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La battaglia di Benvenuto
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La battaglia di Benvenuto

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«E me costrinse la forza degli uomini potenti quanto Lucifero.»

«Ma ora, se vi viene concesso, ditemi: qual’è mio padre? che fa? quale il suo stato? Fu per suo volere, o per altrui, che mi lasciò fino a questo momento languire nella oscurità?» – Roberto non rispondeva parola. Allora Rogiero, quasi supplichevole, riprendeva: «Parlate, Roberto, parlate; il vostro silenzio mi lacera il cuore.»

«Voi mi fate tante domande, alle quali risponderò due sole cose. Vostro padre vive, ma sta presso al morire. La vostra condizione vi sarà manifesta in questa notte.»

«Dove? In qual luogo? Ecco, io mi chiamo pronto a seguirvi.»

«Andiamo,» disse Roberto; e Rogiero levandosi moveva già il passo per andare, quando a un tratto ristette, e parlò:

«No… adesso è impossibile; fermatevi qui, Roberto, finchè la mia guardia sia finita… poco più manca a finirla,… altrimenti non potrei senza mancare al mio Re, e dare sospetto di tradimento.»

«Sospetto!» – In verità voi dovrete tradirlo: innanzi che passi questa notte, desideroso di vendetta, vi porrete a capo dei traditori di colui che ora custodite dai tradimenti, ed il fine di ogni operazione di vostra vita sarà la morte di Manfredi.»

«Ribaldo! allontanati, o la mia lancia farà conoscenza col tuo sangue: tu vuoi ingannarmi, e tradirmi, – codardo! – Ed io che era già presso a darmi per vinto!… Allontanati.»

«Tradirvi io? ingannarvi io?» senza punto commuoversi soggiunse l’uomo d’arme. «Il bel suggello che siete, per ingannarvi! Giovane, non presumete tanto di voi stesso. L’oscurità, la miseria, il nulla in che giacete, più che l’ingegno vostro vi salvano dall’essere argomento d’inganno. Io ho fornita la mia commissione presso di voi; solo mi piace rammentarvi, che quando si diffida di un uomo, non conviene dirglielo così palese in faccia; poichè i momenti della vita di vostro padre sono numerati… e in questo punto medesimo è ormai troppo tardi il muoverci. – Buona notte…»

«Fermatevi: in nome del Santo Sepolcro, concedete un momento… Io non ho da conservare l’onore dei miei maggiori, perchè non appartengo a nessuna famiglia… non ho che il mio; ma questo mi è caro, come se mi fosse stato trasmesso da Roberto Guiscardo, o da Enrico l’Uccellatore: – ma mio padre muore, dite voi; e se non lo vedo adesso, nol rivedrò mai più, e rimarrò nelle tenebre dentro le quali sono nato… Ma il mio onore, il mio onore! Roberto, deh! per pietà, non vogliate ingannarmi.»

«Povera anima, sai tu veramente che cosa sia onore, che, cosa infamia?» proruppe Roberto. «Getta uno sguardo su i Baroni della corte di Manfredi; essi sono grandi, perchè i loro padri tradirono Guglielmo il Normanno: i loro figli si manterranno in grandezza nella corte dell’Angioino, perchè tradiranno Manfredi lo Svevo.»

«Ah! questa è dura verità.»

«Ne apprenderete ben altre, Rogiero, nel cammino della vita. Ma or via venite, se volete: affrettandoci, potrete tornare se volete, e, se vi parrà, essere piuttosto schiavo di un tiranno che vendicatore del padre.» E tale dicendo, Roberto camminava.

Rogiero stava tuttavia esitante, ed ora portava i suoi sguardi su l’asta che doveva abbandonare, ora su l’uomo di arme che si allontanava. «E v’è un destino!» finalmente proruppe; «noi tutti governa il destino. Invano ti adopererai tenerti a sinistra, tu ti troverai a destra, se così fu scritto nei cieli; e da che la resistenza non giova, il meglio è lasciarmi ire ciecamente nelle braccia della sorte che governa i miei giorni.» E gittava l’asta, e risoluto come colui ch’era ormai disposto ad affrontare ogni più dura occasione, si pose dietro alla sua scorta, e la raggiunse alla uscita della volta.

«Roberto,» disse Rogiero in andando «avete mai ascoltato la parola di Dio?»

«Certamente.»

«Avete mai pensato al premio di colui che vendè il sangue di Cristo per pochi agostari?»

«Certamente: – il capestro in questa vita, e la eterna dannazione nell’altra… Ma, se io non m’inganno, voi dubitate della mia fede pur sempre, Rogiero; ed io vi dico, che nessuno scopo mi stringe a far sì che voi mi seguiate; che la mia commissione finisce con l’ambasciata che vi ho riportato; che voi siete signore di rimanervi, perchè non ho, nè voglio impiegare, i mezzi da costringervi.»

«Oh! sì, ponete innanzi alla fantasia accesa un oggetto che valga a concitare potentemente la principale passione dell’anima, e poi dite in noi essere libero arbitrio di non seguitarlo, in noi forza da ributtare ogni lusinga! Questa sentenza parmi uno scherno feroce, che voi facciate alla nostra natura.»

«Dunque abbiatemi maggiore fiducia, scudiero: forse al mondo non v’è più lealtà?»

Mentre così tra loro favellavano, si erano di alcuni passi scostati dalla volta, di sotto alla quale, sul finire delle parole di Roberto, parve uscire, ed uscì certo, una voce che disse: non v’è più lealtà.»

«Croce di Dio!» gridò Roberto indietreggiando per lo spavento, e facendosi il segno della salute; «avete sentito, Rogiero? Queste sono illusioni del demonio; che Santa Rosalia ci aiuti!» – E poi continuava in debole suono: «Mi maraviglio, come cento altre volte, nelle quali a ragione mi sarebbe stata diretta una parola di rimprovero, non abbia sentito mai nulla, ed ora si faccia sentire, ora» e qui alzava la voce «che nessuno può dirmi: sei un traditore.»

E la voce rispondeva: «sei un traditore.»

«Questo è più di quello che io possa sopportare! O uomo, o demonio, tu te ne menti per la gola.»

E la voce: «menti per la gola.»

L’uomo d’arme calò la visiera, trasse la spada, e avvoltosi il mantello intorno al braccio sinistro fece atto di avventarsi sotto la volta. Rogiero, che ragionevolmente non avea per anche deposto ogni dubbio sopra la fede di quell’uomo, stette ad osservarlo con diligenza: vide il subito terrore, figlio della trista coscienza, e vie più sempre esitò; ma quando poi si accôrse che il sentimento dell’onore, vinta la superstiziosa paura, gli poneva in mano la spada, e lo concitava a degna vendetta, deposto ogni altro sospetto, stabilì affidarglisi intero: onde, sapendo per uso da che quella voce derivasse, fattosi incontro a Roberto con viso ridente gli disse:

«Rimanetevi, buona lancia; ogni vostra impresa contro l’ente dal quale uscì quella voce sarebbe affatto impossibile.»

«Questo adesso vedremo,» – rispondeva Roberto, duramente respingendo Rogiero, e sempre in atto di avventarsi.

«Rimanetevi, rimanetevi; non vi siete accorto ch’è l’eco? Non ha egli ripetuto il fine dei vostri discorsi? Con cui vorreste combattere, se la voce è uscita da voi?»

«San Giorgio! Io credo che abbiate ragione, Rogiero,» disse Roberto; e in questa, fatto bocca da ridere, si asciugava la fronte sudante per la paura. «Ma come dice il proverbio? La natura non si vince; cacciala dalla porta, ti tornerà dalla finestra.» Dopo queste parole fatto silenzio, quasi temesse non giungere a tempo, si dette a riacquistare con passi veloci il tempo che aveva consumato in discorsi. Rogiero osservò ch’egli nondimeno curava di prendere la via più remota, piuttosto che la più corta; e sovente, come timoroso di smarrirsi, si soffermava; ed esaminato il luogo faceva un segnale, che, ripetuto subito di distanza in distanza, si propagava fino a tal punto, che l’orecchio a mala pena lo udisse. Così camminarono lungamente, allorchè Roberto soffermatosi si volse a Rogiero, e parlò:

«Scudiero, vi fidate di me?»

«Roberto mio, concedete che ve lo dica col cuore su le labbra; la vostra domanda è fatta in tal tempo e in tal luogo, da dare piuttosto sospetto, che sicurezza. E poi, voi dovreste vedere bene, che qualunque fossero i miei sentimenti, adesso mi conviene dire che mi fido.»

«Credo che voi abbiate ragione. – Se così è, mi permetterete che io vi bendi gli occhi.»

«Fatelo. Io non ho motivo di temere di voi. Non vi ho fatto mai male; e per me, comunque sia grande la scelleraggine umana, non crederò mai che giunga a porre le mani nel sangue innocente.»

«Il vostro cuore vale meglio della vostra lingua. Non siete voi che avete promosso poc’anzi l’esempio di Giuda? Povero giovane!» continuava con voce commossa, «voglia Dio mantenervi in tali sentimenti, come a me perdonare di essere stato una prova in contrario.» – Questa ultima parte del suo discorso fu appena mormorata, e parve come strappata di bocca per quell’arcano potere che ha la buona coscienza su la scellerata. Vero è però che l’opera che adesso l’occupava non pareva di sangue, imperciocchè il suo volto fosse sicuro, la voce ferma, nè le membra gli tremassero, come suole avvenire tra la gente della sua fatta, allorchè si apparecchiano a commettere un delitto.

Intanto Rogiero, bendati gli occhi, pose il suo braccio sotto quello di Roberto, il quale con amorosa diligenza lo condusse per cammino tortuoso e diverso. Percorsi circa cinquecento passi, fu fatto fermare. La guida dette un segno, battendo le mani; allora fu abbassato un ponte, che, per quant’arte avessero adoperata a nasconderne il rumore, Rogiero intese nondimeno calare. La guida lo invitava a proseguire il cammino, ed egli, passando sul ponte, lo sentì lastricato di pietre come la strada che aveva fino a quel punto percorsa, e questo certamente a bella posta, onde la gente bendata che vi passava sopra non se ne accorgesse. Rogiero poi, sia che fosse dalla natura di più squisiti sensi dotato, sia che qualche trascuranza fosse avvenuta nel calarlo, si accôrse benissimo del ponte, ma non ne fece sembianza, e tirò innanzi.

Così dopo ch’egli ebbe con infinite precauzioni trapassato un numero maraviglioso di corridori e di camere, intese una voce diversa da quella del suo conduttore, che in suono assoluto gli disse: «Potete togliervi la benda.»

Obbediva, e lo sguardo tornato al suo ufficio si volse curiosamente d’attorno per conoscere il luogo. Questo però non era singolare in nulla: presentava vastissima stanza fabbricata a volta; in parte illuminata da una lampada, che gettando tutta la luce sopra Rogiero, teneva quasi all’oscuro due uomini sedutisi ad una tavola posta a qualche intervallo da lui. Rogiero guardando se la sua scorta lo avesse abbandonato, si accôrse che su l’entrare di quella stanza se n’era partita. Pose pertanto ogni sua attenzione ai due personaggi rimasti. Le vesti loro apparivano semplicissime; nulla accennava in essi altezza di sangue, ed opulenza di stato; nè altra cosa era osservabile in loro, se non che il volto quasi tutto coperto di un drappo nero. Quegli, che, per quanto, si poteva conoscere, aveva maggiore autorità, si levò da sedere, e stese la mano verso Rogiero in atto di favellare; ma si adoperò invano a profferire parola, chè un subito tremito gl’invase la persona, e ricadde su la sedia dalla quale si era levato. Allora il secondo, quasi volesse prevalersi del suo turbamento, di subito cominciò:

«Le molte cautele adoperate nella vostra venuta, o Rogiero, devono servire meno a dimostrarvi la nostra diffidanza per voi, che l’altezza del pericolo in cui noi tutti adesso versiamo. Non vi prenda poi nessuna maraviglia di questo mio ragionamento; fra poco vi apparirà chiaro di per sè stesso. Intanto persuadetevi bene di ciò, che dove il fatto, il quale siamo per isvelarvi, fosse manifesto a chi ha il potere della spada, le nostre teste certamente cadrebbero, ma la vostra non andrebbe salva. Nè ciò diciamo per atterrirvi: se voi foste stato capace di passioni codarde, non vi avremmo chiamato a intendere un segreto che nessuno ci costringe a farvi sapere. È lungo tempo che noi vi osserviamo. I misteri più riposti del vostro cuore sono stati da noi conosciuti. Noi sappiamo tutto.... nè alcuna cosa ci occorse di scorgere in voi, che magnanima e generosa non fosse. Vero è però che noi avremmo desiderato tenervi all’oscuro di tutto, finchè, cessato ogni pericolo, aveste potuto raccogliere lietissimo frutto. E questo non già per poca stima, bensì pel grande amore che abbiamo per voi. Ma ora, siccome osserviamo tutto giorno avvenire, la prudenza ordisce e la fortuna tesse, secondo l’antico proverbio: non piacque ai cieli disporre quello che l’uomo aveva proposto. La morte vicina, ed ahimè! troppo certa, di personaggio principalissimo, impegnato in questo negozio, rende vano ogni nostro disegno, e ci costringe a quello che aborrivamo fare.»

«Non sarebbe forse mio padre questo moribondo?» domandò tutto agitato Rogiero.

«Calmatevi.... i vostri casi domandano un cuore che senta, una mano che operi, un volto che dissimuli. Ditemi, conoscete voi le vicende della casa di Svevia?»

«La casa di Svevia! La storia di questa famiglia mi riuscì sempre sopra le altre piacevole e grata; ma quantunque non siasi accumulato sul mio capo un molto avvolgersi di anni, pure non vive casa in Italia di cui non conosca l’origine e la storia....»

«Voi dunque rammenterete, Rogiero, che numerosi furono un giorno i figli dello imperatore Federigo II, e rammenterete pure suo primogenito essere stato Enrico, eletto Re di Lamagna, vivente il padre, ora volgarmente conosciuto col nome di Enrico lo sciancato, però che la malignità degli uomini non sia soddisfatta della sventura degli oppressi, ma li desideri ancora o ridicoli, o infami. Questo infelice principe, di non troppo fermo volere fornito, e della nostra religione amatore caldissimo, concitato dalle istanze di Gregorio IX, e da quelle dei molti nemici di suo padre, stimò fare cosa grata all’Eterno, sottraendo l’Impero di Lamagna al dominio di un respinto dalla comunione dei fedeli, qual era Federigo II. Ahi! che, guasto da malvagi consigli, non conobbe aborrire Dio le guerre parricide, e la sua maladizione abitare nella casa dell’empio, che osò nella scelleraggine del cuore sollevare la mano contro l’autore dei suoi giorni. Appena conobbe Federigo l’amara novella, abbandonata la Italia, valica celerissimo l’Adriatico e perviene a Vormazia. La gente stava adesso spaventata a vedere chi primo dei due, il padre o il figlio, avrebbe osato trarre la spada. L’eterna pietà non consentiva, che anco questo vituperio si registrasse nella voluminosa storia degli umani misfatti. A Dio non piacque indurare il cuore del figlio: – pallido, sbigottito, meno pauroso della pena che sconfortato dal rimorso, co’ piè nudi, la testa rasa, vestito di sacco, col capestro al collo, tenendo nelle mani la croce, venne a Vormazia; traversò, non curante gli scherni, la folla della gente che aveva atterrita con la sua colpa, e disperatamente piangendo si gettò a misericordia ai piedi del suo genitore, e lui scongiurò, non a risparmiargli il castigo, chè troppo sentiva averlo meritato la sua scelleranza, ma sì a volerlo benedire, e avanti la sua morte richiamare col dolce nome di figlio. Invano l’orgoglio offeso procurava sdegnarsi, invano la tradita autorità paterna mantenersi severa; le lagrime sgorgavano dagli occhi di Federigo, ed il suo cuore sentiva tutta la verità di quella sentenza, che la gioia è figlia del dolore. Scendeva dal trono, al collo del figlio le braccia amorosamente gettava, e lui per gli occhi, per la fronte, e su la bocca baciando, col nome di suo figlio diletto a chiamare ritornava. Oh! vera pace sarebbe stata quella; e perdono durevole. Ma tra le bestie feroci, che la natura ha formato, vivono, o Rogiero, e sventuratamente troppi, tali uomini, ai quali l’aspetto del cielo sereno par gemito; che si nudrono di veleno e di fiele, e renunzierebbero volentieri agli agi, alla vita, e a Dio stesso, per deliziarsi nello spettacolo di un uomo che sospira dal profondo della miseria, e sorridere a cotesti singulti: e mentre furono concesse così strette facoltà per giovare più di quella che non si vorrebbe abbiamo potenza per nuocere. Visse, e vive, o Rogiero, quel figlio del peccato, che suscitando ad ogni momento sospetti nel cuore di Federigo, ed ogni più incolpabile azione di Enrico volgendo in delitto, di mille insidie, e d’infiniti delatori circondandolo, ora con la calunnia, ora con la compassione… Ma che mi trattengo io più a svolgere ad uno ad uno tutti gli accorgimenti della infamia? Essi sono più di quelli che si possono numerare, e che l’onestà può intendere. La sua perfidia fu insomma tanto avventurosa, che Federigo, fieramente infellonito contro il suo sangue, quel male arrivato figliuolo decaduto dal trono di Lamagna chiarisse, e a lui stesso lo consegnasse, onde in qualche carcere della Puglia col pane del dolore e con l’acqua dell’angoscia gli facesse consumare la rimanente sua vita. Nè stette molto che fu annunziata a Federigo la morte di Enrico, il quale riaprendo il cuore alla pietà paterna sentì tanto amaro cordoglio del suo soverchio rigore, che chiusosi in una stanza si dispose a lasciarsi morire di fame; se non che i suoi più fedeli cortigiani a gran pena, favellandogli attraverso la porta, poterono indurlo a por giù quel fiero proposito, e a ristorarsi di cibo. Il rammarico di Federigo non era tale però da rimanersi celato: una epistola imperiale dettata dall’illustre Segretario Piero delle Vigne, e spedita al clero siciliano diceva: Per quanto grande possa essere la colpa dei figli, non diminuisce in nulla l’amarezza che la natura fa sentire ai genitori nel punto della loro morte; e però ordinava, che di magnifiche esequie si onorasse, stimando così compensare con la vanità della pompa un’anima che aveva condannata a inaridirsi nell’onta. Ma Enrico viveva: Federigo e il suo feroce consigliere erano stati delusi…»

«Viv’egli Enrico lo Sciancato?» gridò Rogiero, che ascoltando attentamente questo racconto non potè reprimere un moto di meraviglia.

«Troppo duro sarebbe, o figliuol mio, lo stato nostro quaggiù, se la pietà profonda che ne regge non ci fosse stata cortese di alcuno di quegli spiriti compassionevoli nati a temprare i misfatti, pei quali di giorno in giorno la nostra stirpe scellerata aumenta il tesoro della vendetta di Dio. Uno di questi bennati pose la Provvidenza a lato del consigliere di Federigo, e volle che in lui ogni sua fede riponesse: a questo furono gli atroci misteri svelati: a questo fu dal consigliere imposto che si trasferisse in Puglia; quivi col laccio, col ferro, o in qualunque altro modo, s’ingegnasse di spegnere Enrico, e poi in tutta fretta ne recasse in corte la nuova. Partiva il messo; con la nuova della morte di Enrico tornava, ma Enrico era stato salvato.»

«Oh! che possa essere io il primo ad annunziarlo a Manfredi; certo grande gioia sarà quella del Re a tanto grata novella!» interruppe Rogiero.

«E il figlio pure dell’infelice Enrico,» continuava senza badargli l’uomo misterioso «da crudele ambizione perseguitato, fu sottratto alla morte, surrogando in sua vece il cadavere di altro fanciullo defunto per naturale malattia.»

«E vive egli?» domandò Rogiero.

«Vive.»

«Perchè dunque non palesarlo a Manfredi?»

«Perchè il tradire la innocenza frutta il disprezzo degli uomini, e l’ira di Dio.»

«Manfredi lo restituirebbe in reale condizione.»

«Manfredi lo ucciderebbe prima che se ne sapesse parola, per risparmiarsi anche la spesa dei funerali.»

«A chiunque voi siate.» rispose con terribil voce Rogiero «che così meno che onesto favellate del mio Re, faccio solenne protesta, che non ne tolgo vendetta in questo luogo perchè non siete vestito di armi convenienti. Nondimeno fino da questo punto dichiaro voi mentitore, e cavaliere sleale, e me pronto a sostenere con lancia, spada, e pugnale, o a piedi o a cavallo, a primo transito, o a tutta oltranza, il Re Manfredi di Svevia, il più virtuoso signore di tutta la Cristianità.»

«Accetto la sfida, e sostituisco un campione.»

«Si avanzi il campione,» disse Rogiero traendo la spada; «chi sarà mai costui?»

«Quantunque in cavalleria non sia lecito domandare il nome del cavaliere, voglio non pertanto soddisfarvi: egli è il figlio di Enrico, il nepote di Manfredi.»

«Dov’è egli?»

«In questa stanza.»

«Io non lo vedo… Sarebbe forse quel vostro compagno silenzioso, che si vanta figliuolo di Enrico?»

«Non egli nasce da tanto illustre lignaggio.»

«Dunque?» disse Rogiero guardandosi intorno.

«Dunque, siete voi stesso.»

«Io nepote dell’Imperatore Federigo!» gridò tutto stupefatto Rogiero, e la spada gli cadeva dalla mano tremante. «Ma perchè…» dopo riprendeva a fatica quasi anelando «ma perchè non palesarmelo innanzi? Perchè, invece di sospettare tanto vilmente del Re Manfredi, non manifestargli l’esser mio? Il tempo ha forse calmato l’odio, se pure il Re lo ha mai sentito pel suo fratello Enrico, ed egli mi avrebbe accolto con quello amore col quale si accolgono i più cari parenti…»

«Il tempo consuma il cuore che odia, ma l’odio… oh! l’odio non cessa neppure col palpito del cuore. – Egli scende nei sepolcri, ed agita perfino la polvere dei morti. Egli è la sola passione immortale concessa all’anima costretta dentro spoglie mortali. Ma ora non è proposito di odio; si tratta di cruda, fredda, calcolata ambizione.»

Benchè la mente di Rogiero fosse da gran tempo assuefatta a veementi commozioni, pure non potè di tanto sopportare quelle che referimmo senza che la sua testa si smarrisse. Gli si affacciarono agli occhi globi di luce: gli oggetti circostanti parvero volgerglisi attorno; uno indefinibile spossamento gl’invase la persona, e suo malgrado lo costrinse ad abbandonarsi.

L’uomo che gli aveva fin qui favellato stava immobile a riguardarlo, come se dal suo stato angoscioso ricavasse argomento di piacere; ma quegli che era rimasto taciturno, balzò premuroso dalla sedia, lo sostenne cadente, gli fu cortese di ogni soccorso, e quando lo conobbe tornato in sè con voce soffocata gli domandò: «Vi sentite confortato?»

«Oh! non è nulla,» rispose Rogiero «assolutamente nulla:» ed ostentando sicurezza allontanava le braccia di lui; «un breve disordine qui nella mente… ma ora è tutto passato.»

«Ei mi rifiuta!» Disse, con suono che più che a voce umana rassomigliava al bramito di una fiera, quel silenzioso, e a passi lenti ritornava al suo luogo.

«Rogiero, nostro pensiero, prima di favellarvi, era condurvi presso vostro padre. Veramente sarebbe compassione celarvelo: egli è miserabile avanzo di tal vita, che l’ira e la follia hanno lacerato a vicenda; e questo avanzo adesso sta nel dominio della morte. Pensate dunque qual fiero spettacolo voi dovrete sostenere. – Lo stato di debolezza in che adesso vi scorgo, mi fa grandemente temere per la prova alla quale siete chiamato. – Se non volete subirla, sta in voi. La vista del padre moribondo è più angosciosa di quello che cuore umano possa soffrire.» Tutto questo discorso fu fatto dal primo favellatore, il quale ad ogni periodo si soffermava, quasi per godere della impressione dolorosa che faceva nell’anima di Rogiero.

«Tacete, uomo spietato,» riprese questi: «se le vostre parole sono profferite da voi per gioire del mio affanno, la vostra perfidia non è cosa mortale; se per consolazione dell’anima afflitta, siete il meno destro confortatore di quanti vissero al mondo. Tacete, ve ne prego. Pur troppo io conosco quanto questa amarezza contristi! Io era nato per amare, e per quanto si fossero moltiplicate al mio sguardo le cose che si amano, esse non avrebbero potuto esaurire giammai quell’immenso affetto che nascendo sortii. E pure io non conobbi padre, nè madre, nè consorte, nè amico, cui indirizzare il desio dell’anima mia. Questo fuoco, non trovando modo a svilupparsi, ha consumato il principio che doveva alimentarlo. Era rimasta una sola scintilla, e questa deve brillare un momento, come la meteora della notte, e morire… Muora, ma brilli. Sento che in questa notte io devo affatto mutarmi, sento avvicinarsi un tormento inudito finquì; già mi si abbrividiscono le carni, le viscere mi si dirompono, e questi travagli derivano dalla immaginazione soltanto!… Proviamo fin dove l’uomo può patire, e il destino perseguitare: proviamo, che sia la voce di un padre su l’anima del figlio, comunque voce di padre moribondo.»

Agitato da profonda passione, mosse contro cotesti uomini, che gli stavano davanti; e benchè tacesse, parve minacciarli, dove non lo avessero celermente condotto all’oggetto del suo desiderio. Quei due si levarono tosto, ed avendogli fatto cenno di rimanere un poco, s’incamminarono alla estremità della stanza opposta all’uscio pel quale era entrato Rogiero. Per via uno di loro parlava all’orecchio dell’altro: «Io da qui innanzi, Conte di Caserta, amo avere la vostra approvazione. Che parvi dunque del mio operato?»

«Guarda se la misericordia di Dio è grande… pure tu mi appari più scellerato assai che egli non sia misericordioso.»

«E sì che le mie parole suonarono religione, e virtù.»

«Tanto è vero, che non si dà momento in cui Satana si mostra così terribile, come quello in cui si veste da Santo.»

«Troppa grazia,» rispose sorridendo il Conte della Cerra; e cavata una chiave, schiuse una porticella assicurata da forti sbarre di ferro. Ciò fatto, vi sporse il capo e chiamò: «Gisfredo! Gisfredo!» – Dopo poco tempo comparve una testa, poi le spalle, e il petto di un uomo, come quando ascendiamo una scala. Il Conte della Cerra gli si fece all’orecchio; lo domandò di alcuna cosa, alla quale avendo egli risposto col cenno del capo affermativamente, si volse a Rogiero, e disse: «Potete avanzarvi.»

Accorse Rogiero, e senza esitare si cacciò giù per la scaletta strettissima. I due Conti gli tenevano dietro: Gisfredo lo precedeva facendogli lume con la lanterna che aveva recata. Egli poi, per quanto studio vi ponesse, non potè conoscere nè anche chi fosse questo Gisfredo, perchè il suo volto andava come quello degli altri ricoperto di drappo; ma dall’afferrarlo ch’ei fece alcuna volta all’improvviso, come fingendo di cadere, dal suo volgersi rattissimo e sospettoso, dallo smarrimento delle pupille, ch’egli osservò attraverso i fori del drappo, allorchè gli prese la mano, e quasi per caso gliela pose su la guardia del suo pugnale, si accôrse essere costui un uomo di frode, anzichè di aperta violenza.

CAPITOLO SESTO. LEGA LOMBARDA

… Una feroce

Forza il mondo possiede, e fa nomarsi

Dritto. La man degli avi insanguinata

Seminò la ingiustizia: i padri l’hanno

Coltivata col sangue, e omai la terra

Altro frutto non dà.

    Adelchi, tragedia.

L’ordine di questa nostra narrazione vuole, che per noi si esponga un prospetto dei casi della famiglia di Svevia, nei secoli decimosecondo e decimoterzo. La nostra mano si accosta tremando a vergare queste carte, imperciocchè i fatti dei feroci che vissero in cotesti tempi infelici appaiano scritti col sangue; nè occorra pagina di storia, che non gridi delitto. Chiunque ricusasse prestare fede a quanto andremo narrando, sappia che non seguirebbe sano consiglio, avendolo noi raccolto da antichi e da moderni Storiografi. Per questo sarà manifesto come l’uomo posto solo dal caso in quel consorzio, ai patti del quale non si trovò presente, nè avrebbe, trovandovisi, consentito giammai, qualora si avvisi scostarsene, rivendicando parte dei diritti pei quali fu conformato, si tiri addosso la guerra di tutti i suoi simili; i quali, non perchè la sua azione sia essenzialmente colpa, ma perchè apporta loro nocumento, lo condannano all’onta e alla morte, a nome di una legge che hanno costituita i più forti soltanto. Al punto stesso vedremo le nazioni di proporzionata forza, tra loro da nessuna altra legge costrette, tranne la giustizia di Dio, la quale o non temono, o irridono, muoversi intere l’una alla rovina dell’altra; la debole innocente additarsi ai posteri con nomi di scherno, le virtù sue convertirsi in argomento di vituperio, che la calunnia, compiacendo all’oro dei potenti, o per naturale propensione al male, vomiterà dalle sue mille bocche di rettile; l’avventurosa colpevole strascinare il mondo a fare omaggio al suo splendido delitto, e l’uomo, o nato o piuttosto educato per essere iniquo o stolto, nulla curando il sangue fraterno che gli bagna le piante, nulla le ossa insepolte, nulla il grido delle vittime che prorompe dai sepolcri invendicati, applaudirla nella ebbrezza del cuore con le stesse voci che innalza alla Divinità; onde la mente del lettore sarà percossa da quella sentenza, che sembra assurda, e suona pur troppo orribilmente vera: lo stesso delitto che manda l’uomo al patibolo, rendere illustri le nazioni nella memoria dei posteri. Vedremo nel girare dei tempi quanto si prolunghi perenne la sventura tra noi, e la gioia fugga veloce, e quindi ricaveremo un’altra dura sentenza: essere il male nostro proprio retaggio, e stoltamente affidarsi colui, che ogni speranza di contento ripone in altro luogo che in cielo. Si vedrà dal seno della tirannide nascere la licenza, e dal seno della licenza nascere la tirannide; e i popoli del continuo travagliarsi in traccia di una libertà, che conseguita non hanno saputo poi mantenere, come quella che richiede l’esercizio di tali virtù che essi non conobbero mai, o se pure praticarono una volta, sì il fecero non già per libera elezione, ma per paura d’imminente pericolo; onde trarremo motivo di tenere per vero il detto di quel filosofo: nessuno ente vivere al mondo più codardo di lui, che opera il bene per la sola paura del male. Finalmente vedremo lo schifoso spettacolo di una Nazione vinta, e pasciuta di obbrobrio, che solo si dimostra viva per le vili querele contro i suoi oppressori, e per le più vili invidie contro chiunque tra lei tenta con opera di mano, o di consiglio, sorgere dalla melma dell’anima sua; nazione nuda di virtù proprie, e di altrui, doviziosa dei vizii di tutta la terra; gonfia di orgoglio per una gloria antica che forma la satira più sanguinosa del vituperio moderno; superba di tali geste, che chi le imprese avrebbe voluto non farle, qualora avesse saputo che dovevano essere argomento di petulanza, anzichè di rampogna, a tanti miserabili, ridicoli, e scellerati nepoti: Popolo insomma già signore, – oggi locandiere di tutte le nazioni del mondo. – Oh! dall’alto delle rupi, inutile schermo ai fiacchi che non sanno contendere co’ petti, dal profondo dei mari che ti circondano, dalle foreste, dai campi… da tutto il creato, maladizione e sventura su te, vilissima schiatta, che non sai vivere nè ardisci morire! Possa consumarti il fuoco del cielo, e teco i padri, i figli, e i figli dei figli, poichè la goccia nera del cuore distilla di generazione in generazione, nè si diminuisce per tempo. La pianta della infamia si abbarbicò intorno l’albero della vita, e ne ha guaste le più profonde radici. Gli anni si portano la vita, che è il sepolcro dell’anima, e allora rimane dei trapassati la fama; – qual fama! Chi più vive è più scellerato o più vile, e le colpe che si portano alla fossa sono in proporzione degli anni che abbiamo vissuto. E Dio volesse, che per molti ogni anno della loro vita potesse essere contato da una bassezza soltanto!

Di qua dal Reno, tra la Franconia, la Baviera, e la valle dell’Eno giace un paese nominato Svevia. Corre fama che negli antichi tempi fosse Regno, nei successivi fu Ducato; finalmente nel secolo scorso perde anche questa prerogativa. La casa di Austria, e di Vittemberga, se ne divisero il suolo; nè ora incontriamo più principe in Germania che assuma il titolo di Duca di Svevia.

Nei secoli di cui abbiamo impreso a trattare durava una feroce guerra civile, cagionata dalle fazioni guelfa e ghibellina. Si riunivano i Guelfi sotto le bandiere dei Duchi di Baviera, stipite delle case di Hannover, di Brunswich, e di Modena: i Ghibellini si erano posti a capo i Duchi di Svevia, e così si chiamavano dal castello di Gibeling, che questi Duchi possedevano nella diocesi di Augusburgo.

Corrado III di Hohenstauffen, succeduto a Lotario III dopo gloriosissimo regno di quattordici anni, sentendosi nel 1152 sopraggiunto dal male di morte a Bamberga, chiamati a sè i principali Baroni dell’Impero, consigliava, lui morto, eleggessero Re il suo nepote Federigo; e diceva loro: – l’amore della patria doversi ad ogni affetto privato anteporre, principalmente da coloro che la Provvidenza chiama al reggimento dei popoli, e però egli, sebbene fornito di figli, amare meglio, che fossero con la pace dei fedeli Tedeschi privati baroni, che con la guerra regnanti: il suo nepote Federigo, come quello, che, pel matrimonio di Federigo il Guercio di Svevia con Giuditta figlia di Enrico di Baviera, riuniva il sangue delle due famiglie inimiche, affidargli di pace, non meno che di vigoroso governo, perocch’egli guerreggiando in Palestina lo aveva sempre veduto al suo fianco fare prove di prode e valente cavaliere. – Questa orazione di Corrado troviamo presso molti Storici celebrata come uno dei pochi fatti che onorano la nostra specie. Guardimi Dio da calunniare la memoria di tanto Imperatore; ma potè ben anche essere previdenza di uomo accorto, che volle fare sembiante di donare quello che non istava in sua potestà impedire: imperciocchè lo Impero fosse elettivo, nè il suo figliuolo presentasse quei vantaggi che sembravano derivare dalla elezione di Federigo.

Gli elettori dell’Impero convenuti a Francforte in generale assemblea, trovando i voti del defunto Corrado conformi ai desiderii loro, elessero Re dei Romani Federigo, dal bel colore d’oro dei suoi capelli denominato Barbarossa.

Quanto poi s’ingannassero intorno alla indole mite di Federigo, lo videro nel giorno della sua incoronazione a Ratisbona, dove supplicato a graziare certo Barone, superbamente rispose: «per rendere severa giustizia secondo le leggi, non già per perdonare i colpevoli, sono stato eletto sovrano.» Al punto stesso per non isfiduciare gli elettori, che tanta speranza di pace in lui avevano riposta, dichiarava volersi rimettere alla decisione della Dieta di Gostanza intorno la lite del Ducato di Baviera, attualmente pendente tra lui ed Enrico il Lione, Duca di Sassonia. La Dieta gli rese sentenza contraria, ed egli parve acquietarsi, finchè nei successivi tempi capitatogli il destro spogliò Enrico di ogni suo possesso, e dichiaratolo traditore, lo pose al bando dello Impero.

Nessuno Imperatore fu più vaso di guerra, più cupido, o più presuntuoso di lui. Egli voleva l’impero Romano qual era sotto Augusto restituire; egli l’Armenia, la Siria, l’Etiopia, l’Egitto, non che Italia, Francia, e Inghilterra sottomettere. Vero è però che tanto grandiosi concetti finirono in una lunga guerra, all’ultimo per lui sventurata, in Italia; ed in alcune scorrerie piuttosto da ladrone, che da Imperatore, in Armenia.

Mentre che Federigo dimorava a Gostanza, Albernardo Alamano, e maestro Omobuono, cittadini lodigiani, trovandosi colà, a caso od a consiglio, tolte in mano due croci, siccome correva costume dei supplicanti, si fecero a visitare Federigo, e pietosamente gli esposero i danni della patria loro, cagionati dalla orgogliosa Milano, la quale, per le concessioni degli Imperatori Ottoni reggendosi fino dal 960 a libero reggimento, era salita in tanta grandezza, che di ogni costituzione imperiale non curante o sprezzante, a null’altro intendeva che ad ingrandirsi, sottomettendo le prossimane città.

Queste cose, sebbene per nulla contribuissero sopra le determinazioni di Federigo, ormai disposto a calare in Italia dal punto del suo incoronamento, valsero nondimeno a sempre più concitarlo, vedendo di poter trarre profitto dalla divisione delle città italiche. Quindi è che, quasi per tentare gli animi, mandò Sicherio suo Segretario a Milano per intimare che i Lodigiani negli antichi diritti si ristorassero, e per raccogliere il Fodero, il Mansionatico, e la Parata, contribuzioni usuali pel passo degl’Imperatori: consistenti, la prima nelle derrate necessarie al suo mantenimento, e a quello del suo seguito: la seconda nella provvisione degli alberghi; nel riattamento di ponti e strade la terza.

Sicherio presentatosi al Consiglio di Milano espose la sua commissione, e mostrò le lettere. I Milanesi in risposta gliele strapparono di mano, e in sua presenza ingiuriosamente le calpestarono. Sicherio, fuggendo a precipizio, scampava mala pena la vita. I Lodigiani adesso, considerando lo aiuto lontano, e i Milanesi vicini, spedirono una chiave d’oro a Federigo, perchè si affrettasse. I Milanesi, parimente, conoscendo avere mal fatto, mandarono all’Imperatore una coppa d’oro piena di danaro, la quale non fu accettata.

Volgeva l’ottobre del 1154, allorchè Federigo con numeroso séguito di Baroni, tra i quali era notabile il suo stesso emulo Enrico il Lione, tutti vestiti di bellissime armature, e di magnifiche stoffe, mosse per la valle di Trento in Italia. Questa compagnia, poichè ebbe fatta alcuna dimora su le rive del lago di Garda, si condusse direttamente nei prati di Roncaglia, dove per antica consuetudine si tenevano le Diete nazionali. Qui Federigo ascoltava con piacere infinito le scambievoli accuse delle città italiche, in ispecie quelle contro Milano; imperciocchè partendosi di Germania non avesse ben risoluto se Milano, o Pavia, avrebbe distrutto: e solo in Roncaglia si decideva contro Milano, come quella che sembrava dovergli più lungamente resistere. Poneva fine al congresso, e comandava ai Consoli milanesi Oberto dell’Orto, e Gerardo Nigro, che lui e il suo esercito guidassero a Novara. I Consoli, da buoni cittadini, tenevano questi insolenti più che potevano lontani dalla patria loro, e per sentieri piuttosto malagevoli li conducevano, reputando nonostante questo accorgimento potere in ispazio convenevole di tempo il cammino per a Novara fornire. Attraversava la fortuna i generosi disegni: le piogge dirotte guastarono tanto le strade, che la vettovaglia cominciò a mancare. Federigo, che aveva dato quella incombenza ai Milanesi, onde far nascere un appicco per romperla, non è da dirsi se si mostrasse crucciato per questo accidente. Cacciava dal suo campo i Milanesi, le Campagne loro mandava a sacco, i ponti sul Ticino ardeva, Rosate, Trecate, Galliate, e Mummia, nobilissimi castelli, sovvertiva. Tentarono i Milanesi placarlo con preghiere, e con doni, ma furono sempre rigidamente ributtati; dalle quali cose inaspriti, attribuendo a colpa dei Consoli quello che si dipartiva da mal talento di Federigo, insorsero pieni d’ira contro di loro, e ad Oberto dell’Orto fino dalle fondamenta rovinarono la casa. La qual cosa dimostra come fare del bene ai tuoi simili, specialmente poi alle turbe mutabili e matte, il più delle volte venga considerato delitto, il quale non può andare immune di pene condegne.

Federigo, per adempire i desiderii di Guglielmo Marchese di Monferrato, muove contro Asti e Chieri. Trovatele vuote di abitatori, la prima abbatte, la seconda incendia; poi contro Tortona. Pretesto della guerra erano le ingiurie commesse dai Tortonesi a danno di Pavia; cagione vera l’essere collegati a Milano. Troppo lunga sarebbe la narrazione, quantunque piena di lagrime, della guerra di esterminio da loro preposta al mancare di fede verso Milano. Da levante, ponente, e tramontana, duramente assediati si difesero; alla vista dei proprii concittadini prigionieri, dal barbaro nemico impiccati, non piegarono; per sessantadue giorni dalle mura i nemici respinsero; le mine fatte alla Rôcca Rubea, per via di contrammine resero vane: finalmente consumati i cibi, – le acque, che andavano ad attingere fuori della città, con pece, zolfo, ed altre immondezze dall’assediatore guastate, si arresero. Prometteva Federigo lasciare la città intatta; avutala, comandava ai Pavesi la distruggessero. I cittadini sotto rigido cielo, in rigida stagione, andavano pietosamente tapinando. Il loro venerabile Abate di Bagnolo, mediatore del trattato, afflitto per tanto tradimento, si lasciava morire di affanno.

Federigo, ricevuta la corona reale a Pavia, s’indirizza a Roma. Adriano IV, in quel tempo surrogato ad Anastasio IV, cominciava il suo Pontificato con atto di rigore: trovando apertamente contraria ad ogni suo comando o consiglio la città di Roma per le prediche di Arnaldo da Brescia, la scomunicava. I Romani, per liberarsi dallo interdetto, pregarono Arnaldo volesse in qualche parte allontanarsi. Questi, cedendo ai tempi, si riparava in Otricoli, castello dei Conti di Campania. Adriano lo voleva morto, e di vero egli non era uomo da lasciarsi vivo: di anima ardente, di maschia eloquenza; nel sembiante, e più nei costumi, severo; innamorato dell’antica libertà, che i suoi contemporanei non sapevano nè volevano conoscere; dopo avere ascoltato a Parigi le lezioni del famoso Pietro Abelardo, si dette prima in Brescia, poi in Roma, a declamare contro i costumi dei chierici, in quei tempi infelici pur troppo, e con gemito degli stessi romani Pontefici, tralignati: predicava gli ecclesiastici non dovessero possedere beni terreni, non temporale dominio; non averlo ritenuto San Piero, e San Lino, anzi proibito espressamente Gesù Cristo; le citazioni di Tito Livio mesceva con quelle dell’Evangelo; Camillo e Scipione con San Pietro e San Paolo; sacro e profano, ogni cosa a rifascio. Di questo, poco, o nulla, si curavano i popoli; ma quando, rapito alla considerazione delle cose future, profetava Arnaldo risorgerebbe dalle rovine il Campidoglio; risorgerebbero il senno e il valore romano l’augusto Senato, terrore o riverenza delle nazioni, risorgerebbe. – si sollevavano a maraviglioso concitamento e già sembrava loro vedere innalzarsi pel cielo l’aquila temuta al vittorioso suo volo: di Papa, di Cardinali, di Chiesa, non si teneva più conto; Consoli, Tribuni, e Senato, occupavano le menti di tutti. A queste cose, di per sè sole sufficienti a condannare Arnaldo, si aggiunsero alcune massime, meno che rette, sul mistero della Trinità, forse attinte dal suo maestro Abelardo, che fu nel 1110 condannato nel Concilio di Soissons ad abbruciare di propria mano il libro da lui composto intorno questa divina materia. Il Concilio lateranense secondo, tenuto sotto Innocenzio II, lo dichiarava eretico, e come scomunicato lo condannava. Arnaldo ripara a Gostanza; perseguitato da San Bernardo fugge a Zurigo, dov’ebbe per alcun tempo stanza e vita sicure. – Ma per lo esilio di Arnaldo non cessavano le turbolenze romane. Innocenzio II, dopo essersi invano adoperato a quietarle, ne moriva di affanno. Lucio II, vestito degli abiti pontificali, mentre vuole salire al Campidoglio, côlto alla tempia da un sasso cade miseramente ammazzato. Eugenio III è costretto a fuggire, e lascia alla Provvidenza prendersi cura della Chiesa, poichè vede tornare invano ogni mezzo terreno. Nel Pontificato di Eugenio fu richiamato Arnaldo a Roma, dove stette fino al 1133 sempre vegliando alla grandezza di un popolo, che parve destinato dai cieli a non essere più grande. Adriano adesso lo chiedeva a Federigo: questi, che desiderava essere coronato dal Papa, arresta il Barone presso cui riparava Arnaldo, e lo costringe a consegnargli quel male arrivato. Cinto da numerosa milizia s’incamminava Arnaldo a Roma per ricevere, come malfattore, la pena sul luogo del delitto. S’innalza il rogo, si sottopone la fiamma… cresce… gli avvampa le vesti… gli abbrucia le piante… E dove è il popolo, che Arnaldo voleva far grande? – Il fuoco gli consuma il corpo: i suoi occhi, disperati di umano soccorso, si affissano ai firmamento: il firmamento non si muove: egli è fatto cadavere… polvere… E dove è il popolo, che Arnaldo voleva far grande? – Si raguna la cenere; si disperde al vento: il popolo accorre, urla, schiamazza, e vuole salvarlo. – Oh! come burlevole saresti, umana razza, se tu non facessi così sovente piangere!

Federigo, andando a Viterbo, incontra il Pontefice Adriano nei campi di Sutri. Era costume che i Regnanti Incontrando il Pontefice gli si prostrassero, gli baciassero il piede, gli tenessero la staffa, e la Ghinea per lo spazio di nove passi romani gli conducessero. Lo Svevo, sdegnando coteste cerimonie, si fa arditamente incontro ad Adriano, che lo respinge, e gli nega il bacio della pace. I Cardinali spaventati fuggono a Civita-Castellana: una aperta rottura sembrava imminente, allorchè Federigo, mosso dall’esempio di Lotario II, si dispone fare a Nepi quello che aveva ricusato a Sutri, e così pacificato col Papa s’incamminano insieme alla volta di Roma. È fama, che Federigo, nello eseguire queste cerimonie, sbagliasse staffa; la qual cosa essendogli fatta osservare da certo famigliare del Papa, rispondesse: ch’egli non aveva mai fatto lo staffiere, volendo con questo mordere la bassa nascita di Papa Adriano; come se non fosse maggior gloria di piccolo farsi potente; che nato grande mantenersi in grandezza.

Mentre così si avvicinavano a Roma, ecco occorrere a Federigo una magnifica ambasciata del Senato e del popolo romano, che ammessa alla sua presenza così cominciava: «Gran Re, noi, di straniero che eravate, vi abbiamo sollevato all’onore di essere cittadino, e Principe nostro;» e così continuavano, fino ad esporre per patti della sua incoronazione il pagamento di cinquemila libbre di oro, e la concessione al Senato di reggersi come meglio gli piacesse. Federigo, a mala pena contenendosi, tutto infiammato nel volto rispondeva: «Roma o omai gran tempo che è convertita in nudo nome; voi mentite, se osate affermare me essere vostro Principe per elezione della vostra volontà: Carlomagno e Ottone vi hanno vinto con le armi, ed io sono vostro Sovrano per legittima possessione… partite.»