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Una Bolla Fuori Dal Tempo
Una Bolla Fuori Dal Tempo
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Una Bolla Fuori Dal Tempo

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Una Bolla Fuori Dal Tempo
Andrea Calo'

”Quando mi vedrai morto d’amore per te, mia donna, e le mie labbra saranno schiuse, e svuotato dell’anima sarà il corpo… allora, vinta dal dolore e dal rimorso, verrai al mio capezzale e con voce tenera e sommessa dirai: Io sono colei che ti ha ucciso e pentita sono ritornata…”.

Due corpi, una sola anima. Un ritorno alla vita un secolo e mezzo dopo la prima volta che annienta i confini imposti dal tempo. Una nuova vita o solo un riscatto. Ma certamente un nuovo amore che sboccia nella rivisitazione aggiornata di un passato ormai estinto.

”UNA BOLLA FUORI DAL TEMPO” è un Romanzo ricco di emozioni, di immagini e di colpi di scena che tiene il lettore incollato fino all'ultima pagina.

E se fosse vero che tutti noi viviamo più di una vita? E se crescessimo con la certezza di ricordarne una precedente?

Katherine, da tutti chiamata Kate, è una giovane donna italoamericana che vive a New York. Molti sono convinti che abbia problemi mentali, la sua famiglia d’origine compresa. Ma non è così: la sua particola¬rità è che sembra ricordare con assoluta nitidezza i dettagli di una sua vita precedente, vita vissuta in un luogo lontano dalla sua città natale. Ormai trentacinquenne, decide di tornare a Joseph, nella contea di Wallowa, Oregon, dove è cer¬ta di aver vissuto. Cerca il suo passato, ciò che fu la sua anima rinchiusa nel corpo di una donna d’altri tempi. Costretta a fermarsi a Portland per una tempesta, incontra John, con cui percepisce una strana affinità. Lui si offrirà di aiutarla a cercare le tracce di questo passato che non smette di ossessionarla. Un quadro, un bacio, una casa ed un diario scritto da lei stessa nella seconda metà dell’ottocento, tutto converge verso una rivelazione mozzafiato serbata per un finale capace di rendere questo romanzo indimenticabile.

Andrea Calò

UNA BOLLA FUORI DAL TEMPO

Romanzo

Prima Edizione – Gennaio 2013

Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e situazioni sono invenzioni dell’autore o hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, eventi, luoghi e persone, vive o scomparse, è assolutamente casuale.

© Copyright 2013 – Andrea Calò

ISBN: 9788873042877

@ e-mail: andrea.calo_ac@libero.it (mailto:andrea.calo_ac@libero.it)

Edizioni TEKTIME

A tutti coloro i quali sanno di avere almeno un angelo in Paradiso.

RINGRAZIAMENTI

Scrivere un libro è come partire per un viaggio. Si fanno le valige, si parte da un punto preciso e si procede cercando di raggiungere il punto d’arrivo, la meta desiderata. Ma come a volte accade durante un viaggio, le insidie, gli errori, le paure e gli imprevisti sono lì pronti a sorprenderci, a frenarci, a volte al punto di farci desistere dal proseguire. Con l’aiuto delle persone che ci stanno accanto o di quelle incontrate lungo la strada, si riesce tuttavia a venirne fuori, a volte con facilità, altre con estrema pena; ma non ci si siede mai sull’errore, per non perdere l’investimento fatto. Durante questo viaggio ho avuto diverse persone al mio fianco, tutte mi hanno spronato e incoraggiato a continuare il cammino, a realizzare quel sogno che da tanti anni tenevo chiuso in un cassetto, permettendomi di aprirmi completamente ad esso, al mio progetto.

Grazie a mia moglie Sonia che più di tutti ha creduto in me, da sempre, per la paziente lettura delle bozze avvenuta sin dalle prime fasi di preparazione di questo testo e per le fertili discussioni che hanno portato alla creazione della trama di questo romanzo.

Grazie ai miei genitori, che mi hanno donato la vita, mi hanno cresciuto e istruito, permettendo che tutto questo si trasformasse in realtà.

E infine, ma non da ultimo, grazie a te Elena, per aver istruito il mio cuore e guidato la mia mente durante tutto questo percorso: qui dentro c’è davvero una grossa parte di te.

CAPITOLO 1

Penso che una storia come la mia non sia stata mai raccontata. Forse per paura del giudizio degli altri, o forse per quel sottile velo di pazzia che la accompagna.

Mi chiamo Katherine o più brevemente Kate, mi dicono che sono nata trentasei anni fa a New York, dove tuttora vivo, da padre italiano e madre inglese. Il mio non è quindi sangue americano. La mia data di nascita è impressa sul passaporto, accanto alla mia immagine, e incisa con inchiostro di china sulle fotografie ingiallite dal tempo che mia madre mi fece quando ero bambina. Io sono però convinta di aver vissuto di più, molto di più. Forse il doppio dei miei anni, se considero anche quelli che io ritengo vissuti dalla donna che fui nella mia vita passata. Conservo chiari i ricordi, lucidamente ordinati nella mia mente come se si trattasse della mia vita attuale, li rivisito quando ne ho voglia o ne sento il bisogno. Penserete che io sia una povera pazza in preda ad una crisi d’identità e forse avete ragione. Lo pensava anche mia madre, quando da piccola le raccontavo le storie dei miei amici grandi con i quali parlavo e condividevo esperienze e sensazioni che possono essere parte solo della vita di una donna, non di una bambina. Parlavo di persone che lei sosteneva esistessero solo nella mia mente di bambina. Nei primi anni della mia vita lei assecondava il mio stato d’essere, la mia doppia identità, associandola alla mia immaturità e al mio innato attaccamento al gioco. Credeva, infatti, che io stessi giocando, che cercassi di interpretare i ruoli di un personaggio creato dalla mia fantasia e che prendeva vita e forma attraverso le mie parole e i miei comportamenti. Ne andava anche sì fiera di tutto questo perché ai suoi occhi di madre orgogliosa apparivo in tutta la mia unicità. Era certa, però, che con il tempo questo gioco sarebbe finito da solo proprio così com’era iniziato, permettendomi di cedere lentamente il passo al mio divenire donna. Ma non fu così perché quello per me non era affatto un gioco. Io conoscevo molto bene le persone con cui parlavo e che descrivevo a mia madre nei minimi dettagli, le sognavo frequentemente anche durante le notti. Un gioco non lascia emozioni tanto forti o ferite laceranti nell’animo, come invece accadeva nel mio caso. Mia madre mi portò da illustri medici della mente, profumatamente pagati per confermarle alla fine dei pensieri che lei stessa già aveva. Si sentiva confortata dalle loro conferme ma soprattutto dalle rassicurazioni su una mia prossima guarigione. ‘E’ solo una questione di tempo’, le diceva il luminare di turno. E lei ci credeva puntualmente, senza mai privarsi di quelle lacrime di sfogo che venivano a riempirle gli occhi, ogni volta. Per tutti io vivevo una doppia identità. ‘Solo in questa vita’, pensavo io di volta in volta. Mi fu sempre proibito di fare qualunque cosa potesse permettermi di ripercorrere il mio passato, quello più lontano, quello ormai estinto da tanto tempo. Forse più per paura di mia madre di scoprire un bel giorno che la sua pazza bambina aveva sempre avuto ragione e non per un reale atto di protezione nei miei confronti. Mentre la osservavo immobile sul suo letto di morte, serena in volto per il riposo eterno che l’aveva appena accolta, compresi che anch’io dovevo essere già passata attraverso quella fase, anche se mi sentivo totalmente incapace di raffigurarla, di descriverla e quindi di raccontarla agli altri, oltre che a me stesa. Non potevo però più farle del male con l’esternazione dei miei pensieri, con il mio desiderio di scoprire l’altra me stessa ormai estinta da molto tempo.

Sono intrappolata da un tempo eterno, prigioniera di una bolla trasparente. Migliaia di altre sfere di celluloide levitano nell’aria, avvolgendo altrettanti individui che, come me, si muovono goffamente all’interno. Tutt’intorno, come un branco confuso di animali, una massa di persone si presenta davanti alle grandi bolle: cercano un appiglio per aggrapparsi e, con occhi supplichevoli, muovono le labbra e dicono parole che non riesco a comprendere. Vaghi ma lucidi sono i ricordi, come i sogni dimenticati appena sveglia, ma nitidi fino a un attimo prima. Sfiorano la mia mente turbandola: anch’io, per parecchi anni, devo essere stata là fuori, ma non riesco a congiungere il tempo con le immagini e tutto rimane al fluttuante livello d’impressione.

La mia memoria è un vuoto che ogni tanto si popola d’immagini in bianco e nero. E non c’è spazio neanche per un ricordo in un vuoto quando è ricercato dalla mia volontà. Cerco di avvertire la gente delle sensazioni che provo per farli allontanare, ma non sembrano sentirmi o vedermi. Sono completamente isolata. Quelli di fuori, pur senza vedermi, indicano verso di me in strani modi. Alcuni accarezzano le sfere, degli altri vi appoggiano il capo contro, cercando di captare ogni minimo movimento, mentre altri ancora sorridono senza un motivo apparente. Dentro di me si fa largo il sospetto di assistere a uno spettacolo messo in scena da creature immaginarie: trasposizioni della mente nella mia passata, presente e futura coscienza, guizzi da un passato dimenticato ma non sconosciuto e rivolti verso un futuro incerto. Non so cosa significhino le parole che penso, forse sono solo conoscenze ataviche, rimaste per secoli a livello inconscio, ma sembrano le più adatte per esprimere ciò che sento.

Anche se non sono sicura che fuori sia meglio, la voglia di uscire cresce dentro di me, facendosi spazio con prepotenza: sono stanca del tiepido calore e della triste sicurezza della bolla. Comincio a cercare una crepa all’interno della cella, ma ancor fatico a trovarla. Il ritorno a visioni antiche, quasi ataviche, ma proprio per questo sicure, mi ha impedito di vedere il mio ultimo sussulto. L’ultimo anelito di vita arso dal fuoco della mia scomparsa si è innalzato sopra di tutto e tutti, formando una nuova bolla in cui si è ricomposto il corpo. Nessuno fu in grado, però, di vederla. Ecco, hanno perso tutti una buona occasione per capire, io inclusa. Probabilmente non capiremo mai: la novità porta l’ignoto e la paura, mentre il ricordo conforta con certezza e sicurezza.

Qualcosa di nuovo sembra formarsi nella mia mente- Sono quelle immagini confuse e sovrapposte alimentate da un corpo che mi porta avanti e indietro, che poi, alla fine di tutto, mi abbandonano sempre qui. Il tempo e le immagini da sole non si congiungono e tutto svanisce ancora prima di cominciare. Voglio uscire! Batto i pugni, urlo e piango. Non serve a nulla, nessuno mi ascolta, se non la mia coscienza.

Probabilmente la bolla è trasparente solo dalla mia parte e quelli che stanno fuori sembrano ora avvertire solamente i miei movimenti. Si avvicinano curiosi, per capire proprio come faceva mia madre. Fissano con aria trasognata la sfera che sembra portarli indietro nel tempo con me. Ricominciano a parlare, parole che non riesco ancora a capire, ma dalla loro espressione sembra quasi che m’invidino. Mi metto di nuovo alla ricerca di una via d’uscita. E’ stato inutile fino ad ora cercare, perché il tempo doveva fare il suo corso e la conoscenza aveva necessità di completarsi. Solo adesso sento l’approssimarsi del momento della mia nuova nascita, non posso mancare a quest’appuntamento per me così importante. Della luce esterna filtra da una piccola fessura che tende ad allargarsi, ed è da lì che uscirò, per capire.

Da un po’ troppo tempo ho cominciato a comprendere le parole che dicono quelli di fuori, grazie anche all’aiuto e alla presenza costante di mia madre nella mia vita. “Dobbiamo entrare per uscire con te”, ripetono all’infinito, con i visi supplicanti e tirati per la vana attesa. Barlumi di vite passate e future sconvolgono le mie espressioni, sensazioni passate, presenti e future sono le cappe pesanti della mie e delle loro esistenze. Leggo nelle loro menti paure infantili, ingigantite dagli anni e dall’esperienza. Occupano la maggior parte delle loro memorie, angoli bui e solai decrepiti aleggiano nei loro cervelli, cinte di cuoio sibilanti e guidate da mani callose, visi sformati dalla rabbia e dalla delusione albergano in modo indelebile nelle pupille, urla e minacce riecheggiano nei timpani. “Dobbiamo entrare per uscire con te!”. La materializzazione delle ossessioni ricorrenti e delle consuetudini più assurde, inculcatemi con la forza nel cervello da genitori non scelti da me. Dicono che vogliono entrare per uscire con me, per eliminare l’assillo di paure passate e di conseguenza senza neanche quelle presenti o future; ma devono fare attenzione perché laddove il tempo perde ogni valore è facile che il passato si confonda con il futuro e ne occupi il posto.

La fessura si allarga sempre di più, provo a uscire, spingo, faccio forza con le piccole spalle, cado sul pavimento nudo e freddo. Poi mi ricompongo e scopro di essere tornata quella di prima. Nulla è cambiato e nulla cambierà. Improvvisamente, uno scatto repentino e disperato, centinaia di persone si muovono verso la bolla: forse, attraverso la fessura che si è già richiusa, qualcuno è riuscito a entrare. A me la sfera appare trasparente anche dall’esterno, e solo le persone assiepate intorno ad essa m’impediscono di vedere dentro. Ma se uno di loro fosse riuscito a entrare, arriverà fino in fondo, completerà il ciclo soltanto se trasformerà la sua memoria in un vuoto. Non c’è spazio da riempire in un vuoto. Mi guardo intorno e so, anche senza ricordare, di essere già stata qui in questo mondo. Meglio così: senza i ricordi il mio passato non potrà mai più essere anche il mio futuro. Semplicemente perché non lo rammento. So solo che il momento della mia morte è coinciso con il formarsi della bolla. L’inizio della mia rinascita. Vita e morte si confondono, passato e futuro si sovrappongono e il tempo non esiste più. Chi ha perso la speranza e non ha compreso che la fine sarebbe nient’altro che l’inizio, non potrebbe mai capire chi ha addirittura oltrepassato i limiti del tempo e dei ricordi come ho fatto io. Resteranno per sempre prigionieri dei propri ricordi, delle proprie ossessioni e delle proprie angosce.

Il tempo ha perduto ogni suo significato, lui sarà nostro padre. Mi volto un attimo indietro, gli altri non ci seguono più. Anche mia madre, sono tutti ritornati verso le loro sfere. Non ci vedranno più. Forse non ci hanno nemmeno mai visto per quello che in realtà siamo.

Raccolsi le tracce di coraggio che ancora mi erano rimaste, scrollai dal mio corpo e dalla mia mente tutti i divieti che mi erano stati imposti negli anni e presi atto che era ormai giunto per me il momento di ripercorrere i miei passi, uno dopo l’altro, in sequenza. Avrei dovuto superare la barriera di quell’indefinibile periodo buio intercorso tra le mie due vite e del quale non avevo, e tuttora non ho, nessun ricordo, nessuna immagine lucida. Quando rivedo il mio passato, perdo il contatto con la realtà del mio presente. Me ne stacco, e la mia mente inizia a viaggiare, accompagnata dal mio corpo…

Vivo a Joseph, nell’Oregon, in una casa di legno che si affaccia sulla riva del lago Wallowa, uno splendido specchio d’acqua scavato tra le omonime montagne che lo circondano. La casa è posata su un piccolo promontorio, dal quale essa domina il lago in tutta la sua estensione, così come le poche altre case che si trovano in questa zona, per lo più abitate da pastori e contadini. Il monte Sacajawea è ben visibile dal giardino e dalle camere, con tutta la sua imponenza e il candore delle nevi che lo ricoprono per buona parte della stagione fredda. La casa è piuttosto grande, forse troppo perché ospiti una persona sola, probabilmente. Gli spazi dalle dimensioni maestose, quasi dispersive, si plasmano a tutte le cose che si possono trovare da queste parti. La facciata esterna è dipinta di un colore rosso intenso, interrotto dalle bianche finestre e contrastato dal tetto in elegante ardesia, leggermente sbiadito dal sole e macchiato dalle colonie di muschio verde che lo popolano sul versante più freddo e umido. E’ ben visibile anche da lontano, soprattutto quando la tintura è fresca e lucida al punto da riflettere bene i raggi del sole. All’interno invece regna il nudo legno con il suo colore naturale, non ho mai desiderato modificarlo per mia scelta, nonostante i consigli della gente. Io vivo isolata, come un’eremita lontana dal mondo, dalla comunità. Ho sempre desiderato la pace e odiato il confronto. Nessun rumore diverso dai suoni prodotti dalla natura disturba il mio tempo, le mie notti così come i miei giorni. Nelle notti di luna piena, la luce penetra con prepotenza nelle stanze e mi si dispiega accanto, accompagnandomi nei miei pensieri, prendendosi gioco delle tende che ricoprono le finestre, rischiarandole completamente. Non servono le candele, ma io le accendo lo stesso perché adoro il profumo della cera disciolta dall’incontrastabile forza del fuoco. Con loro, accendo anche il fuoco del camino nelle fredde notti invernali. Amo il fuoco e il calore che esso sprigiona con la sua energia, i profumati ceppi di legno di pino, ancora intrisi della loro stessa resina, che bruciano lentamente, il crepitio prodotto dalle fiamme che li attraversano. Scrivo i miei pensieri in un diario, perché alla mia morte io non possa svanire del tutto. Verserò il contenuto delle mie giornate e tutte le mie emozioni sulle sue pagine, traducendole in tratti d’inchiostro nero che qualcuno un giorno potrà forse leggere, se avrà voglia o curiosità di scoprire qualche cosa di me o se vorrà forse ritrovarmi. Mi aiuta l’immagine imponente del mio adorato lago, sul quale sono nata quarantacinque anni fa e che vedo dalla finestra della mia stanza da letto, ogni giorno. Non v’è al mondo un quadro migliore dipinto da pittore alcuno. Ho voluto sistemare lo scrittoio proprio nel punto da dove si può godere il panorama migliore, perché mi possa accogliere e accompagnare al meglio durante le mie confessioni quotidiane. Mi sia concessa la capacità e la grazia di non annoiare oppure offendere alcuno e, se così non fosse, vi chiedo perdono e vi prego di non maledire la mia persona ma semplicemente di riporre queste pagine nel luogo dove le avete trovate o renderle a coloro i quali ve ne hanno fatto dono. E tu mio amato, se mai leggerai questi pensieri, legali sempre all’amore che sento per te. E se puoi, perdonami.

Sistemai le cose più importanti in una valigia sufficientemente grande ma senza porvi troppa attenzione, prevedevo una durata piuttosto lunga per il mio viaggio. Quantomeno questo era quanto mi ero prefissata prima di partire. La mia valigia conteneva vestiti pesanti e caldi, essendo la stagione ormai prossima a un inverno, si diceva, piuttosto rigido. Le calde giornate estive erano ormai un lontano ricordo, tuttavia il freddo non mi è mai dispiaciuto. Mi aiutava a pensare, mentre me ne stavo beatamente seduta sul divano del mio caldo salotto, con una tazza di tè al gelsomino fumante tenuta ben stretta tra le mani. Rinnovato il passaporto, prenotai il volo American Airlines in partenza dall’aeroporto J.F.K. alle cinque del pomeriggio del giorno seguente e diretto a Portland. In settimana si poteva trovare sempre un posto con una certa facilità, anche all’ultimo minuto e a costi non eccessivi. Tuttavia l’aspetto economico non m’interessava per nulla in quel momento, le mie priorità erano ben altre. L’arrivo a Portland era previsto intorno alle otto di sera. Non trovai voli diretti per Joseph, quindi avrei percorso il tratto da Portland al Wallowa con i mezzi pubblici. Non sarebbe stata una passeggiata, la distanza di 343 miglia da coprire avrebbe richiesto ben sette ore di viaggio. Avrei chiesto informazioni direttamente in aeroporto, al mio arrivo. Speravo di trovare un mezzo in partenza la sera stessa, per coprire la tratta durante la notte. Lasciai quindi la città senza annunciare a nessuno la mia partenza. Registrai solo un messaggio con la mia voce sul nastro della segreteria telefonica. Volevo evitare di sentirmi data per dispersa o vedere la mia faccia sbattuta in primo piano in televisione nella rubrica dedicata alla gente scomparsa o sulle pagine dei giornali di cronaca. Sarebbe stato d’intralcio per me, mi sarei sentita pedinata ovunque mi fossi diretta, negli Stati Uniti o nel mondo intero. Tuttavia non volevo nemmeno dare troppi dettagli a riguardo, quindi mi limitai a notificare la mia assenza temporanea con la promessa di un contatto futuro. Il messaggio diceva:

Scusatemi ma non sono in casa. Sono partita per un viaggio, ci sentiremo al mio ritorno.

Seguito dal tono che annunciava l’inizio delle registrazioni.

Erano ormai passati tanti anni dal giorno della mia ultima attesa in coda al check-in nell’aeroporto J.F.K. L’ultima volta che avvenne, fu per un viaggio organizzato da mia madre, per farmi riesaminare la testa da uno psicologo che operava in una località che non ricordo, al confine con il Messico, da lei considerato molto bravo e sicuramente in grado di porre fine al mio “problema”. Ovviamente non fu così perché io non ho mai vissuto la mia situazione come un problema. Il tempo scorreva lento. I miei occhi erano distratti dalle lancette dell’orologio che parevano incollate, immobilizzate sempre nella stessa posizione, piuttosto che dalla gente che mi precedeva o mi seguiva in coda. Osservavo tuttavia le persone camminare velocemente, quasi correndo, mentre si trascinavano dietro le grosse e pesanti valige a rotelle. Questa gente era avvezza a tali ritmi di vita, s’intuiva facilmente, tant’era ormai divenuta un’abitudine per loro. Le persone davano all’aeroporto la parvenza di un centro cittadino: entravano a mani vuote nei negozi e ne uscivano caricate con sacchetti colorati, mangiavano e bevevano rumorosamente nei bar e ristoranti, leggevano giornali, libri o riviste sulle panchine d’acciaio, sotto le luci artificiali delle lampade al neon, di un bianco accecante, qua e là disseminate nel terminal. Io li seguivo con il mio sguardo assente, adeguandomi a loro ma restando immersa nei miei pensieri. Mi sentivo quasi inconsapevole delle immagini che popolavano la mia mente, totalmente incapace di distinguere se descrivevano parte del mio tempo presente o del mio passato. Se non fosse stato per l’aiuto di qualche elemento tipico di un’epoca ormai remota, che fissava in me qualche punto di riferimento, non ne sarei facilmente venuta a capo. Forse proprio in questo era racchiusa la mia pazzia, quella che mia madre teneva tanto a dimostrare: la mia incapacità di distinguere immagini reali da quelle che erano solo frutto di una mia fantasia. Nutrivo la palpabile paura di scoprire di essere realmente pazza e di dover dare definitivamente ragione a mia madre e accettare le sue parole e i suoi pensieri. Tuttavia, ora che era morta, non avrei più nemmeno avuto la possibilità di parlargliene e di chiarire con lei. Temevo di aver realmente bisogno di un medico, per impedirmi di commettere sciocchezze in un futuro, quando sarei stata abbandonata definitivamente da quel sottile filo di ragione che ancora mi restava, facendomi isolare in una realtà abitata da tanti altri pazzi. Pazzi come me. Cominciavo a prendere coscienza della mia diversità, proprio ora che mi sentivo sola al mondo, abbandonata da tutto e da tutti. Forse se fossi tornata a casa, avrei evitato tutto questo. Avrei potuto riporre le mie paure in fondo alla cesta delle cose da dimenticare. Avrei continuato a parlare con i miei amici immaginari e, forse, avrei raccolto i miei pensieri in un libro nel tentativo di svuotarmi per sempre, allontanarli da me portandoli fuori dal mio corpo e dalla mia mente, per potermene liberare definitivamente.

L’altoparlante al gate annunciava l’inizio dell’imbarco sul mio volo, mancava giusto mezz’ora alle cinque: priorità ai disabili e alle gestanti. I pazzi sono considerati disabili, pensai, perché non approfittarne quindi? Notai che le persone accanto a me indugiavano nell’alzarsi dalle loro poltrone, erano ben coscienti della loro normalità a tutti gli effetti. Continuavano indisturbate a giocare con i loro telefoni. In quel momento notai che avevo scordato a casa il mio. Poco importava, pensai. Se nella mia vita passata ero riuscita a vivere senza telefono, potevo farlo anche ora, in questa vita, durante questo viaggio. Inoltre non sarei stata rintracciata da parenti e amici che avrebbero distolto la mia attenzione dalla ricerca chiedendomi informazioni, spiegazioni o cose simili che non avrei avuto tempo ne voglia di dare loro. Mi sistemai al posto assegnatomi sull’aereo, e dopo aver controllato le stampe degli indirizzi, delle mappe stradali e degli uffici del turismo di Joseph che avevo collezionato nei giorni precedenti la mia partenza, riposi la mia ventiquattrore nello scomparto aperto, sopra la mia poltrona. Sentivo freddo e il mio corpo era attraversato in continuazione da brividi che non riuscivo a controllare. Tuttora non so dire se erano causati dal condizionamento dell’aria o, piuttosto, dal mio condizionamento mentale.

‘Che cosa ci faccio io qui? Fatemi scendere, per favore, io non dovrei essere qui ora!’, pensavo mentre l’aereo cominciava a rollare sulla pista di decollo, per poi sollevarsi in punta e staccarsi dal suolo.

Osservavo ancora le persone intorno a me, era diventato il mio passatempo per quella giornata. Navigavo nel mare aperto dei pensieri che potevano impregnare le loro menti in quei momenti, mi perdevo nei sorrisi intensi e nel chiacchiericcio esasperato e amalgamato dal rumore dei motori dell’aereo, mentre le hostess passavano lungo il corridoio offrendoci dei drink. La mia non sarebbe stata una vacanza, pensai. Voltai lo sguardo verso il finestrino e notai che la tendina oscurante era rimasta aperta, vedevo le case e le strade ormai lontane farsi via via sempre più piccole. Erano parte di una fitta trama di costruzioni in cemento che racchiudevano persone impercettibili ai miei occhi. Era vero quello che mia madre mi diceva quando ero piccola:

Quando pretendi di voler vedere tutto, perdi la tua sensibilità verso il dettaglio e tutto appare fermo ai tuoi occhi. Non pretendere di voler conoscere o controllare tutto e tutti perché comunque non ti servirà e alla fine ti accorgerai di non aver visto proprio nulla. Concentrati piuttosto sul dettaglio, perché è su questo che puoi agire, quel dettaglio che tu stessa sei nel mondo e che è capace di farlo muovere ed evolvere.

Il cielo, di un azzurro intenso, era macchiato da rare e timide nuvole. Chiusi gli occhi per rilassarmi un po’, mi attendevano tre ore di volo. Sentivo le voci degli altri passeggeri allontanarsi sempre più da me, le loro parole divenivano sempre più confuse, indistinguibili. Mi addormentai profondamente e al mio risveglio avevamo già iniziato la fase di discesa verso la pista di atterraggio nell’aeroporto di Portland.

CAPITOLO 2

La città di Portland era ricoperta dalla neve, caduta in abbondanza nella notte precedente. Avevo sentito la notizia in televisione ma avevo sottovalutato il problema, ritenendola di scarso interesse per me. Attraverso le vetrate dell’aeroporto si vedevano montagne di neve ghiacciata disseminate lungo i bordi delle piste, era la neve che era stata rimossa dagli spalaneve per consentire il normale funzionamento dell’aeroporto, uno dei pochi inseriti nella lista di quelli che garantiscono un’ottima efficienza in tutti gli Stati Uniti d’America. Mi chiedevo se le strade sarebbero state altrettanto pulite o se il rischio della presenza del ghiaccio sui collegamenti principali avrebbe potuto compromettere seriamente la circolazione dei mezzi. Non appena vidi arrivare la mia valigia trasportata dal nastro dei bagagli appena scaricati dalla stiva dell’aereo, guardai l’orologio: erano già le nove di sera, eravamo in ritardo. Accelerai il passo, diretta al banco informazioni, dove trovai tante persone che come me dovevano dirigersi da qualche parte. L’impiegata, una grassa e scontrosa donna sulla cinquantina, diceva ad alta voce che le linee di autobus esterne erano ferme per via del maltempo e tutte le corse a lunga percorrenza erano state cancellate e rinviate al mattino seguente, mentre con veloci gesta della mano mimava la caduta della neve e la presenza di lastre di ghiaccio sulle strade. La gente era irritata e molti uomini dimostravano la loro forza picchiando i pugni sul bancone, accusando la povera donna d’incompetenza. Anche se non eccelleva per simpatia, quella donna non aveva nessuna colpa. Non appena la folla fu diradata, mi avvicinai al banco.

«Mi dica!», esclamò la donna ormai esausta.

«Buonasera, non sto qui a chiederle le stesse cose che hanno chiesto tutti quanti, ho già sentito la risposta. Ho capito che stasera non si parte. Volevo chiederle se mi saprebbe indicare un posto dove poter trascorrere la notte, qui in aeroporto o in città».

La donna si rilassò.

«Mi dispiace signora ma purtroppo i pochi posti disponibili sono già stati occupati tutti. Come lei può immaginare, in queste situazioni vanno a ruba. Potrebbe raggiungere il centro città, dove troverà sicuramente delle camere in hotel. Dov’è diretta?»

«Nel Wallowa», risposi.

«Bene. L’autobus per il Wallowa parte dalla quinta banchina, che trova proprio qui fuori, domani mattina alle otto. La tratta è piuttosto lunga, ci vorranno circa otto ore».

«Sette ore replicai», mostrandole il calcolo fatto dal computer durante la simulazione del viaggio.

«Otto ore quindi», insistette la donna, «anche se sarà possibile viaggiare non si aspetti che l’autobus possa procedere con la stessa velocità o senza impedimenti. Il ghiaccio non si scioglie tanto facilmente e il sale non fa miracoli in queste situazioni. Di neve ne è caduta davvero tanta. Si faccia trovare qui domani mattina, poco prima delle otto. Se ha bisogno di un taxi, li trova all’uscita del terminal, sulla destra. Buon viaggio, signora», concluse regalandomi uno stentato sorriso.

«Se la signora me lo permette, posso accompagnarla io in città», sentii pronunciare chiaramente da una voce proveniente dalle mie spalle. Mi girai e mi trovai davanti agli occhi un uomo. Era di bell’aspetto, moro con occhi verdi, aveva una fitta capigliatura ben curata e che lasciava intravedere qua e là qualche brizzolatura. Era senza barba ma portava i baffi con orgoglio. Dimostrava una quarantina d’anni e, per com’era vestito, doveva essere un uomo d’affari, una persona che ricopriva qualche ruolo importante in un’azienda o cose del genere. Portava appeso a un braccio il suo lungo cappotto, mentre con l’altra mano trascinava un trolley piuttosto piccolo. Mi fissava negli occhi a meno di un metro di distanza, mentre attendeva da me una risposta, un cenno di vita.

«Lei è molto gentile. Io però non la conosco, le chiedo scusa, non accetto mai passaggi dagli sconosciuti. E se ora mi permette, vorrei andare», gli risposi mentre di scatto mi giravo nuovamente verso il banco informazioni, facendo finta di cercare qualche cosa all’interno della mia borsa. Sentivo la sua presenza dietro di me, forse avrei dovuto utilizzare dei modi un po’ più gentili ma davvero non ci riuscivo. Mi sentivo fortemente a disagio. Mi girai nuovamente e lo guardai negli occhi.

«Le ripeto, non la conosco. Non è per mancanza di fiducia nei suoi confronti ma davvero non penso sia il caso di lasciare questo terminal con lei, mi perdoni», continuai, pensando così di chiudere definitivamente il dialogo con quell’uomo mai visto prima. Anche se da un lato mi dispiaceva, ricordai a me stessa che non ero in vacanza.

«Se può esserle di qualche aiuto, mi presento. Il mio nome è John. John Beal», disse allungandomi la mano. Mi sentii costretta a replicare, a spargere i fatti miei su un tavolo a viso scoperto. Una cosa che mai avrei voluto in una città o verso persone a me totalmente estranee.

«Katherine Fortuna», risposi senza guardarlo negli occhi, mentre sistemavo il portafogli nella tasca interna della mia borsa.

«Fortuna? E’ un cognome italiano, se non sbaglio», disse sorpreso e con un’espressione da ebete in volto.

«Si, Fortuna è un cognome italiano», replicai, visibilmente scocciata dalla sua insistenza nel voler portare avanti a tutti i costi un dialogo che io ritenevo già concluso a priori.

«Posso insistere nell’offrirle un passaggio quindi, Katherine?». Insisteva. Cominciavo a non sopportarlo più. Tuttavia un passaggio mi avrebbe fatto davvero comodo in quella gelida serata invernale.

«Quanto dista da qui?», chiesi sempre più scortese.

«Una mezz’ora, direi, viste le condizioni delle strade. La mia macchina è parcheggiata qui fuori, venga con me, mi segua. Intanto si copra bene, fuori fa molto freddo», rispose mentre indossava il suo lungo cappotto sopra l’elegante giacca grigia che, realizzai, nascondeva anche una bella cravatta rossa ben annodata sotto il colletto di una camicia bianca. Si offrì di prendere la mia valigia e la trascinò dietro di sé. Seguii il suo consiglio e m’infilai la giacca a vento che avevo legato intorno alla vita, prima di scendere dall’aereo. Ai suoi occhi di padrone di casa dovevo essere parsa una povera e sprovveduta provinciale. Procedeva con passo deciso, la sua falcata era così lunga che faticavo a stargli dietro. Cominciai a sentire l’affanno nel mio respiro e il cuore battermi forte, quindi mi fermai di colpo.

«Senta John “coso” o come diavolo si chiama. Ha intenzione di fare una maratona? Una corsa? Se è così me lo dica, così almeno mi cambio le scarpe e mi preparo!». Lui si girò con un’elegante e precisa torsione del collo e mi sorrise.

«Ha ragione Katherine, mi scusi. E’ la mia imperdonabile abitudine. Io sono sempre di corsa. Prego, riprenda fiato. Si prenda tutto il tempo che le serve, poi proseguiamo più lentamente».

Era un uomo elegante, non c’era ombra di dubbio. Non volevo passare da povera bambina capricciosa quindi risposi semplicemente che potevamo andare avanti. In quel momento fui io ad accelerare il passo e a lasciarlo dietro di me.

«Lei vista da dietro è altrettanto graziosa, lo sa? Chissà da quanti uomini lo avrà già sentito dire!».

Mi s’infiammarono le guance, sentii un caldo impossibile esplodermi nelle orecchie, m’irritai.

«Ma come si permette! Ma senti questo! Mi ha visto appena cinque minuti fa per la prima volta e ora già si permette di esprimere le sue personali considerazioni sulla mia persona. Chi le ha concesso tutta questa confidenza? Non si permetta mai più certe libertà, John Beal!». Ero furiosa come un toro di fronte ad un lenzuolo color rosso sangue, ma in cuor mio mi sentivo anche lusingata di essere stata notata per qualcosa di fisico. Anche se non glie lo avrei mai confidato, mi piaceva la sfacciataggine mostrata da quell’uomo.

«Molto bene signorina, vedo che ricorda già bene il mio nome completo! Possiamo andare ora?».

«Si, andiamo. E’ meglio!».

Il freddo era davvero pungente fuori dal terminal. Fortunatamente non c’era molta umidità nell’aria, il che la rendeva la temperatura sopportabile. Allungai il passo per seguire l’uomo e immediatamente scivolai. Non avevo le scarpe adatte e l’asfalto era coperto a chiazze da sottili lastre di ghiaccio.

«Per favore, si fermi qui!». John si girò sbuffando, chiedendosi il perché di quella mia richiesta, ma subito capì.

«Ha problemi con le scarpe, giusto? Prima di partire non si è interessata sulle condizioni meteorologiche? Tutti sapevano della bufera di neve su Portland. Va bene, è inutile parlarne ora. Ha delle scarpe più comode con sé?».

«In valigia, ma dovrei tirare fuori tutti i vestiti qui in mezzo alla strada, impiegherei troppo tempo e non ne ho assolutamente alcuna voglia. Cercherò di fare attenzione», lo rassicurai.

«In alternativa potrei portarla in braccio, se vuole. Che ne dice Katherine?». Era impertinente, ma anche gentile. Tuttavia quella sera il mio stato d’animo non mi permetteva di esprimere sentimenti di bontà alcuna.

«Oppure potrebbe andare a prendere la sua auto mentre io l’aspetto qui, con la mia valigia. Che ne dice signor Beal?», replicai con altrettanta impertinenza.

«Arrivo presto. Nel frattempo abbia cura di non prendere freddo, altrimenti la sua vacanza nel Wallowa la trascorrerà a letto con la febbre». S’incamminò diretto alla sua auto senza girarsi, attraversando le file di macchine e pick-up parcheggiati nell’enorme area. Pensai che forse non stessi facendo la cosa giusta, avevo avuto poche esperienze con gli uomini e tutte finite in malo modo. Mi avevano fatto soffrire, nessuno era mai riuscito ad accettarmi per quella che sono. Seguii John con lo sguardo fino a quando non riuscii più a scorgerlo e in quel momento cominciai a temere che non l’avrei mai più visto. Forse l’immagine di John era solo una proiezione della mia vita passata, quindi irreale. Avevo accettato un passaggio da un fantasma? Rabbrividii all’idea. Vedevo ovunque persone intorno a me che entravano e uscivano dal Terminal mentre parlavano e sorridevano. Alcuni discutevano animatamente tra di loro, ma almeno non erano soli, abbandonati a loro stessi, come invece mi sentivo io. Chiusi bene la giacca e avvolsi intorno al collo una sciarpa che avevo in precedenza inserito nella borsa. Non ero stata del tutto sprovveduta, evidentemente. Poi il deserto. Il lampione che si trovava proprio davanti a me rifletteva la sua luce sulla neve, facendola brillare come fosse polvere di diamante. Ripensai a quanto amavo da bambina le cose che brillavano, dicevo a mia madre che da grande avrei voluto avere tanti gioielli. “Certo che ne avrai tanti”, mi rispondeva sempre, mentre accarezzava i miei lunghi capelli neri.

In fondo alla strada vidi i due fari di un’auto allontanarsi sempre di più tra di loro, mentre il mezzo si avvicinava. Era un pick-up e dentro c’era John a guidarlo. Non immagini quanto io sia contenta di rivederti in questo momento, pensai tra me, mentre John scendeva dall’auto per caricarvi sopra la mia valigia. Solo in quel momento notai che aveva lasciato lì con me anche la sua, prima non lo avevo realizzato, assorta com’ero nei miei pensieri. Si era fidato di me, più di quanto non avessi fatto io nei suoi confronti. Avrei voluto dirgli grazie, ma le mie labbra non riuscirono a dare sfogo al mio istinto, rimanendo incollate tra loro. Salii in macchina mentre John sistemava i nostri bagagli.

«E’ di suo gradimento la temperatura dell’aria, Katherine?».

«Va bene, amo il caldo, non si preoccupi», riuscii a dire, ancora una volta senza ringraziare. Perché mi era così difficile farlo? Cosa non funzionava in me?

«Questo allora non è il posto adatto a lei, se non in certi momenti dell’anno», esclamò sorridendo, «qui fa piuttosto freddo. Andiamo?». Acconsentii con il solo movimento del capo.

Mise in moto l’auto e avanzammo a passo lento verso l’uscita dell’aeroporto, senza parlare. Anche se John si era comportato in quel modo tanto gentile nei miei confronti, mi guardava e sorrideva, io non riuscivo ancora a ricambiare.

CAPITOLO 3

Le note della canzone ‘Strangers in the night’ di Frank Sinatra addolcivano il vuoto silenzio lasciato delle nostre voci. A ogni incrocio con il semaforo rosso, John mi guardava e ogni volta sembrava volermi fare delle domande. Io temevo che mi fosse posta quella che sarebbe stata per me la domanda più difficile alla quale rispondere. Il mio atteggiamento asociale e poco rispettoso nei suoi confronti, che mi aveva in qualche modo difeso fino a quel momento, non durò molto.

«Cosa l’ha portata qui Katherine?», chiese mentre volgeva lo sguardo alla strada. Poiché non dovevo ricambiare il suo sguardo con il mio e visto che la domanda non era poi tanto compromettente, pensai che avrei potuto anche dare una risposta evasiva e lui non vi avrebbe dato molto peso. Mi sbagliavo.

«Volevo cambiare aria, fare un giro da queste parti mai visitate prima in vita mia. Me ne hanno parlato tanto bene i miei amici a New York».

«Non credo sia solo questo, se me lo permette», rispose. Non l’avevo convinto per nulla, era più che evidente. In fin dei conti non avevo mai dimostrato di avere innate doti d’attrice e la menzogna non è davvero mai stata il mio punto di forza. Come sempre, però, non ero disposta a cedere vista la mia cocciutaggine, forse la mia vera e unica caratteristica.

«E lei che cosa ne sa? Una donna non può decidere a un certo punto di chiudere casa e farsi un bel viaggio? Pensa di conoscermi così bene? Non sa proprio nulla di me, in fin dei conti, non crede Beal?».

«Io dico semplicemente che non è solo questo. Lei non è una donna serena in questo momento, mostra paura verso qualche cosa, dà l’idea di essere qui alla ricerca di qualche cosa che teme di non trovare o, al contrario, di rimanere sconvolta nel caso dovesse trovare ciò che cerca. Una donna in fuga da o verso qualcosa. Proprio questo, lei sembra una donna che sta scappando da qualche cosa a gambe levate. Comunque le chiedo scusa, questi non sono affari miei e su questo ha tutte le ragioni del mondo, mi perdoni».

Ripiombammo nel silenzio, un mutismo imbarazzante. M’infastidiva che John avesse tutto quel rispetto per me, per i miei pensieri e per la mia riservatezza. Pensai che provare a conoscerlo un po’ forse non mi avrebbe causato problemi. Forse sarei riuscita a ringraziarlo alla fine del nostro tragitto.

«E lei come mai è qui John? Vive a Portland?». Immediatamente pensai che, con il mio comportamento, lui potesse risentirsi per la mia domanda. Perché mai io potevo fare domande e lui no? «Ovviamente si senta libero di non rispondermi se non lo ritiene opportuno». John mi guardò e ammiccando un sorriso andò a segno.

«Perché mai dovrei comportarmi come lei Katherine?». Scoppiò a ridere mentre mi guardava chinare il capo per proteggermi dal suo sguardo. Mi comportai come una bambina che era appena stata sgridata.

«A Portland vive ancora mia madre. Ci trasferimmo qui poco dopo la morte di mio padre, prima abitavamo a Joseph, proprio dove lei è diretta, nel Wallowa. Conosco bene la zona, per questo motivo poco fa la mettevo in guardia sulle rigide condizioni atmosferiche».

«E, lutto per la morte di suo padre a parte, come mai avete deciso di trasferirvi a Portland?».

«A dire il vero non si trattava di un trasferimento, ma piuttosto di un ritorno. Mia madre è nata e vissuta nella periferia della città. Non avendo più nessun legame con il Wallowa, ha deciso di ritornarsene qui. Io l’ho seguita, nonostante avessi allora un buon lavoro a Joseph. Lasciai tutto, feci i bagagli e venni a stare qui con lei. Ora, ultra settantenne, ha più che mai bisogno di me. E’ una donna ancora autosufficiente nonostante l’età, ma come lei può ben immaginare comincia ad avere serie difficoltà sotto diversi aspetti della vita quotidiana. A volte ha dei momenti di buio nella sua mente, durante i quali non ricorda più nemmeno il suo nome o il mio viso. Fortunatamente sono momenti ancora rari e brevi, ma la costringono a rimanere chiusa in casa. Lei è sempre stata una donna molto dinamica e questa limitazione è per lei al pari di una condanna alla reclusione. Ha una badante che si prende cura di lei».

«Era all’aeroporto John. Da dove proveniva?», chiesi forse osando troppo.

«Io ero con lei sull’aereo, Katherine, vengo anch’io da New York. Sono andato nella città per attendere a una convention, ero l’oratore».

«Non mi ero accorta di lei John».

«A dire il vero lei non poteva accorgersene, presa com’era dai suoi pensieri. Durante il volo poi, subito dopo il decollo, si è assopita. Io invece l’ho notata subito. Lei è una donna che non passa inosservata, dovrebbe saperlo questo». John parlava con sincerità e senza inibizioni, con il suo sorriso continuamente stampato in viso e un’eleganza che raramente avevo riscontrato prima in un uomo. Lo guardai e forse arrossii un poco. Si, sono sempre stata una bella donna. Mio padre lo sosteneva fin da quando ero bambina, mentre mia madre era preoccupata maggiormente per altri aspetti della mia vita, che le facevano porre l’argomento ‘bellezza’ in secondo piano. Più volte me lo sono sentita dire dagli uomini, al punto da essere giunta a convincermene. Ma lo ero, molto di più, nel mio corpo precedente. Ero una donna elegante, di una bellezza raffinata, quasi rara. Ma questo io non avrei potuto dirlo a John. Almeno non ancora.