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Scala E Cristallo
Scala E Cristallo
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Scala E Cristallo

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serena; percepivo la nebbiolina, la rugiada e non capivo cosa

fosse.

Poi, d’improvviso, l’incertezza e il timore si

materializzarono e fu paura vera, terrore come quello che solo

i bambini possono percepire.

Mi sentii piccola e corsi via da quell’uomo con gli

stivali neri che mi inseguiva, chiedendomi come un pazzo:

«Perché?».

Ma come, “perché”?

Perché invece sei tu a farmi questa domanda? mi dissi.

Mentre correvo per non cedere al panico, pensavo a come

organizzarmi per sopravvivere: era l’istinto di sopravvivenza,

era una sorta di freddezza naturale e orgoglio.

Poteva uccidermi ma non sarebbe mai entrato nella mia

testa.

La mia testa si concentrava mentre il mio corpo scappava.

Correvo sulle radici sperando che il feroce uomo che mi

inseguiva cadesse. Non lo guardavo mai negli occhi, quegli

occhi che ti controllavano di soppiatto, occhi da coccodrillo

che puntano la preda da sotto il pelo dell’acqua.

Per intuito avevo capito che il mio inseguitore era

diabetico. Lo avevo percepito grazie a una delle mie strane

intuizioni e grazie ad alcune voci provenienti da altre

dimensioni molto lontane. Inoltre sapevo che era diabetico

perché aveva i piedi tormentati da piaghe; presto dovevano

essere tagliati.

La mia speranza veniva dal mio animo tenace e speravo si

stancasse, speravo che la strana malattia di cui probabilmente

soffriva lo colpisse di improvviso nella corsa, che gli

fermasse il metabolismo degli zuccheri, o che avesse

semplicemente una crisi e si accasciasse al suolo.

Correvo e intanto i rami si facevano più bassi e

intricati. Mi abbassai sperando che lui avesse più difficoltà,

essendo più alto di me; tiravo i rami verso di me desiderando

che gli arrivassero in faccia.

Odiavo profondamente quello che mi stava facendo. Il mio

odio era provocato, in particolare, dalla paura che provavo.

Era in parte orgoglio, lo ammetto: chi era per costringermi

alla fuga, per tormentare le mie membra nella morsa

attanagliante della paura?

Intanto continuavo a correre e lui, con il suo fisico

robusto, sembrava tollerare che quella corsa di velocità si

fosse trasformata in una corsa di resistenza.

Il mio sudore cadeva per terra insieme a grosse lacrime, e

sentivo che la speranza mi stava abbandonando… ma ecco che

vidi qualcosa di nuovo: mio nonno, davanti a me.

Vedendomi preoccupata, il nonno mi avrebbe proiettata in

un’altra situazione, in una dimensione molto più intima e meno

pericolosa, e mi avrebbe rassicurata, ne ero certa.

La mia certezza avrebbe ben presto avuto tempo per

materializzarsi o distruggersi.

CAPITOLO 2

“Il futuro appartiene a chi crede nella bellezza dei

propri sogni” (Eleanor Roosevelt)

LA CONSOLAZIONE E PROBLEMI ALTERNATIVI

Era proprio il mio caro nonno, tenero nella vecchiaia,

terribile in gioventù. Era sempre stato un tipo difficile,

dispettoso, tagliente, e per alcuni versi era il tipico macho

italiano.

Da giovane era stato moro di capelli, occhi scuri da

spagnolo, pelle olivastra arsa dal sole, spalle larghe da

contadino. Non era alto, su per giù come me, ma molto più

robusto. Solo le mani le avevamo uguali, mani lunghe e

affusolate, mani che gli inglesi definiscono da fornaio, da

panettiere, e infatti era stato proprio questo il suo mestiere

durante la sua vita. Si alzava prima del canto del gallo per

lavorare duramente, e non aveva bisogno della radio: aveva

infatti una voce calda e piena da baritono, una voce che ti

tiene compagnia e ti rassicura lungo la strada, e lungo il mio

cammino nei miei sogni lo avevo rincontrato.

Il nostro incontro era stato rassicurante. Mi aveva

appoggiato la sua mano callosa e lunga sulla spalla e aveva

sussurrato di non preoccuparmi, che tutto si sarebbe sistemato

e che mi capiva, mi consolava e sapeva quanto fosse stato

difficile per me il mio percorso. Già, lungo il mio tragitto

emotivo vi erano sterpaglie e spine, e i miei piedi erano

pieni di vesciche. Moralmente ero molto abbattuta.

Lui sapeva cosa stavo passando. Era stato capo partigiano,

aveva lottato contro l’oppressione di Mussolini. Amava la

libertà e proprio questo nome gli era stato dato: si chiamava

Libero. Era libero, era aeriforme; era uno spirito oramai,

dopo che nel 1996 un infarto se lo era portato via,

improvvisamente e velocemente.

Così in fretta che non avevo avuto il coraggio di vederlo

nella camera mortuaria.

Tuttavia ora era davanti a me, come lo ricordavo: ancora

olivastro, sempre attivo, e con la preoccupazione di vedere la

nipote diventare rapidamente una giovane donna.

Già, una donna, dentro di me sarei diventata una donna. Mi

sentivo innocente e ingenua, ma sapevo che molte cose

avrebbero dovuto ancora capitarmi, che la vita era lunga e

piena di assilli, di fastidi.

Dicono che per ogni nostro talento, Dio ci fornisca una

frusta. La frusta è data per l’autoflagellazione e

quest’ultima ha un nome: per me, si chiama sensi di colpa.

I sensi di colpa mi avevano sempre provocato gli incubi,

e, infatti, essere sempre stata, durante la mia vita, molto

comprensiva con i bambini, mi aveva portato al successivo

incubo a occhi aperti.

Le pupille vedevano materializzarsi un bambino che mi