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La battaglia di Benvenuto
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La battaglia di Benvenuto

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«Manfredi, Manfredi,» suonarono a un tratto le mura: «Manfredi, Manfredi,» risposero i Saracini rimasti nei quartieri, e prendevano l’arme, e accorrevano, «Ecco il diletto signore, ecco il nostro Principe, che viene a soddisfare i nostri desiderii, e a riposarsi su la nostra lealtà: ch’egli entri, ch’egli entri prima che il Governatore se ne accorga.» gridavano tutti.

Manfredi era giunto sotto le mura: un Saracino gli accennò un canale pel quale scolava un rigagnolo dalla città; il Principe si getta da cavallo, e si appresta a cacciarsi giù pel condotto: – nol soffrono gli spettatori, si fanno alle porte, le scuotono, le percuotono; – gli arpioni agli urti continuati lasciano la presa, e le imposte traendosi dietro una spaventosa rovina cadono a terra. Marchisio, che già armato muoveva per contrastare Manfredi, vedendolo avanzarsi tutto minaccioso, mutato consiglio, gli s’inginocchia, e gli fa omaggio come a suo signore sovrano.

L’acquisto di Lucera mutò i destini di Manfredi; vi trovava infiniti tesori, i quali, diffusi con accortezza, gli produssero in breve un forte partito, perocchè in ogni tempo il danaro sia stato la prima provvisione per la guerra, e in ogni tempo si trovassero uomini i quali posero l’anima allo incanto pel maggiore e migliore offerente. Ora il Pontefice spediva a tutta fretta un esercito sotto i comandi del Cardinale di Santo Eustachio per opprimere Manfredi sul principio di quelle grandezze; gli teneva dietro Bertoldo. Manfredi si mostrava apparecchiato a combatterli. Il Marchese di Hochenberg, seguendo sempre quella sua doppia e finta natura, mandò un messo fidato a tenere segrete pratiche d’accordo col Principe di Taranto. Rispose questi che volentieri lo raccoglierebbe nella sua alleanza; averlo sempre tenuto per caro fratello, ed amico; conoscere egli di troppo la prepotenza dei casi per volere far carico a Bertoldo della sua passata condotta. Il Marchese non andò più oltre, e stimò avere con molta accortezza provveduto alle cose sue, perchè, se vinceva Manfredi, ei gli era amico segreto: se Innocenzio, ei gli era amico manifesto. Intanto supponendo il nemico fidente di quelle dimostrazioni, mandò molte colonne del suo esercito sotto il comando del suo fratello Oddo a prendere posizione sul contado di Lucera; il nemico però stava all’erta, e avuta notizia del fatto si pone arditamente in campagna, rompe Oddo, e lo incalza fino a Canosa; poi lasciatolo così malconcio in parte che non più possa riunirsi al grosso dell’armata, si fa contro Bertoldo, il quale, dopo due ore di ostinato combattimento costretto a cedere, fugge più che di passo verso Napoli col Cardinale Legato.

Questo Capitolo ormai troppo voluminoso ci costringe a tralasciare il racconto di una serie di piccole perfidie, e di piccoli fatti d’arme, quasi tutti tra loro somiglievoli, pei quali Manfredi, sotto il Pontificato di Alessandro IV, vinti gli esterni e gl’interni nemici, riconquistò tutto il Regno di Napoli. Più grave caso, e degno di memoria è quello pel quale Manfredi di Vicario giunse a farsi nominare Sovrano del Regno di Napoli; e qui lasciato Niccolò Iamsilla scrittore ghibellino, mi fa mestieri appigliarmi a Giovanni Villani di fazione guelfa. Narra dunque costui, «che Manfredi, vedendosi in istato ed in gloria, si pensò essere Re di Sicilia e di Puglia; e perchè ciò gli venisse fatto, si recò ad amici con doni e promesse i maggiori Baroni del Regno; e sapendo come del Re Corrado suo fratello era rimasto un figliuolo chiamato Corradino, il quale per diritta ragione doveva essere erede del Reame di Sicilia e di Puglia, pensò una frodolenta malizia per esser Re. Adunati tutti i Baroni, propose loro cosa si dovesse fare della signoria, perocchè egli avesse novelle come il suo nipote Corradino fosse gravemente ammalato, e da non potere mai reggere il peso di un Regno. I Baroni consigliarono che mandasse suoi ambasciatori in Lamagna per sapere dello stato di Corradino; e se fosse morto, od infermo, fino d’allora protestavano volere Manfredi per Re loro. A ciò si accordò Manfredi come colui che aveva tutto fintamente ordinato, e mandò ambasciatori a Corradino e alla madre con ricchi presenti e grandi profferte; i quali giunti che furono in Isvevia trovarono che la madre del garzone, Elisabetta di Baviera, come donna di gran cuore ed avveduta, gli facea buona guardia, tenendolo confuso con diversi fanciulli di sua età vestiti tutti ad un modo; e detti ambasciatori domandando di Corradino, Elisabetta, temendo di Manfredi, mostrò loro in iscambio un altro di detti fanciulli dicendo: questi è desso. Gli Ambasciatori gli fecero grande riverenza, e presentandogli doni, tra i quali confetti avvelenati, il garzone ne prese, e incontanente morì; onde credendo aver morto Corradino si partirono subito di Lamagna, e giunti a Vinegia fecero fare alla loro galera vele di panno nero, e tutti gli arredi neri, ed eglino medesimi si vestirono a bruno; ed arrivati in Puglia, come gli aveva ammaestrati Manfredi, fecero sembiante di gran dolore, e riferirono la morte di Corradino. Manfredi finse gran pianto, e a grido dei suoi amici, e di tutto il popolo, fu eletto Re di Sicilia, e a Monreale si fece coronare, gli anni di Cristo 1238.» Elisabetta di queste cose informata, mandò ambasciatori a Manfredi per fargli sapere che Corradino viveva, e che il suo retaggio era stato usurpato: rispondeva questi dicendo: «dal trono non potersi scendere se non che morti: stesse sicura, ch’ei lo conserverebbe per Corradino, ed anzi gli mandasse il fanciullo, ch’ei lo avrebbe nelle paterne virtù ammaestrato.»

Gl’istrumenti eletti dal Cielo per operare la rovina di Manfredi furono Urbano IV, nativo di Troyes, Patriarca di Gerusalemme, successo nel Pontificato ad Alessandro, e Clemente IV Cardinale di Narbona eletto Papa nel mese di febbraio 1261. Il primo di questi Pontefici avendo mandato in Francia Maestro Aliberto suo Notaro per offerire la corona a San Luigi, n’ebbe in risposta che alla conclusione del trattato si opponeva la investitura per lo addietro fatta a Edmondo d’Inghilterra; ond’egli spedì a Londra Bartolommeo Pignattelli Arcivescovo di Cosenza per farla renunziare ad Enrico III. Il Re, impegnato in guerra pericolosa contro i suoi Baroni, lusingato dall’Arcivescovo con la speranza di soccorsi, che non ebbe mai, cesse alla sua volontà. Allora il Pignattelli tornò in Francia, e col beneplacito di San Luigi propose la investitura del Regno di Napoli a Carlo di Angiò, meno la Terra di Lavoro, le Isole adiacenti, e la vallata di Gaudo, che la Santa Sede voleva ritenersi. Carlo rifiutando la proposta dichiara che non sarebbe per accettare giammai il Regno così smozzicato: darebbe alla Chiesa, come aveano fatto i Normanni, la città e il contado di Benevento, non meno che ottomila once d’oro per anno. Clemente IV assunto nuovamente alla Cattedra di San Pietro, mostrandosi dapprima esitante, piega alle pretensioni di Carlo, e rimanda in Francia l’Arcivescovo di Cosenza con lettere pontificali a Simone Cardinale di Santa Cecilia perchè congiuntamente sollecitino la esecuzione della impresa, e confortino San Luigi a sovvenirla co’ suoi sussidii. I fatti che avvennero dopo appartengono all’epoca che deve percorrere quest’opera.

CAPITOLO NONO. IL PRIGIONIERO

Oh! perchè almeno

Lungi da lui non muoio! Orrendo, è vero

Gli giungeria l’annunzio; ma varcata

L’ora solenne del dolor saria;

E adesso innanzi ella ci sta: bisogna

Gustarla a sorsi, e insieme.

    Conte Di Carmagnola.

Erano giunti a piè della scala. Il corridore appariva in parte illuminato da luce lontana. Si appressavano: giunsero ad un vestibolo separato dalla prigione con ispessi cancelli. L’anima e gli occhi di Rogiero percorsero in un baleno la scena che si offeriva. Vide un uomo quasi sepolto in una sedia: le sue membra non erano del tutto manifeste, imperciocchè fosse vôlto altrove il raggio della lampada; pure sembrava pallido e vecchio; i capelli aveva tutti bianchi, teneva gli occhi chiusi, pareva volesse assuefarli a morire. – Lì davanti stava un tavolino; sovr’esso una tazza e un Crocifisso. A canto della sedia per terra giaceva una lunga bacchetta tutta intaccata, e le tacche, benchè la più parte regolari, ad ora ad ora più profonde. Cotesta fu opera di dolore. – Allorchè quell›infelice chiusero là dentro, lo prese vaghezza di annoverare i giorni della sua prigionia, onde conoscere la durata di un tempo destinato a soffrire, e deliziarsi nella speranza che questo tempo andava a decrescere: forse ancora fidente di giorni felici, stimò doverne ricavare argomento di gioia, qualora le future condizioni potesse paragonare con le presenti. Adesso cotesta opera giaceva in terra negletta. – La speranza, che siede ultima al capezzale del moribondo, e si mostra ai suoi occhi, quando anche velati dalla nebbia della morte non giungono più a discernere le care sembianze dei parenti e degli amici… la stessa speranza aveva abbandonato quel cuore. Quando gli anni accumulandosegli sopra la testa mutarono in bianchi i suoi biondi capelli, non più l›anima e le carni gli tremarono al suono che faceva la porta volgendosi sopra i cardini, nè ad ogni tocco sul serrame che la sbarrava stimò giunta la mano pietosa che doveva ricondurlo a godere della faccia del cielo. – Disperato gittò via cotesto istrumento, che insegnandogli a distinguere lo affanno glielo rendeva più insopportabile e più lungo; – amò considerarlo come una gran giornata di travaglio, di cui la notte doveva trovare nella morte. – E di vero la luce non iscompartiva i suoi giorni. Dal punto in ch›ei fu posto in carcere non aveva più veduto l›aspetto dell›orizzonte, nè pure dalle inferriate; – e poichè il suo giorno era tenebra, doveva immaginarsi la sua morte nel nulla. – Divenuto affatto insensibile, stette come cosa inanimata ad aspettare il momento dall›ordine delle cose destinato alla sua estinzione. Almeno gli fosse rimasto il coraggio di porre fine a tanto compassionevole esistenza! Questo pensiero, che vuole per la sua esecuzione tutte le potenze dell›anima, gli sorse in mente, allorchè avvilito dalla sventura ricercò invano nelle passioni dei tempi trascorsi un avanzo, che valesse a restituire le membra agli elementi, variando forma alla sua materia. Non sospiro, non voce lamentosa gli usciva dai labbri… quello che dal profondo dell›amarezza, o dal furore dell›ira potea dirsi, aveva detto miliardi di volte; – gli rimaneva il silenzio, ed egli era muto come un sepolcro. Gli anni lo avevano affatto cancellato dalla rimembranza degli uomini. – Per lui niun gemito, nessuna parola di amore; e se talora il nome si affacciava al pensiero dell›antico servitore, che seduto a canto al fuoco narrava le glorie della casa di Svevia ai valletti e all›altra gente della famiglia, si guardava bene di chiamarlo sul labbro, perchè ricordava un colpevole di tal delitto, che atterrisce lo stesso Lucifero; o se pure ve lo chiamava, lo profferiva in basso sussurro… alla sfuggita… come quello di un dannato. Per lui vivo non si aveva nè pure quello scarso affetto che si conserva pei morti.


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