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Una Bolla Fuori Dal Tempo
Una Bolla Fuori Dal Tempo
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Una Bolla Fuori Dal Tempo

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«La ringrazio John…», accennai timidamente.

«Anche la roccia si sfalda quando dimostra di avere un cuore! E’ vero quindi!», disse con tono sicuro.

«Che cosa intende dire con queste parole?»

«Lei mi ha appena ringraziato, Katherine. Non se n’è accorta? O forse mi sbaglio?», disse, strizzandomi l’occhio in segno di complicità. Io sorrisi e annuii solo con un cenno del capo, qualunque altra parola sarebbe stata del tutto superflua e fuori luogo in quel momento.

«Le devo chiedere scusa John. Perdoni il mio comportamento scortese nei suoi confronti. Lei è così gentile con me ed io l’ho saputa ricambiare solo trattandola piuttosto male. Sono stata poco carina».

«Potrei accettare le sue scuse, ma a una sola condizione! Mi deve concedere il piacere di fare colazione con lei domani mattina, che ne dice?». Non sapevo cosa rispondere, ero imbarazzata. Poi mi venne in mente che la mattina seguente avrei dovuto prendere l’autobus per il Wallowa.

«Accetterei volentieri John, ma domani mattina dovrei tornare in aeroporto molto presto per prendere l’autobus diretto nel Wallowa. Non farei in tempo altrimenti», risposi.

«Non ne ha bisogno Katherine. La porterò io nel Wallowa se mi vorrà onorare della sua piacevole compagnia».

«No John, l’ho già disturbata anche troppo. Non permetterei mai di farle sprecare tempo prezioso per accompagnarmi fin laggiù, è troppo lontano».

«Una cosa che non ho fatto ancora in tempo a dirle nel mio racconto è che io lavoro ancora nel Wallowa».

«Come dice? Ha lasciato nuovamente Portland, quindi?», chiesi sorpresa.

«Si. Qui non mi sentivo a casa. Se non fosse stato per mia madre, non ci sarei nemmeno mai ritornato», rispose, «Non ho trovato nemmeno un lavoro che mi gratificasse come quello che avevo a Joseph. Parlai allora con mia madre e le comunicai che sarei ritornato nel Wallowa. Sarei andato a trovarla spesso. Potevo farlo perché in quegli anni non aveva mai mostrato segnali di cedimento, potevo stare tranquillo. Dopo una prima reticenza iniziale, accettò la mia scelta e mi lasciò andare via. Tornai nel Wallowa, a Joseph. Fortunatamente non era stato trovato un rimpiazzo alla mia posizione lavorativa e fui reinserito nell’organico. Vivo in una casa non molto lontana dal mio lavoro, non potrei stare meglio di così».

«E’ sposato John? Ha dei figli?»

«Sono divorziato e non ho figli». Si stava completamente aprendo a me, ogni mia domanda trovava subito una risposta. Avrei potuto chiedergli qualunque cosa e lui mi avrebbe risposto senza problemi. Io non ci sarei mai riuscita. Come si può essere tanto trasparenti verso un completo estraneo? Lui ed io eravamo due persone molto diverse a prima vista.

«Mi scusi John, non vorrei aver rievocato con le mie domande pensieri o sentimenti per lei dolorosi»

«Assolutamente no Katherine. Mia moglie ed io siamo tuttora in buoni rapporti. Si era spento quell’amore che ci aveva in precedenza unito, tutto qui. Non si va avanti in un rapporto se non c’è l’amore, giusto?». Giusto, pensai. Giustissimo. Le mie esperienze passate a riguardo non potevano che confermare quanto da lui detto. Non ero mai stata lasciata da un uomo, ero sempre stata io a fare il primo passo. Non conoscevo lo stato d’animo in cui ci si trova quando è l’altro a dirci che è finita, quella sensazione di rifiuto giustificata con le più disparate ragioni. A volte ci si giustifica assumendosi per scelta tutte le colpe per la decisione presa, consci del fatto che non si tratta della pura verità bensì di un modo per chiudere la questione in fretta e senza seguiti. Provavo a immaginarlo ma riuscivo solamente ad assimilarlo a quello di una morte improvvisa, doveva essere un dolore enorme quello che segue la parola ‘addio’ pronunciata da una persona che si ama veramente. Gli feci capire che ero d’accordo con lui e non continuai oltre sull’argomento, non avevo alcun diritto o alcuna necessità di farlo.

«Ha trovato tutto inalterato al suo ritorno nel Wallowa o ci sono stati dei cambiamenti in sua assenza?»

«Ritrovai tutto così come l’avevo lasciato. Non sono mancato per troppo tempo tuttavia, solo qualche mese. A me però sembrava trascorsa un’eternità».

«Davvero poco tempo quindi. Per questo motivo ha ritrovato anche il suo vecchio posto di lavoro».

«O forse anche perché sono troppo bravo e non sono mai riusciti a trovare un’altra persona che fosse alla mia altezza?», pronunciò altezzosamente.

«Lei è davvero molto modesto John», risposi sorridendogli con piacere per la prima volta.

«La modestia è una mia virtù, così come la sua eleganza Katherine». Lo guardai mentre mi fissava con lo sguardo. La luce dell’insegna al neon dell’hotel dove mi aveva portato illuminava un lato del suo volto, mentre l’altro rimaneva completamente in ombra, buio.

«A che ora la colazione domani mattina John?», chiesi rispondendo al suo sguardo intenso, mentre i suoi occhi fissavano i miei.

«Le può andare bene per le otto? Verrò io qui da lei. Mi raccomando, indossi abiti pesanti e molto caldi. Farà freddo nel Wallowa domani, vedrà. Ovviamente le sue scuse sono accettate, Katherine», concluse.

Ricambiai con un sorriso e con una leggera e composta flessione del capo. Prese la mia valigia dal portabagagli e me la trasportò fino al bancone della Reception dell’hotel, in fondo alla hall sulla destra. Conosceva anche l’impiegato, un ragazzo piuttosto robusto di nome Fred.

«Fred, questa è la signora Katherine. Ho prenotato la sua camera a mio nome, controlla la lista. Penserò a tutto io domattina quando verrò a riprenderla. Mi raccomando desidero per lei un trattamento di riguardo, è una mia cara amica!». Poi si girò verso di me per continuare il suo discorso, «Ho verificato la disponibilità della camera mentre mi recavo a prendere l’auto in aeroporto. Qui si troverà bene Katherine. Conosco questo ragazzo e stia certa che se qualche cosa dovesse andare storto, lui se la vedrà con me domattina. Dico bene Fred?»

«Non ha nulla di che preoccuparsi signor Beal. Signora, ecco la chiave della sua camera. Le chiamo un facchino che le porterà la valigia in camera tra pochi minuti, la lasci pure qui a me». Ringraziai Fred. Non avevo dovuto fare nemmeno il check-in, la camera era stata registrata con il nome di John.

«Grazie ancora John per tutto il suo aiuto e la sua generosa disponibilità, lei è davvero una brava persona, molto più di quanto non lo sia io. E mi scusi ancora per la mia indecenza, in aeroporto come in macchina, poco fa».

«Le ripeto Katherine, le sue scuse sono state già accettate. Non parliamone più, non è importante. Cerchi piuttosto di trascorrere una buona nottata, ci vediamo qui nella hall domani mattina alle otto. Faremo colazione qui nel ristorante dell’hotel, è ottimo. Poi partiremo per il Wallowa». Fece una pausa, poi riprese. «A proposito, dimenticavo che lei non ha ancora cenato!». Negai con una mossa del capo ma lo rassicurai dicendogli che avrei preso una tazza di caffè in camera, non ero solita mangiare molto la sera, soprattutto prima di andare a letto. Ed ero molto stanca, non avrei tardato ad addormentarmi. Mi prese la mano e me la baciò. Il contatto della pelle della mia mano con le sue labbra morbide e calde mi fece tremare. Riuscii a fatica a trattenere dentro di me la mia emozione e lo salutai.

«A domani Katherine».

«A domani John». Mi seguì con lo sguardo, rimanendo immobile per tutto il tempo, fino a quando non si aprì la porta dell’ascensore. Teneva le mani nelle tasche del cappotto, come se stesse nascondendo qualche cosa al loro interno. Entrai nell’ascensore e premetti il tasto per salire al terzo piano. Ebbi giusto il tempo per lanciare un ultimo cenno di saluto con la mano a John, che ricambiò, poi restai immobile a osservare la sua immagine che scompariva dietro le fredde porte d’acciaio della cabina dell’ascensore. Un lungo corridoio, stretto e buio, mi conduceva alla camera 315. Mentre passavo davanti alle porte delle altre stanze, sentivo i rumori delle televisioni accese, dell’acqua delle docce e le voci delle persone provenire dall’interno. L’hotel era quasi pieno. Entrai nella mia stanza, era molto piccola, con un bagno angusto e poco curato. Guardai fuori dalla finestra. Si dispiegava un bel panorama a ridosso della città e, in lontananza, vedevo le luci accese e intense che illuminavano le piste dell’aeroporto. Il bagliore dei riflessi di luce sulle lastre ghiacciate e sui cumuli di neve, donava al paesaggio un che di fiabesco. Presi il bollitore e riscaldai dell’acqua per prepararmi un buon caffè americano. Avevo bisogno di qualcosa di caldo per combattere il gelo che mi aveva attraversato anche le ossa in quella fredda serata. In quella stessa serata, però, avevo incontrato un uomo che era riuscito a scaldarmi il cuore. Un talk show trasmesso in televisione riempiva la stanza di parole, lo guardai con poco interesse mentre sorseggiavo la mia tazza di caffè. La mia mente vagava su quello che avrei visto e vissuto nel Wallowa, m’interrogavo sulla reale esistenza della casa che cercavo. Di certo, se non l’avessi trovata, sarei rimasta molto delusa da me stessa e me ne sarei ritornata a casa a mani vuote, forzandomi a cancellare per sempre quelle immagini che da sempre avevano popolato la mia mente e i miei pensieri. Ricercai nella mia memoria visiva i tasselli per ricostruire l’immagine di John e apprezzai tutto quello che aveva fatto per me. Solo adesso che se n’era andato via, lasciandomi da sola in quella stanza, riuscivo a esprimere tutta la mia gratitudine. Aveva preso una perfetta sconosciuta in aeroporto e le aveva offerto il suo aiuto, i suoi servizi, senza pretendere nulla in cambio. Almeno fino a quel momento. Mi chiedevo ancora se quell’uomo fosse reale oppure un frutto della mia immaginazione. Eppure l’emozione che avevo provato mentre mi baciava la mano era reale, fisica. Decisi di non pensarci più. Se ero giunta nella stanza di quell’hotel di Portland, qualcuno o qualcosa doveva avermici portata. Pazza si, potevo anche accettare di esserlo, ma non potevo esasperare le mie fantasie al punto da generare ipotesi e pensieri assurdi. Mi spogliai ed entrai in bagno, buttandomi sotto la doccia che versava acqua molto calda, quasi fumante. Incrociai la mia immagine riflessa nello specchio di fronte a me, ampiamente offuscato ai bordi dal vapore caldo prodotto dall’acqua della doccia. Si era creata una cornice intorno al mio corpo e potevo ammirare le mie fattezze e i seni turgidi come se stessi ammirando un quadro. Vidi che ero oggettivamente una bella donna. “Si, sei una bella donna Kate”, mi suggerì il mio orgoglio di donna, facendomi disegnare un bel sorriso fiero sulle mie labbra chiuse. La doccia tolse via la stanchezza della giornata dal mio corpo, rilassando i miei muscoli mentre l’acqua calda scorreva lungo i miei fianchi e solcava la mia schiena. Mi sfiorai con la mano mentre la mente andava a John, l’uomo di quella sera, e fui subito pervasa da un brivido caldo che mi fece sussultare dal piacere. Il mio corpo rispondeva bene agli stimoli del sesso, anche se ancora non ero riuscita a provare il vero piacere con un uomo. Io sola conoscevo bene me stessa al punto da prendermi cura del mio corpo proprio come meritava. Subito dopo mi sentii rilassata e distesa, soddisfatta nel corpo e nella mente per ciò che avevo appena fatto. Indossai il mio pigiama e m’infilai sotto le coperte. In televisione il talk show proseguiva con i suoi dialoghi, tra le forti grida dei litigiosi partecipanti e le risate del pubblico, mentre il presentatore tentava invano di riprendere il controllo di una situazione che sembrava ormai essergli sfuggita completamente di mano. Senza rendermene conto, in pochissimo tempo caddi in un sonno profondo.

CAPITOLO 4

Bastardo! Sei un lurido bastardo, si! Io ti ho donato il mio amore e te lo sei preso insieme al mio corpo. Tu ti sei preso tutto di me, anche la mia anima. E ora non hai la forza di accettarmi per quello che sono e che ti ho dato, ti nascondi dietro le scuse più ignobili e lo chiami “frutto del peccato”! Ti ho detto di scegliere, ma devi farlo adesso, non sono più disposta ad accettare più nulla e nessuno! Devi scegliere tra noi due, e che sia la tua scelta per sempre. Mi stai costringendo a odiarti, sei un vigliacco. Non meriti il mio amore e se non prendi una decisione, non lo avrai più! Vattene via, via! Libera i miei occhi e la mia vita dalla tua scomoda presenza, vattene via per sempre. Non ti voglio più vedere, mai più! Ho creduto in te e tu mi hai annientato, mi sono umiliata davanti alla mia famiglia, alla mia gente, per te. E tu in cambio hai calpestato quel poco di onore che ancora mi era rimasto e hai spazzato via le briciole di orgoglio di donna che ancora difendevo a denti stretti, dopo aver scelto di stare con te. Vai da lei allora! Vattene… Vai via subito! Sei morto per me, ora e per sempre! Lurido bastardo!

Nella notte spalancai gli occhi, ero madida di sudore. Sentivo il caldo avvolgermi completamente, in tutto il corpo. Guardai la sveglia, erano passate le tre di notte solo da pochi minuti. La televisione era rimasta accesa, stava trasmettendo un concerto rock degli anni ottanta. Nella stanza dominavano i bagliori di luce intermittente delle lampade psichedeliche, inquadrate dalle telecamere e rivolte al palco sul quale quei cantanti impazziti si stavano esibendo. La musica era interrotta ogni tanto da qualche sordo clacson delle auto che ancora passavano sulla strada, sotto l’hotel. Mi alzai e mi affacciai alla finestra per guardare fuori, oltre le tende. Non mi aspettavo un simile caos a quell’ora della notte, lo trovai molto strano, atipico per un giorno di mezza settimana in una via piuttosto periferica rispetto al centro città.

«Che assurda frenesia!», sussurrai a me stessa mentre chiudevo a fatica le tende oscuranti della finestra, che opponevano una certa resistenza allo scorrimento dei ganci sul binario. Ritornai nel mio letto per cercare di recuperare il sonno interrotto. Mi giravo continuamente su me stessa, come si gira la salsiccia di un hot dog sulla piastra incandescente per evitare che si bruci, da una parte all’altra, ma proprio non riuscivo a riaddormentarmi. Ero agitata, ma che cosa fosse a tenermi in quello stato proprio non riuscivo a capirlo.

«Cerca di dormire Kate, dannazione! Domani sarà una lunga e dura giornata!», mi rimproveravo ad alta voce, convinta che le parole avessero maggiore forza rispetto ai pensieri. E più lo facevo, più sentivo l’eccitazione per qualche cosa d’impalpabile crescere e farsi prepotentemente spazio nel mio corpo e nella mia mente, prendendosi gioco di me. Che cosa stava facendo John in quel momento? “Dormire” sarebbe stata la risposta più ovvia, ma anche la meno interessante. Forse stava pensando a me? O forse aveva una donna con lui nel suo letto in quel momento? Non mi aveva parlato di una sua famiglia, sapevo solo che si era separato. Oppure era un donnaiolo, un uomo alla ricerca di una donna nuova per ogni notte. Io forse figuravo come una sua possibile preda per quella sera, ma gli era andata male! Accennai un timido sorriso compiaciuto, ma subito capii che avevo torto.

«Domani vedremo come andranno le cose, ora dormi», mi rassicurai invitandomi a rilassarmi. Pian piano la morsa di calore soffocante aveva liberato il mio corpo, permettendo alla mia pelle di rinfrescarsi e al sudore di asciugarsi, fino a scomparire completamente. Mi sentivo più tranquilla, più rilassata. Pensare a quell’uomo, nel bene o nel male che fosse, mi portava serenità. E con questo pensiero ancorato nella mia mente e la sua immagine vividamente accesa davanti ai miei occhi, il mio corpo permise al sonno di venire a riprendermi, per poi rilasciarmi quando la luce naturale del giorno cominciò a filtrare attraverso le tende, rimaste solo semichiuse nella notte. Un raggio di sole, simile a una spada fatta di sola luce, ricopriva il pavimento della stanza, attraversandola completamente da un lato all’altro. Erano passate le sette del mattino da un bel po’ e dovevo ancora sistemarmi prima di scendere nella hall per la colazione, dove avrei rivisto John. Entrai in bagno e mi guardai allo specchio, ora libero dalle tracce di vapore formatesi la sera prima. I miei occhi erano gonfi, non avrei offerto una bella immagine della mia persona in quelle condizioni, me ne resi subito conto. Cercai di coprire quella deformità con il trucco ma il risultato alla fine fu solo parziale, davvero scarso. Non potevo farci nulla, come già accadutomi altre volte, il gonfiore sarebbe andato via da solo durante la giornata. Avevo una certa esperienza a riguardo. Ma perché proprio quel giorno, accidenti? John avrebbe riso di me, si sarebbe meravigliato dei miracoli che le luci ombrose della sera possono compiere sull’immagine di una donna imperfetta. Eppure la sera prima i miei occhi mi vedevano così bella! Trovai la soluzione, avrei proposto una generosa scollatura. Avrei usato le mie armi migliori per distogliere il suo sguardo dai miei occhi, per valorizzare qualcosa che fosse più attraente e immediato per lui! In fin dei conti era un uomo, doveva apprezzare le fattezze di una donna. Strinsi quindi i miei seni tra le mani per unirli. Davvero niente male Kate! Infilai una maglia di cotone elasticizzato, senza reggiseno, molto aderente e con una scollatura davvero generosa. Era l’unica che avevo, era di colore rosa. Mi precipitai in bagno per osservarmi e apportare gli eventuali opportuni ritocchi. “Sei perfetta Kate, sei davvero una bomba!” pensai, fiera di me e di possedere un corpo come quello. Io stessa non guardai più i miei occhi, passati ormai in secondo piano. Finii di vestirmi in fretta e dopo un ultimo attento esame davanti allo specchio mi sentivo pronta. Presa la chiave della stanza, mi catapultai in corridoio, diretta verso gli ascensori. La serratura di sicurezza sulla porta della stanza s’inserì automaticamente subito dopo la chiusura della porta alle mie spalle. L’ascensore impiegò qualche secondo prima di giungere al mio piano e quando si aprirono le porte, vi trovai dentro un uomo piuttosto brutto, maleodorante ed esageratamente grasso, quasi obeso. Esibiva un buffo riporto di capelli sulla testa quasi calva che, evidentemente, voleva ricoprire ad ogni costo. Se fossi stata al posto suo, avrei pensato a una parrucca. Aveva mantenuto lo sguardo maniaco ben fisso sul mio seno per tutto il tempo necessario a giungere nella hall. Funzionava, pensai, e dimenticai subito il senso di fastidio che quello sguardo insistente mi avrebbe provocato in una situazione diversa. Anzi, gli fui quasi grata di avermi fornito la prova che cercavo in merito all’efficacia di quel piccolo espediente che avevo architettato per apparire attraente agli occhi di John.

John era seduto nella hall, mi aspettava mentre sfogliava una delle riviste messe a disposizione di clienti e visitatori. Era elegante, come il giorno prima. Indossava una camicia azzurra con cravatta stretta, a strisce oro e nero. Sopra la camicia portava la giacca del giorno prima. I pantaloni formavano un completo con la giacca, mostravano una leggera gessatura che non avevo notato la sera precedente. Mi avvicinai a passo veloce mentre lui mi notava, seguendo con lo sguardo la mia camminata.

«Buongiorno John. Mi scuso per il ritardo, è tanto che aspetta?», chiesi imbarazzata. Mi era tornata improvvisamente paura che potesse notare il gonfiore sotto i miei occhi.

«Buongiorno Katherine. Attendo solo da pochi minuti. Ha trascorso una buona nottata? Qualche problema?».

«Tutto molto bene, grazie. Mi sono addormentata quasi subito ieri sera. Ero talmente stanca che non mi sono neppure ricordata di spegnere il televisore, si figuri. Ho dormito come una bambina per tutta la notte e stamattina mi sentivo completamente riposata», mentii, senza pudore.

«Molto bene. Strano però, i suoi occhi vorrebbero suggerirmi l’esatto contrario. Pensavo che avesse pianto. Mi fa piacere sapere che mi sbagliavo e che invece ha riposato bene».

“Dannazione!”, pensai. Il mio seno non aveva sortito alcun effetto su quell’uomo, possibile? Aveva subito notato gli occhi, gonfi come palle da tennis. Dovevo dire qualche cosa per tranquillizzarlo.

«I miei occhi? Oh John, non ci faccia caso. Sono sempre così il mattino appena alzata. Poi si sistemano da soli. Perché mai avrei dovuto piangere? Non ne ho motivo, non crede?», fu l’unica cosa che riuscii a inventarmi sul momento.

«Io questo non potevo saperlo. Sono davvero tanto felice che lei stia bene». Mi accorsi che stavo peggiorando le cose, sarebbe stato meglio spostare i nostri discorsi su altri argomenti.

«Andiamo a fare colazione? Io avrei un po’ di fame, e lei?»

«Si, andiamo. La prego», rispose, invitandomi con un braccio ad anticiparlo nel tragitto verso la sala della ristorazione. Pareva essere veramente un uomo galante. Era un uomo che io percepivo come “raro” attraverso i miei occhi e i miei sensi. Al ristorante era servita una colazione internazionale. C’erano tante di quelle cose da mangiare da poter sfamare un esercito intero quel giorno. John prese un caffè americano che macchiò leggermente con del latte freddo. Io mi gettai su qualche cosa di più sostanzioso: confetture varie con pane e burro, frutta fresca, bacon, salsicce e formaggi. Tutto ciò era accompagnato da abbondante succo d’arancia concentrato. John mi guardava sorpreso.

«Che cos’ha da guardarmi in quel modo?», chiesi mentre il calore divampava sul mio collo. Immaginavo il rossore che stava ricoprendo il mio viso in quel preciso momento. Esprimevo sempre inconsciamente le mie emozioni attraverso i riflessi incontrollabili del mio corpo. Non avevo nascosto molto della mia vita alle persone. Solo il mio segreto più grande non era mai andato oltre le mura di casa nostra, se non fosse stato per le diverse decine di strizzacervelli che avevano avuto modo di esercitare la loro scienza su di me, per pura scelta e desiderio di mia madre.

«Noto con grazia il suo apprezzamento per i piaceri e le delizie della tavola. E’ tipico per un italiano, lo sa?», mi rispose sorridendo. Si stava prendendo gioco di me, era evidente.

«Che cosa intende dire con questo? Ieri sera sono rimasta a digiuno, ho bevuto solo del caffè e poi sono andata a dormire. E’ logico, umano e fisico avere fame! E cosa c’entrano gli italiani in tutto questo?». Voleva la guerra? Ero pronta a combattere ad armi pari! La mia forchetta con un pezzo di salsiccia infilzato rimase per un bel po’ sospesa a mezz’aria, sorretta dalla mia mano che non sapeva più decidere se riportarla nel piatto o verso la bocca.

«Ieri sera, quando le chiesi se aveva già cenato, mi ha risposto che non era solita mangiare tanto prima di andare a letto. Ho preso atto delle sue parole e non mi sono permesso di insistere oltremodo per offrirle uno spuntino. Le chiedo scusa, forse avrei dovuto seguire di più il mio istinto. Riguardo agli italiani, ha presente quelle comitive che partono dalle grandi città per una vacanza fuori dalle loro mura domestiche, acquistando i pacchetti completi di vitto e di alloggio? Non lasciano cadere nemmeno una briciola di pane dalla loro tavola. Con la scusa di aver già pagato tutto, si abbuffano come porci e ingrassano al punto da non riconoscersi più al loro ritorno a casa».

Non potevo trattenere le risate mentre, nel frattempo, avevo ripreso a mangiare con gusto. Quell’uomo mi divertiva, mi sentivo bene con lui. Cominciai a pensare che forse avrei dovuto condividere con lui la mia situazione e l’obiettivo primario della mia visita. Tuttavia non avrei di certo preteso aiuto da parte sua. Così come, di certo, non l’avrei rifiutato qualora me l’avesse offerto di sua spontanea volontà.

«E lei cosa ne sa di come si comportano gli italiani? Non sono poi tutti uguali. Secondo me, caro John, lei ha in mente lo stereotipo dell’italiano zoticone e rumoroso, gran mangiatore di pizza e spaghetti, che suona il mandolino e che è pronto a fregare il prossimo alla prima svista. Dico bene?», lo stuzzicai per poi affondare il colpo di grazia, «Gli italiani poi sono grandi amatori, lo sa questo vero?». Scoppiai a ridere, mentre lui posava la sua tazza ormai vuota, mostrava uno sguardo severo.

«Che ne dice se procediamo al check-out e ci avviamo? La strada è lunga. Vedo che non ha con sé la sua valigia», rispose, piuttosto imbarazzato dalla mia ultima frecciata che, indubbiamente, doveva aver colto nel segno.

«Si John, gli italiani fanno l’amore davvero bene! Se lo ricordi questo, sempre. Vado a prendere la mia valigia, ci vediamo qui tra pochi minuti, se non incontrerò un italiano in ascensore», replicai strizzando l’occhio come farebbe una ragazzina impertinente contenta di fare un dispetto a un contendente.

«Katherine!», mi chiamò, «Dovrebbe indossare qualche cosa di più caldo, confortevole e appropriato prima di uscire. Nel Wallowa fa molto freddo, soprattutto in questi giorni, non vorrei che si ammalasse». Aveva vinto lui ancora una volta. Con la sua compostezza, con la sua serietà e gentilezza, era riuscito letteralmente a trainarmi lungo la sua strada. Ora ero io a seguirlo e lo facevo con piacere e con estrema gratitudine. Aveva pensato a me, perché io non mi ammalassi, a disprezzo delle battutacce da ragazza sboccata che avevo appena pronunciato e che, in un certo senso, dovevano averlo toccato profondamente. Dovevo riparare al mio errore. “Ma io ho fatto tutto questo per lei, John!”, fui in procinto di dire, ma mi trattenni giusto in tempo per evitarmi un’altra figuraccia, ne avevo già commesse abbastanza in una sola ora della giornata. Inoltre sapevo benissimo che l’avevo fatto principalmente per me, per nascondere un mio difetto, non c’era nessuna traccia di altruismo nel mio gesto. Con un cenno del capo confermai di aver accolto il suo suggerimento ed entrai in ascensore. John si era avvicinato e prima che le porte si richiudessero mi sorrise, mentre mi guardava con espressione rilassata e giocosa.

«Non vedo italiani nell’ascensore Katherine. Bene, allora può salire». Scoppiai a ridere e non riuscii a fermarmi se non prima di essere rientrata nella mia stanza.

Indossai il mio maglione di lana a collo alto, presi il bagaglio e tornai nella hall. John mi attendeva vicino alla porta dell’ascensore. Mi fermai lasciando la valigia per infilarmi il cappotto che portavo appeso al mio braccio, come sempre. John, senza dire nulla, prese la mia valigia e cominciò ad avviarsi, anticipandomi verso l’uscita dell’hotel.

«Aspetti, devo saldare in conto della camera».

«Già fatto, non si preoccupi. Possiamo andare, mi segua».

«Ma ne è sicuro John?».

«Mi chiede se son sicuro di aver pagato? Certo, la mia carta di credito è ancora calda», rispose sorridendomi.

«No. Intendo dire se è sicuro di quello che sta facendo. Sono una perfetta sconosciuta per lei, non pensa?».

«Non è vero! Ci siamo conosciuti ieri sera in aeroporto, abbiamo viaggiato insieme in macchina, abbiamo fatto colazione insieme questa mattina e poco ci mancava che non mi mostrasse completamente il suo seno con quella scollatura di poco fa. Ritiene ancora che lei ed io siamo dei perfetti sconosciuti?». Era disarmante nella sua semplicità espressiva, nella sua capacità di farmi sentire importante! Mi sentii talmente circuita che non riuscii a rispondere, se non in macchina, dopo essermi sistemata all’interno dell’abitacolo ancora freddo.

«Si, siamo sconosciuti. Non vede che ci rivolgiamo l’uno all’altra con un freddo “lei”?», gli dissi, sperando di spalancare le porte a una maggiore confidenza tra di noi. La mia speranza fu subito ripagata.

«Ben appunto, lo pensavo anch’io poco fa, mentre attendevo all’ascensore. Che ne direbbe di abbattere il muro e darci del “tu”?».

«Va bene, con piacere», risposi mentre provavo davvero piacere nel dirlo, nel liberarmi da una costrizione che tendeva a frenarmi anche troppo.

John mi guardava sempre dritto negli occhi quando mi parlava seriamente, come avevo potuto pensare di distrarlo con altri mezzi? Avevo l’impressione sempre più forte di conoscere davvero quell’uomo da molto tempo.

«L’auto è ancora fredda, ma tra poco si starà meglio. Ti dispiace se accendo il condizionatore d’aria per farla riscaldare prima?».

«Assolutamente no, vedi tu ciò che è meglio fare».

«Bene, noto che il gonfiore agli occhi sta effettivamente scomparendo. Ora sono tornati belli, come ieri sera».

Gli sorrisi in silenzio e rimasi a osservare i morbidi lineamenti del suo profilo mentre, attento, conduceva l’auto sulla strada principale. Restammo in silenzio per un po’, mentre la radio trasmetteva musica classica in continuazione. Attraversammo il centro della città, Portland era già viva a quell’ora del mattino, le sue strade e i marciapiedi erano riempiti di gente che camminava a passo veloce, diretta chissà dove, chissà perché. Attraversammo il ponte sul fiume Willamette, era così bello con la neve, assumeva un fascino particolare. Osservavo fuori dal finestrino e catturavo tutte le immagini di quel paesaggio, cercando di capire se nella mia vita passata fossi già stata in quella zona. No, per me erano completamente nuove e per questo, forse, le apprezzavo ancora di più.

«Allora, ti piace Portland?».

«E’ una bella città e con la neve sembra davvero magica. E’ molto più tranquilla di New York ma sembra non farsi mancare proprio nulla. Penso non abbia assolutamente nulla da invidiargli».

«E’ una città completa e misteriosa. E’ una bella città. Ma quando ci vivi da un po’ di tempo, tende a soffocarti, come accade con la maggior parte delle grandi metropoli. Il Wallowa invece è immerso nella natura. Vedrai che differenza, Kate! Ha il suo bel lago, chiuso tra le montagne, i colori dei fiori in primavera, le piante e il verde tutt’intorno. Splendido posto Kate!», mi rispose, «E’ un peccato che tu la possa vedere solo con la neve».

«Con la neve avrà comunque il suo fascino, non credi?», continuai. “E poi io l’ho già vista”, avrei voluto gridare. Ma riuscii a trattenermi.

Persi tra quelle parole giungemmo ai confini estremi della città, oltre i quali si apriva la sconfinata campagna. La temperatura nell’abitacolo dell’auto era divenuta davvero gradevole, decisi quindi di togliermi il cappotto che posai sui sedili posteriori. Mi sentivo più libera nei movimenti, più a mio agio, nonostante il collo alto del maglione che non ero abituata a portare e che, in parte, m’infastidiva. Mentre mi sporgevo per sistemare il cappotto, John si voltò per guardarmi. I nostri occhi s’incrociarono e in quel momento catturai tutta la bellezza e la profondità dei suoi, di quel colore verde che avevo già notato in aeroporto ma che solo in quel momento riuscivo ad apprezzare in tutta la sua intensità. Forse per via della mia pazzia, in quell’istante provai un forte desiderio di baciarlo. Ma si, perché non farlo? Siamo esseri umani in fondo, siamo fatti di carne e di ossa. Perché non concedersi ai piaceri della vita, giacché è così breve? Io amavo un uomo nella mia vita passata, lo so con certezza assoluta grazie a tutte le immagini preziose che conservo dentro di me. Perché in questa vita non ero ancora riuscita a incontrare la persona giusta, fino a quel momento? John non mi era indifferente e, forse, nemmeno io lo ero per lui. Stavo sbagliando tutto, forse? Stavo correndo troppo? Sarei caduta in un profondo baratro, come già successomi altre volte in passato? Mi stavo ponendo troppe domande alle quali non riuscivo a dare alcuna risposta. Risposi al suo sguardo con un cenno di sorriso. John ricambiò compiaciuto. C’era intesa tra noi e questo mi rendeva serena e, al momento, mi bastava.

CAPITOLO 5

Lungo i suoi bordi, la strada cedeva lo spazio a un’interminabile distesa di neve bianca, solo qua e là interrotta dalle impronte di passi dei bambini che giocavano nei campi ricoperti e pieni zeppi di pupazzi e di piccoli igloo. John era silenzioso e attento alla guida. Mi fece notare che c’erano diverse lastre di ghiaccio sulla carreggiata e per quel motivo, oltre alle evidenti condizioni di traffico lento, avremmo impiegato molto più tempo del previsto per giungere a destinazione. Probabilmente l’impiegata in aeroporto, che conosceva la zona, aveva ragione nell’indicarmi che ci sarebbero volute anche otto ore per completare il viaggio. Chiesi a John se non ci fossero altre strade che ci avrebbero permesso di anticipare anche solo di poco il nostro arrivo nel Wallowa.

«Kate, conosco questa strada a memoria ormai, tanto che potrei guidare anche a occhi chiusi. Purtroppo non abbiamo altra scelta. Potremmo uscire dall’autostrada e percorrere le strade di città e di campagna, ma ci allontaneremmo dalla strada principale per poi doverci ritornare necessariamente sopra. Inoltre non mi aspetto di trovare strade sgombre dalla neve e scorrevoli là fuori e il rischio di trovare ghiaccio aumenterebbe facendoci rallentare ulteriormente. Impiegheremmo ancora più tempo, quindi è meglio procedere così. Hai molta fretta di arrivare?».

«No, non ho fretta. Ho solo un bel po’ di cose da fare da quelle parti e vorrei iniziare quanto prima, senza perdere troppo tempo», risposi. Avrei dovuto parlargli di me nel dettaglio.

«Sono questioni davvero così importanti? Questioni di vita o di morte?», chiese sorridendo e voltandosi per guardarmi negli occhi e rilevare ogni mia eventuale bugia. Era la prima volta che lo faceva da quando eravamo in viaggio.

«Direi piuttosto “questioni di vita e di morte”, entrambe. E non è solamente un gioco di parole, credimi». Ero decisa ormai, avrei vuotato il sacco alla prossima domanda. Dopo la morte di mia madre promisi a me stessa di non rivelare più ad altri i miei pensieri, ma evidentemente non ero in grado di mantenere le promesse o i buoni propositi fatti. Accettai questo mio limite e decisi di aprirmi del tutto, un passo alla volta.

«Spiegati un po’ meglio, non riesco a seguirti nel tuo discorso», chiese, incuriosito dalla mia risposta. Sul suo volto notavo un’espressione diversa, cominciava a mostrare i primi segni di una crescente preoccupazione.

«Io lascerei correre il discorso», e girandomi verso di lui per guardarlo negli occhi, «mi considereresti una povera pazza altrimenti, se te lo raccontassi». Queste parole, però, non facevano altro che accrescere la sua già evidente curiosità.

«Stai fuggendo da qualcosa o da qualcuno?»

«No, al contrario. Sto andando a trovare qualcuno».

«Si tratta di un uomo? Scusami Kate, io non volevo intromettermi nelle tue questioni private».

«Nessun uomo, semmai una donna». Mi guardava divertito ma con insistenza. Capii che forse aveva inteso la cosa come riguardante la mia sfera sessuale più intima.

«Non credo tu abbia realmente capito quello che intendevo dire, John», lo avvisai, «Non è una questione fisica o di sesso».

«Che cosa avrei dovuto capire quindi? Spiegati meglio se puoi».

«Non sono omosessuale».

«Io non ho mai dubitato sai?»

«Ne sei sicuro? Hai fatto una faccia strana pochi istanti fa».

«Con la scollatura che mi mostravi questa mattina e con le tue storielle sulle prestazioni sessuali degli italiani mi stavi forse comunicando di essere omosessuale? Non sembrava per nulla! O forse io non sono stato in grado di capire», rispose con orgoglio. Mi divertiva quel dialogo, volevo stuzzicarlo ancora un po’ prima di parlargli della mia vita precedente.

«Non fare anche tu come quelli che si comportano da stupidi per non andare a fare la guerra, caro John!», esclamai. Mi rispose con un punto interrogativo stampato in viso, senza esprimere una parola, «Davvero tu non hai mai sentito parlare di quanto sono bravi gli italiani a letto? Non vorrei mai ferire il tuo orgoglio maschile ma credo che qualche interrogativo forse tu potresti anche portelo, o mi sbaglio?». Il volto di John ritornò assai serio, proprio come avvenne quel mattino stesso e forse anche di più. Ottenni la conferma che quello doveva essere per lui un argomento davvero delicato. Immediatamente capii, ascoltando la sua confessione.

«Mia moglie mi ha lasciato per un italiano. Tutto quanto accaduto tra di loro era cominciato come una pura storia di sesso, tanti anni prima che ci lasciassimo, poi trasformatasi in amore e concretatisi in una gravidanza. Si chiamava Antonio, era un ragazzo proveniente da Avellino, una città nel sud dell’Italia che avrai probabilmente sentito nominare». Annuii con la testa, intenta ad accompagnarlo durante la sua apertura verso di me. Anche lui, evidentemente, voleva espellere quel malessere che portava da tanto tempo nel suo cuore.

«Lui era più giovane di mia moglie, una decina di anni in meno».

«Ora tutto mi è più chiaro John. Come mai parli di lui al passato?», chiesi, ma con estrema delicatezza.

«Il loro rapporto era diventato burrascoso. Lui voleva tornare in Italia e portarla via con sé, mia moglie però non voleva. L’ha lasciata dopo aver saputo che aspettava un figlio da lui, solo pochi mesi dopo il concepimento».