. Però, questo era un bene per il branco.

Mestamente, Hork raccolse i sei cuccioli che dall'inizio non avevano smesso un attimo di urlare e dimenarsi terrorizzati, lì colpì alla testa in modo da farli svenire, li caricò sulla carriola insieme allo sterco che gli serviva per riparare una falla della sua capanna e si avviò verso il vivaio. Era dolorante e ferito nell'orgoglio, ma già assaporava la sua rivalsa. Poco prima, il giovane Kitzo, seguito dai suoi scagnozzi, gli aveva spifferato che quell'idiota di Djeek aveva passato tutto il tempo a divertirsi anziché cacciare. Era chiaro che quanto riferitogli era tutto falso, sia perché quel babbeo svolgeva alla lettera tutti i compiti assegnatigli e sia perché l'alito dei furbacchioni odorava di topo a passi di distanza. Hork, però, sapeva riconoscere i talenti. Mentre era certo che il teschio dell'inetto Djeek sarebbe presto entrato a far parte della sua collezione, era altrettanto sicuro che Kitzo sarebbe presto diventato uno sciamano, un sacerdote di Corrupto da cui aveva ricevuto lautamente i doni della mutabilità e dell'astuzia. Era quindi sua intenzione entrare nelle grazie del suo prediletto, sperando che un giorno si ricordasse di lui sollevandolo dalla sua misera condizione di lavoratore. Quindi, doveva stare al gioco e malmenare il babbeo. Inoltre, la cosa lo divertiva, lo faceva sentire forte.

Djeek aveva preparato la sua vendetta: nascosto il sacco in un cassone, si era seduto lì a fianco ad attendere con fare affranto. Nel frattempo, era arrivato Kitzo che lo punzecchiava con frasi del tipo: «Cosa è successo ai tuoi ratti? Non te li avranno presi dei tipi cattivi?», «Povero Djeek, quando Hork ci si mette fa veramente male, vero?», «Che sapore hanno i vermi della latrina? Dicono che tu li abbia degustati...» e avanti così. Il giovane goblin taceva e pregustava la rivalsa.

L'addestratore arrivò e, come da copione, disse: «Fammi vedere cos'hai preso, buono a nulla! Dov'è il sacco?»

Djeek attese un po' senza rispondere per gustarsi il più possibile il momento e, quando l'adulto stava per scattare verso di lui, sollevando il coperchio del cassone, disse: «Eccolo, Signore. Spero siano abbastanza.»

Kitzo cadde nello sconcerto e già si guardava intorno per trovare eventuali vie di fuga da Hork, ma fu egli stesso ad aiutarlo. Questi, infatti, colpì violentemente l'incredulo Djeek allo stomaco con un pugno, per poi rifilargli una ginocchiata in faccia. «Chi credi di fregare! Kitzo e suoi amici mi hanno riferito che ti hanno visto mentre danneggiavi la mia capanna e hai dato loro delle prede per comprarti il silenzio!» E poi, ammiccando al giovane furbastro, rincarò: «Farai tre giorni nella latrina, verme!».

Djeek aveva di nuovo perso, tuttavia la sua permanenza nel pozzo fu, sì, dura, però, non così terribile. Questo, perché poteva anche essere un debole, ma ora possedeva il Grande Verme e ciò lo rendeva pieno di orgoglio e di speranze.

Registri di Dharta Misathon (undicesimo giorno del mese quarto nell'anno 11522).

Il Santuario di Corrupto.

Quando ebbe finito di scontare la punizione, Djeek tornò alle sue mansioni. Nei giorni successivi, con l'aiuto del bastone, la caccia era diventata una passeggiata. Così, ebbe più tempo per esercitarsi a usarlo.

Aveva capito che per attivarlo, bisognava acuire i sensi, ma allo stesso lasciarsi andare quasi come per addormentarsi. Era importante, però, tenere a mente cosa si volesse ottenere: un po' come cercare di prendere sonno con lo scopo di sognare qualcosa o qualcuno di preciso. Poi, per qualche istante, aveva come l'impressione di essere il suolo stesso e, a quel punto, avveniva il controllo su di esso. Questa era la parte più difficile, si rendeva conto di poter modificare il terreno come se fosse il suo corpo, tuttavia si sentiva come un neonato che deve ancora prendere confidenza con le proprie membra e con i movimenti. Il risultato era che riuscisse a far accadere qualcosa, ma non era mai esattamente ciò che voleva ottenere. Una volta, volendo imitare l'umano, provò a evocare uno spuntone con lo scopo di infilzare una grossa tartaruga di palude. Ci riuscì parzialmente. Infatti, lo spuntone, che per fortuna non era né troppo grande né troppo duro e affilato, emerse, ma tra le sue gambe, lasciandolo senza respiro per diversi minuti.

Quello che, invece, proprio non riusciva a fare, era scagliare le pietre come se fossero proiettili: aveva persino plasmato dei sassi fino a farli assomigliare ai dardi della sua cerbottana, ma rimanevano lì, ancorati al terreno.

In quei giorni, venne nuovamente importunato da Kitzo e i suoi, ma vista l'esperienza precedente, attendeva sempre gli ultimi minuti per andare a caccia, in modo che lo trovassero sempre senza alcun ratto da sottrargli.

Girk e Gork, non ottenendo nulla da mangiare, persero presto interesse per quel passatempo e Kitzo si guardò dall'affrontarlo da solo: così, per qualche tempo, Djeek fu lasciato in pace.

Il bastone si era rivelato un ottimo strumento, non solo per far uscire i ratti allo scoperto, ma anche per scovarli: infatti, entrando in simbiosi con il suolo circostante, poteva sentire i loro passi come se si muovessero su di lui. Un giorno, proprio mentre si stava concentrando in tale operazione, avvertì dei movimenti striscianti, ma molto più pesanti. Ciò lo fece sobbalzare sul più bello e il terreno circostante si scosse insieme a lui provocando il crollo di un piccolo sperone di argilla. Nel fracasso delle zolle che impattavano l'acqua, si udì un urlo soffocato seguito da un tonfo. Che guaio! Forse, aveva inconsapevolmente fatto del male a qualcuno. Corse nella direzione del crollo. Era chino per sondare con le mani nell'acquitrino, quando sentì un dolore acuto al polpaccio che lo fece accasciare. Un istante dopo, Kitzo, emergendo dalla palude, era su di lui pronto a finirlo con un pugnale ottenuto affilando una pietra di selce. Djeek ruotò su se stesso e, mentre con la mano destra teneva ben saldo il bastone, con l'altra fece appena in tempo ad afferrare il braccio dell'avversario che stava per piantargli la rudimentale lama nella gola. Nella convulsione della lotta, guardò con repulsione quel pezzo di selce che gli aveva lacerato le carni del polpaccio e che ora era prossimo a recidergli la giugulare. Lo rigettò da sé come se fosse un boccone inappetibile. Fu in quel momento che questo schizzò frantumandosi verso il goblin che lo brandiva ferendogli la mano e colpendolo all'occhio.

«Che tu sia dannato!» urlò Kitzo portandosi la mano al volto ormai sfigurato. Djeek si rialzò tremante e, ponendo dinanzi a sé il bastone, si preparò a fronteggiare un nuovo attacco, ma l'altro si dileguò maledicendolo: «Che tu possa marcire per sempre nel ventre del Grande Verme!».

Il giovane goblin rimase immobile e ansimante per alcuni istanti. Ma poi, una volta assorbita l'adrenalina, il dolore al polpaccio si ripresentò insopportabile. Tirò fuori dall'acqua la gamba e constatò che il coltello lo aveva lacerato in profondità, vide colare un rivolo copioso di denso liquido nero e capì che si stava dissanguando. Raggiunse zoppicando un grosso albero marcescente, si aggrappò a una delle liane che pendevano dai suoi rami e tirò con tutta la forza finché, con un crack il legno fradicio cedette, piombandogli in testa. Imprecando contro la sua imbranataggine, prese a legarsi la gamba con il laccio rimediato, ma l'emorragia non si arrestò. “Morirò prima di raggiungere il villaggio” pensò accasciandosi a terra esausto. Chiuse gli occhi e, ponendosi in posizione fetale, strinse il bastone attendendo la fine. Sentì la terra abbracciarlo e stringerlo a sé come una madre affettuosa, avvertiva defluire il suo sangue come l'acqua che scorre nei ruscelli; sognò di arginarne il corso costruendo una piccola diga di sassi, tronchi e argilla.

Si svegliò un paio d'ore più tardi, esaminò la ferita e vide che i suoi lembi, seppur ancora aperti, si erano induriti fino a sembrare fatti di creta essiccata; aveva problemi a deambulare, ma almeno non perdeva più sangue e il dolore si era assopito. Visto che non era nelle condizioni di digiunare, si sbrigò a completare la caccia con l'aiuto del bastone che, poi, ripose nel solito nascondiglio.

Prima di presentarsi da Hork con il sacco, ne tirò fuori tre ratti particolarmente appetitosi e li nascose sotto un rovo che confinava con un punto remoto del cortile del vivaio: era rischioso, ma ne andava della sua sopravvivenza.

Per una volta, il sotterfugio era andato a buon fine e Hork non si curò neanche del fatto che zoppicasse: sarebbe stata una premura inaspettata, se si fosse interessato di un suo infortunio.

Ottenne il suo meritato boccone, ma non andò a riposare come faceva di solito: doveva completare il pasto per rimettersi in forze e doveva farlo... in compagnia.

Il bastone gli aveva salvato la vita nell'immediato, ma non poteva lasciare la ferita in quello stato: ci voleva qualcuno che gli scrostasse la superficie pietrificata e che ricucisse lo squarcio. Nel vivaio c'era una giovane femmina di nome Griz che, viste le sue attitudini, svolgeva la mansione di aiuto fattucchiera e si prendeva cura dei feriti. Doveva quindi convincerla a uscire dalla capanna e proporgli uno scambio. A differenza dei maschi, almeno prima di divenire fertili, le femmine creavano un gruppo solidale che permetteva a molte di loro di sopravvivere alla feroce selezione nonostante la minore forza. Esse non si aggiravano mai da sole e se qualcuno faceva del male a una di loro, avrebbe, poi, dovuto fronteggiarne l'intero gruppo inferocito. Per Djeek, sarebbe stato difficile avvicinarla e ancora di più, convincerla a seguirlo, anche perché le femmine provavano ribrezzo per i più deboli, cioè per quelli che, come lui, non avevano il posto al coperto. “Mi aggirerò intorno alla baracca e, fiutando tra le fessure, individuerò il suo odore; poi, parlandole sottovoce, proverò a corromperla offrendole un bel banchetto” pensò cercando di convincersi che il suo fallace piano potesse funzionare. I dubbi, però, emersero gettandolo nell'angoscia: “Si fiderà di me? Come farò a comunicare con lei, senza farmi sentire da chi le sta vicino?”. Mentre si arrovellava il cervello in questi pensieri, vide un goblin con una benda sul lato destro della testa sbucare fuori da un cespuglio e, con fare furtivo, rientrare nella capanna: era Kitzo. Poco dopo, un'altra sagoma esile uscì silenziosa dallo stesso anfratto portando con sé una piccola sacca di cuoio. «Griz!» la chiamò sottovoce. Questa trasalì, come se l'avessero scoperta con le mani nel sacco. «Griz, sono Djeek! Stai tranquilla, voglio farti una proposta.» Ma ella, fulminea, gli balzo vicino puntandogli un rasoio affilato. «Oltre ad essere un verme, sei pure uno spione: ora, tu sparisci e dimentichi di avermi vista! Chiaro!» sibilò perentoria mostrando le zanne.

«Ho bisogno del tuo aiuto: sono ferito!» disse il goblin con voce tremula, cercando di non guardare la lama che lo minacciava.

«Se sei ferito? Crepa! Perché dovrei aiutarti?» gli replicò caustica.

«Vieni con me, ho dei topi appetitosi da offrirti.»

Due cose aiutarono Djeek: il fatto che tutti nel vivaio soffrissero la fame come condizione necessaria per crescere bramosi, e la sua reputazione di debole e innocuo smidollato. Griz decise di accettare l'invito a cena e di seguirlo: non lo temeva, era convinta di poterlo sopraffare facilmente, se le cose avessero preso una brutta piega.

I due si infilarono in un cespuglio vicino alla recinzione. Da lì, allungando un braccio in una fessura della palizzata, il goblin estrasse tre bei roditori. Griz si lanciò ad afferrarli, ma Djeek, mandandola a vuoto, disse con fermezza: «Uno è mio. Gli altri due sono per te: prendi questo intanto, l'altro te lo darò a lavoro finito. Non ti conviene cercare di sottrarmeli: se ci azzuffassimo, ci scoprirebbero.» L'altra stava già divorando avidamente il topo. Finì il pasto, ruttò in segno di gradimento e prese a esaminargli la ferita.

«È un brutto taglio. Ma cosa ci hai messo? La carne sembra argilla: bisogna asportare la parte morta prima di ricucire.» Estrasse dei lacci di cuoio dal suo sacchetto e disse: «Ti devo legare, prima.»

«E sia!» acconsentì Djeek. «Ma se provi a fare scherzi: mi metto a gridare.»

Gli legò mani e piedi, poi, gli infilò un pezzo di legno marcio in bocca. «Mordilo se senti dolore» lo istruì e prese ad asportargli il primo strato di carne: per tagliarla, usava il rasoio con l'indifferenza con cui si scuoia un animale morto. Il dolore superava di gran lunga quello provato nel momento in cui si era procurato la ferita e Djeek lottò per rimanere vigile: se fosse svenuto, sicuramente l'avrebbe lasciato lì, portandosi via il suo pasto.

Poi, mentre la curatrice iniziava a cucire insieme i lembi con un ago d'osso e uno spago, gli disse con l'indifferenza dissimulata di chi vuole ottenere informazioni: «Prima di te, ho medicato Kitzo che ha riportato una brutta ferita all'occhio: ho accettato di aiutarlo, perché non conviene mettersi contro di lui. Dice che è stato beccato nel sonno da uno straziatore, dice di averlo catturato e divorato: mi ha mostrato una sua penna che terrà per ricordo.»

Gli straziatori erano grossi corvi, grandi come rapaci. Erano chiamati così, perché tornavano utili quando bisognava torturare i condannati. Quest’ultimi venivano inchiodati a un palo e, prima che potessero morire di stenti, venivano divorati vivi da quei grossi uccellacci che prediligevano le parti molli come gli occhi, le interiora e i genitali.

“Maledetto! Inventerebbe qualsiasi cosa pur di non ammettere la sconfitta!” pensò Djeek e stava per rivendicare con fierezza: “Sono stato io a ferirlo all'occhio”. Tuttavia, si fermò giusto in tempo, perché in primo luogo, non gli avrebbe creduto e poi, come avrebbe risposto alle altre domande? Doveva tenere segreta l'esistenza del bastone. Kitzo era l'unico ad averlo visto ed era già di troppo. Esordì, quindi, con la prima scusa che gli venne in mente. «Una tartaruga carnivora» disse. «Ehm... mi ha preso di sorpresa.»

Griz rise di gusto. «Solo un babbeo può farsi cogliere di sorpresa da una tartaruga. Scommetto che era troppo veloce per te!» lo schernì, mentre annodava lo spago per evitare che i punti si scucissero.

“Idiota! Tra tutte le terribili bestie della palude, proprio la più ridicola, dovevi scegliere per onorare la tua ferita di battaglia!” si rimproverò affranto.

«Ho finito, mi prendo l'altro ratto» disse la giovane slegandolo. «Morirai comunque: appena rimetterai piede nella melma, la piaga s'infetterà e non ti darà scampo. L'unica cosa che potrebbe salvarti è il Dono di Corrupto, ma sai bene che a noi cuccioli non è permesso usufruirne.»

Emessa la sentenza, se ne andò lasciandolo senza parole e nello sconcerto.

Si accarezzò la lacerazione rozzamente ricucita, aveva perso dell'altro sangue e continuava a perderne ancora. Si strappò un lembo di cuoio marcio dal vestito e, con dei lacci lasciati distrattamente dall'aiuto-guaritrice, se lo legò intorno al polpaccio con la vana speranza di proteggerla. I suoi dardi erano intinti nel Dono, ma se li avesse ripuliti tutti, non ne avrebbe ricavato che una goccia, mentre a lui gliene serviva molto di più. Mangiò silenziosamente il suo ratto e, sfinito, piombò nel sonno poco prima dell'alba.

All'approssimarsi del tramonto, come suo solito si svegliò, si alzò imprecando per il dolore e si avviò verso la palude. Passando il più possibile sui lembi di terraferma, giunse al nascondiglio; nonostante i suoi sforzi, però, la ferita si era comunque sporcata di fango. Infilò la mano nella fessura, ma del bastone non v'era più traccia: se pensava di aver già raggiunto l'apice della disperazione, in quel momento ne conobbe nuovi drammatici limiti.

«Kitzo!» urlò stringendosi la testa tra le mani. Era stato di nuovo un idiota: il suo rivale lo aveva spiato e quindi l'aveva visto anche estrarre il bastone. Quando aveva fatto crollare lo sperone, infatti, era lì, acquattato a osservarlo.

«Come ho potuto nasconderlo nello stesso posto dopo aver scoperto di essere stato seguito?» si rimproverò.

Quel maledetto era già micidiale senza godere di grande forza o poteri, ma con quel bastone non avrebbe conosciuto limiti: presto li avrebbe dominati tutti, ma ancora prima, avrebbe ucciso lui.

Comunque, doveva completare la caccia, e nel farlo, ricordò quanto fosse difficoltosa senza il suo Grande Verme. Ovviamente, fu necessario ignorare tutto quanto si era prefissato riguardo al non infettare la ferita. Tornò all'accampamento con la piaga che gli pulsava e si sentiva già un po' febbricitante.

Hork che si era abituato agli ottimi risultati degli ultimi tempi, non apprezzò il misero bottino rimediato e gli rifilò un gran ceffone lasciandolo a digiuno.

Djeek si era seduto in un angolo dell'accampamento e, rassegnato, si guardava il polpaccio: aveva smesso di sanguinare, ma in compenso ne fuoriusciva un poco rassicurante pus marrone dall'odore fetido. Aveva la febbre e sentiva brividi raggelanti scorrergli sulla schiena. In quel momento, si sentì chiamare da Kitzo: la sua sola voce gli fece ribollire il sangue quasi quanto la visione degli elfi. Scattò in piedi ignorando il dolore e si voltò a fronteggiarlo. «Ridammi il bastone!» intimò.

L'altro lo sorprese anche in quel frangente: imprevedibilmente, con l'unico occhio non bendato, gli rivolse uno sguardo complice e gli disse con fare ammiccante: «Caro amico, come va la gamba? Spero meglio. Ieri mi hai davvero impressionato: diventiamo soci, insieme saremo invincibili!» Mai nessuno gli si era rivolto con un tale rispetto e se ne sentì profondamente lusingato. Al punto, quasi, da dimenticare tutto ciò che aveva subito.

«Ho io il bastone, è vero, ma sono pronto a restituirtelo, se mi prometti che ogni tanto me lo presterai. Sai, l'ho usato e ho visto come funziona: basta che lo punti su un oggetto lo scuoti un po' e quello si frantuma. Sarà bello condividere con te quello che ho appreso, ovviamente, tu dovrai fare lo stesso con me» continuò Kit.

«Strano, per me usarlo non è così facile: io ho bisogno di concentrarmi e di entrare in sintonia con il mondo circostante; inoltre fatico a localizzare bene il punto da colpire» constatò Djeek ingenuamente.

Kitzo, in realtà, aveva provato a usare il bastone in tutti i modi, senza ottenere assolutamente niente e sperava di carpire qualche segreto. Continuò la messa in scena rispondendo con ostentata sicurezza: «Ah sì, all'inizio era così, ehm... come hai detto, ma poi ho affinato la mia tecnica e ora mi basta puntarlo per attivarlo. Se poi mi fai vedere come lo usi, osserverò i tuoi errori e ti aiuterò a migliorare. Te l'ho detto: siamo una squadra!» Poi, guardandogli il polpaccio, aggiunse: «Ora, però, dobbiamo preoccuparci di curare al meglio le nostre ferite, altrimenti marciranno. Poco fa, approfittando del mio lavoro di assistente di Hork, gli ho sottratto le chiavi del recinto. Tienile e prendi anche quest'otre. A mezzogiorno, approfittando del fatto che quasi tutti dormono, dovrai sgattaiolare fuori e arrivare al Santuario di Corrupto per attingere il Dono dalla Fonte. Ieri, molti degli incursori sono partiti per compiere una razzia e non torneranno prima del tramonto, quindi per te sarà più facile. Ho già parlato con Griz per medicarci: dovrà preparare un impasto.»

Djeek, un po' interdetto, obiettò: «Perché devo andarci io e non tu?»

«Accidenti!» esclamò l'altro mostrandosi deluso. «Ti facevo più coraggioso. E poi, devo stare qui per coprirti la fuga: sai? ho una certa influenza su Hork. Comunque, se preferisci così, rendimi chiave e otre, farò tutto da solo. A quanto pare, non vuoi essere mio complice.»

«No, no!» si affrettò a ritrattare Djeek. «Ci penso io, ma ti darò il Dono, solo se mi renderai il bastone.»

«D'accordo. Lo avrei fatto comunque: non ti fidi del tuo socio? Dovremo effettuare lo scambio nell'orario di uscita. Facciamo nella palude, nel luogo in cui lo tenevi nascosto. Quando torni al vivaio ricordati, però, di lasciare la chiave nell'incavo di quell'albero, io provvederò a rimetterla al suo posto.»

Djeek attese diligentemente che il sole fosse alto e sgattaiolò fuori dal recinto. Le strade del villaggio di Bocca del Verme erano semi-deserte, e arrivare nei pressi della Fonte inosservato non fu particolarmente difficile. Si accucciò dietro una pila di sacchi contenenti paglia di alghe essiccate, per osservare la situazione: il Santuario non era recintato, ma c'erano cinque goblin a tenere la guardia e sarebbe bastato un loro allarme per farne accorrere molti altri dalla prospiciente caserma. Era la prima volta che poteva vederlo così da vicino. Si trattava di un'area circolare di oltre cinquanta passi di diametro: ai suoi lati, si ergevano quattro enormi spuntoni ricurvi, mentre al centro era stato costruito un pozzo sovrastato da un totem con curiose incisioni. Secondo la leggenda, il Santuario non era altro che la bocca del Verme Primordiale. Essa, da quando il gigantesco essere si assopì, si era riempita nel corso dei millenni di terra e polvere. La Fonte era, in realtà, un pozzo posto al centro del piazzale da cui era possibile attingere gli enzimi dalle profondità remote del ventre dell'Emissario di Corrupto. Djeek stimò che se la sua bocca era così larga, stando alla sua forma allungata, doveva avere un corpo che scendeva in profondità per ben oltre mille passi: forse aveva esagerato a chiamare il suo piccolo bastone con il nome di Grande Verme. Mentre era immerso in quei pensieri, si appoggiò distrattamente a un sacco che cadde a terra. Una guardia se ne accorse e ordinò a un sottoposto: «Vai a controllare, fannullone!»

La fortuna volle che quest'ultimo avesse scelto proprio quel pretesto per provare a sovvertire la gerarchia. «Fattelo tu!» gli ribatté con tono di sfida.

Il capitano rispose con un fendente dall'alto verso il basso che gli tagliò via buona parte dell'orecchio appuntito. L'altro, che aveva parzialmente schivato il colpo, non demorse ed estrasse la sua rudimentale lama. Scoppiò una rissa che attirò l'attenzione divertita delle altre guardie.

Djeek raccolse il coraggio e ne approfittò per arrivare alla Fonte. Riempì l'otre del denso liquido di colore verde acceso e corse via zoppicando fino al recinto del vivaio. Depose la chiave nell'incavo e cercò riparo dal sole sotto un cespuglio di rovi. Poco dopo, vide Kitzo prelevare la chiave e recarsi verso la capanna di Hork: “Missione compiuta, tutto è andato per il meglio!” pensò soddisfatto di sé. Si versò qualche goccia del Dono sulla ferita, gli procurò un forte dolore, ma subito dopo la senti pulsare meno: non trattato in un impasto, non era del tutto efficace, ma qualche beneficio lo dava comunque. Si addormentò per svegliarsi qualche ora più tardi, prima del calare del sole. Era ancora febbricitante, ma sarebbe sicuramente sopravvissuto fino a mezzanotte per farsi medicare.

Raggiunse il posto dell'appuntamento dove trovò Kitzo che, non avendolo visto arrivare, stava battendo con foga feroce il bastone contro una roccia. «Stupida asta! Perché non funzioni!» imprecava. Solo a quel punto Djeek capì, ma decise di stare al gioco: doveva prima riavere il suo Grande Verme, far finta di insegnargliene l'uso fino a mezzanotte e dopo essere stato curato da Griz, voltargli le spalle. Quindi, attese che il socio si ricomponesse, prima di venire allo scoperto.

L'altro lo accolse con calore e chiese: «Allora, amico?»

«Tutto secondo i piani. Ecco l'otre, dammi il bastone che ti faccio vedere come lo uso io, tu però dovrai aiutarmi a migliorare».

Stavano per effettuare lo scambio, quando Kitzo notò che in lontananza, da dietro al compagno, stava arrivando Hork: doveva essersi insospettito e lo aveva seguito. Agì in un attimo, colpì l'incredulo Djeek con il bastone e gridò: «Maledetto! Cosa pensavi di fare, come hai potuto rubare il Dono dal Santuario, aspetta che lo racconti a Hork!» Quest'ultimo arrivò un istante dopo e, prima che Djeek si riavesse dalla bastonata, lo aveva già preso per il collo e sollevato da terra.

«Signore!» intervenne Kitzo. «Questo ladruncolo...»