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Sumalee. Storie Di Trakaul
Suonai il campanello e spinsi la porta. Rimasi sorpreso. Mi era sembrato di riconoscere la voce di Josele, che era un collega della mia azienda, un amico con cui avevo lavorato fianco a fianco per tre anni e che, alla fine andò ad occuparsi di un progetto negli Stati Uniti insieme ad un altro collega della banca. Fin dall'inizio eravamo andati d'accordo trovandoci molto bene insieme. Ero molto triste quando il progetto terminò e dovemmo separarci, ma avevamo continuato a mantenere contatti regolari e vederci ogni volta che lui tornava in Spagna.
Josele mi stava aspettando sulla porta dell'appartamento, come avevo sospettato. Non era cambiato affatto, con quei capelli cresciuti come un parrucchino, una brutta imitazione di Elvis Presley. Appoggiai la valigia e lo zaino per terra e lo abbracciai calorosamente.
«Josele? Sei tu?»
«Sorpresa! Entra e ti racconteremo. Guarda chi c'è qui», disse, aprendo completamente la porta.
«Dámaso!»
Entrai di corsa e lo abbracciai sollevandolo in aria. Dámaso era un altro dei colleghi che l'azienda aveva inviato con Josele negli Stati Uniti. Un po' bizzarro, ma un volto familiare, dopo tutto. La giornata non poteva iniziare meglio con questi due personaggi come coinquilini.
«Ma cosa ci fate qui? Non eravate negli Stati Uniti?»
«Sì, c'eravamo», rispose Dámaso «il progetto è terminato e siamo stati entrambi inviati qui di recente. Valentin ci ha detto che saresti venuto, ma non abbiamo voluto dirti niente per farti una sorpresa.»
«E che sorpresa ragazzi! Non potrebbe davvero essere migliore. Di nuovo insieme e questa volta condividendo un appartamento. Singapore preparati!»
«Sì!», urlò Josele con entusiasmo. «Possiamo tornare a fare sport insieme. Dámaso ed io andiamo a correre due volte a settimana e giochiamo in un campionato di basket per espatriati. Ti abbiamo già iscritto alla squadra.»
«Fantastico», risposi «almeno non diventerò grasso come un bue e mi aiuterà a conoscere persone nuove. Bene, raccontatemi com'è la vita qui.»
«Ci sono anche Diego e Tere», puntualizzò Dámaso.
«Anche loro! È fantastico, l'intera banda di nuovo insieme. Non pensavo che avremmo lavorato di nuovo insieme sullo stesso progetto.»
«Sì, e sappiamo qualcosa che tu non sai ...»
«Suppongo che anche Diego faccia parte della squadra di basket.»
«Sì, è iscritto, ma non è questo.»
«Allora cosa?»
«Escono insieme.»
«Che stai dicendo?! Tere e Diego? Da quando?»
«Beh, non lo sappiamo perché non ce l'hanno detto subito, ma sicuramente prima di venire qui, quindi almeno due mesi.»
«Non l'avrei mai sospettato; anche se, in effetti, se ci pensi, sono molto compatibili per via del loro modo di essere. Sono felice per loro! E quindi, adesso?»
Josele e Dámaso mi mostrarono prima la casa. Aveva tre camere da letto e due bagni. Io dovevo condividere un bagno con Josele. A quanto pare, Dámaso aveva insistito per averne uno solo per sé e a Josele non importava. Il soggiorno e la cucina erano spaziosi. La casa aveva internet con wi-fi e una terrazza chiusa da cui si vedeva la piscina. Mi avevano anche detto che il complesso aveva guardie di sicurezza 24 ore su 24. L'uomo che mi aveva intercettato in giardino era di origine cinese e si chiamava Shao Nan ed era l'addetto alla manutenzione durante il giorno. Di notte c'era un malese di nome Datuk Musa. C'erano anche una palestra, una sauna e un campo da squash al piano terra e un giardino con diversi barbecue che avevo visto poco fa in modo da poter fare un picnic senza dover lasciare l'edificio. Sebbene ci fosse un grande televisore in soggiorno, ogni stanza ne aveva uno più piccolo, così come l'aria condizionata, un tavolo da lavoro con una sedia e un grande armadio per i vestiti. Non so se il resto degli abitanti del Paese avesse case uguali a questa, ma il tenore di vita qui sembrava incredibile. Avevamo due centri commerciali a venti minuti a piedi; con tutti i tipi di ristoranti, alimentari e negozi di abbigliamento, banche per fare affari o luoghi per divertirsi. Dai, la nostra posizione era perfetta.
Poi mi diedero alcune informazioni utili sui mezzi di trasporto in città. La metropolitana si chiamava MRT e c'erano quattro linee che attraversavano Singapore da nord a sud e da est a ovest. C'erano anche autobus e l'uso del taxi era molto frequente, dato che era abbastanza economico. La compagnia aveva acquistato per me una carta di trasporto misto che era utile sia per la MRT che per gli autobus. Gli uffici della nostra azienda erano vicino alla foce del fiume Singapore e ad un grande parco urbano chiamato Fort Canning Park. I miei colleghi usavano l'autobus per andare al lavoro. Avevamo una linea diretta e in meno di quaranta minuti arrivavano in ufficio.
Le ore di lavoro erano variabili, come ovunque. A Singapore era normale lavorare quarantaquattro ore alla settimana e avere quattordici giorni di ferie, anche se fortunatamente avevamo mantenuto le ferie dalla Spagna. A Singapore avevano una cultura del lavoro completamente diversa rispetto alla Spagna. Non credevo che in Spagna fossimo in grado di stabilire una settimana lavorativa di quarantaquattro ore e solo quindici giorni di ferie.
Josele mi diede una borsa con dentro una scatola.
«Questo cos'è?»
«Un piccolo regalo dell'azienda. È il tuo cellulare aziendale per Singapore. Dentro ci sono il telefono, la SIM card e le istruzioni per connetterti con tutte le applicazioni dell'azienda, anche se, in realtà, l'unica utile è l’e-mail. Lunedì al lavoro ti daranno il tuo laptop.»
«Okay, grazie mille. Mi spiegherai la questione delle tariffe e delle chiamate verso la Spagna. E per mangiare? Come vi organizzate? Con menù fisso? In ristoranti come in Spagna?»
«Beh, ci sono molte opzioni», rispose Josele. «È molto raro trovare persone che mangiano nei ristoranti perché sono molto costosi. La consuetudine è mangiare nella mensa della palazzina degli uffici, negli hawker centers, che sono gruppi di cucine con un piccolo bancone che condividono un'area abilitata per mangiare, nei coffee shops, che sono come gli hawkers, ma più cari e belli ...»
«E con l'aria condizionata!», Dámaso lo interruppe. «È dove, di regola, mangiamo noi.»
«Sì, sì, e con l'aria condizionata», continuò Josele. «È che Dámaso soffre molto il caldo e l'umidità. In ognuno di questi posti, puoi sia mangiare che comprare cibo da asporto. Dipende da ognuno e se c'è spazio per sedersi, perché a volte non c'è posto a causa della grande quantità di persone all'interno. Anche i fast food come Burger King, McDonald's o altre catene di ristoranti asiatici che non esistono in Spagna sono abbastanza pieni. Ci sono persone che si portano il pranzo al sacco ma è molto raro vedere degli occidentali. Le persone dal Bangladesh o dalle Filippine tendono a portarselo perché a loro piace mangiare cose tradizionali del loro Paese e se le cucinano da soli ...»
«Bene, bene», lo interruppi ridendo. «Ti ho solo chiesto dove mangi di solito, non di farmi uno studio sulla società di Singapore e sul suo stile alimentare. Che pezza mi hai attaccato! Ho avuto il tempo di sistemare il telefono e renderlo operativo. Aspettate un attimo, chiamo mia madre.»
«Salutala da parte nostra!», esclamarono entrambi all'unisono.
La conoscevano da quando lavoravamo insieme a Madrid, da un giorno in cui erano venuti a pranzo a casa mia. Mia madre era un'ottima cuoca, si era appassionata al cibo spagnolo e amava avere ospiti. Aveva avuto una giovinezza tempestosa, per così dire, ed era felicissima di accogliere nuovi amici che, già a prima vista, sembravano brave persone; niente a che vedere con le amicizie poco raccomandabili della mia adolescenza. Approfittai del telefono aziendale per chiamarla e dirle che mi ero già sistemato e che ero tornato a vivere con i miei amici. Era molto felice di sapere che non ero solo e che avevo già incontrato delle persone. Mi mandò tanti baci per entrambi. Le dissi che l'avrei chiamata per parlare con più calma tra qualche giorno. Quando riattaccai continuai a fare domande su ciò che mi interessava sapere del posto.
«E per divertirsi, cosa si fa da queste parti? Non ho bisogno che tu mi dica tutto quello che c'è da sapere sulla città oggi stesso, eh, Josele? Dovremo anche divertirci un po', qualcosa di particolare?»
«Molte cose», rispose Dámaso. «A Singapore non ti annoierai, questo è certo. Ci sono tutti i tipi di divertimenti: da incredibili simulatori di volo, corse di cavalli, casinò, parchi di divertimento, sentieri escursionistici, musei, molti centri commerciali e, naturalmente, centinaia di pub e club per uscire e incontrare persone, che tu ne hai bisogno, soprattutto qualche ragazza dopo la carognata che ti ha fatto Cristina.» Il mio viso mostrava quanto fossi d'accordo con quest'ultima frase. Volevo tornare ai miei tempi folli, in cui la cosa importante era finire a letto con una ragazza, non importa quale. «Vicino a casa nostra, dall'altra parte del parco, c'è una delle principali zone di festa. Intorno ad una strada chiamata Mohamed Sultan Road che è piena di locali e discoteche. Venti minuti a piedi da qui. E naturalmente c'è anche il golf dall'altra parte di Marina Bay!»
«Mi sembrava strano che tu non tirassi fuori l'argomento del golf. Sicuramente hai scoperto prima come diventare un socio del campo da golf che hanno qui intorno che dove comprare il pane la mattina. E se hanno lettini abbronzanti a raggi uva, comunque, è perfetto, giusto?» Mi misi a ridere.
«Hai idea di come ci si sente a colpire un ace? Colpire una palla con un solo colpo di partenza? Nemmeno io, ma continuo a provare.»
«Come lo conosci bene, David», commentò Josele tra le risate. «Appena è arrivato, ha chiesto al tassista la strada per venire qui dall'aeroporto. E una volta all'anno hanno gare di Formula 1, ovviamente. Penso che sia verso settembre e ci hanno detto che è incredibile, perché corrono per la città di notte; quindi, se siamo da queste parti dobbiamo andare, anche se non ti piacciono molto le corse, perché anche solo l'atmosfera lo merita.»
«Ma da quanto siete qui? Avete avuto il tempo per fare tutte queste cose?»
«No, amico», disse Josele con un sorriso. «Le informazioni sui bar, sì, naturalmente; ma la maggior parte delle cose ci sono state raccontate dai colleghi che sono qui da più tempo. Ora che sei arrivato tu, ci muoveremo sicuramente di più.»
«Amico, speravo di poter navigare un po' anch'io. Soprattutto se in buona compagnia.»
«Intendi noi o una ragazza carina?»
Tutti e tre ridemmo di gusto. Era chiaro che durante questo periodo che erano stati negli Stati Uniti, non avevamo perso la complicità che avevamo sempre avuto nei nostri progetti insieme in Spagna. Soprattutto quella che avevo con Josele.
I bei tempi si stavano avvicinando.
Singapore 3
Il giorno dopo uscimmo insieme per una passeggiata per la città. Volevo davvero vedere che atmosfera si respirava in questo nuovo Paese.
Siccome volevo sentirmi utile, presi i sacchi della spazzatura per buttarli via, ma Josele mi intercettò all'ingresso di casa.
«Ma dove vai con la spazzatura?»
«A buttarla via. Ho visto un cassonetto là fuori.»
«Santo cielo, dobbiamo spiegarti tutto. Qui ci sono impianti di trattamento dei rifiuti in ogni blocco. Butti la spazzatura nei condotti della cucina sotto il microonde e andrà nel posto giusto. Come la spazzatura pneumatica in Spagna.»
«Grandioso ... e gli appartamenti al piano terra?»
«La lasciano davanti alla porta d'ingresso del servizio e la ritira il personale delle pulizie. Non si porta molto spesso la spazzatura nel cassonetto.»
«E viene riciclata?»
«Ci sono contenitori colorati per riciclare se vuoi, ma quasi nessuno lo fa.»
«Capito. Tutta la spazzatura nel condotto della cucina.»
Buttai via i due sacchetti e uscimmo in strada. Iniziammo facendo un giro per il nostro quartiere, Tanglin. I singaporiani che vedevo per strada mi sembravano per lo più di origine orientale, cinesi, soprattutto, anche se c'erano anche molte persone di aspetto indiano e parecchie che non riuscivo a localizzare
«Sono di origine malese», chiarì Josele. «Qui sono persone più tranquille e chiuse rispetto agli europei. Sono anche molto severi con le leggi. Ci sono infiniti divieti. Alcuni possono essere scioccanti per noi e, se non li rispetti, vieni punito senza esitazione. Tutti imparano presto, con le buone o con le cattive, ad essere rispettosi.»
«Questa cosa dell'ordine mi piace.»
«Beh, lo sappiamo. Quadrato come sei ...»
È vero che lo ero adesso, ma non ero sempre stato così. (Capisco che sia stato il contrario. Che prima fosse quadrato e ora no)
Andammo a destra, lasciandoci dietro un passaggio pedonale ricoperto di piante piene di fiori viola. Poco dopo raggiungemmo una stazione della metropolitana. Cambiò il tipo di costruzione e sul nostro marciapiede comparvero case unifamiliari, come se si trattasse di una zona di villette bifamiliari, ma ognuna diversa dalla precedente, sia nei materiali che nel design. Un po' più avanti c'era un incrocio con un'altra strada importante chiamata Bukit Timah che correva parallela ad un ruscello e con un ponte sopraelevato.
«A sinistra c'è il centro commerciale di cui ti abbiamo parlato, il Coronation Shopping Plaza», indicò Josele. «A destra i giardini botanici.»
«Andiamo a destra allora, ci sarà tempo per vedere i negozi», risposi.
Proseguimmo fino a raggiungere l'ingresso principale del parco botanico o, almeno, uno degli ingressi. Nessuno sapeva quanti fossero. Mi avvicinai per curiosità per leggere le informazioni per entrare. Era aperto dalle cinque del mattino a mezzanotte tutti i giorni dell'anno! Inoltre, era gratuito a meno che tu non volessi vedere la parte delle orchidee. Questo sì che era davvero un buon servizio di assistenza clienti.
«Perché non entriamo qui?», proposi cercando di convincere Josele e Dámaso ad entrare per dare un'occhiata.
«Ci sarà tempo per vedere le cose in modo più approfondito. Per il primo giorno, è meglio n giro più generico. Inoltre, Josele lo conosce già», affermò Dámaso.
«Sei venuto a vederlo?»
«Fermati, bestia», rispose subito Josele. «Non devi farti un'idea sbagliata. I fiori mi potrebbero piacere per scattare foto fantastiche, ma poco altro. Sono venuto perché mi sono messo in contatto con una donna giapponese che era molto bella e ho pensato che portandola qui avrei fatto colpo. E, in effetti, è stato così.» Ci fece l'occhiolino e ci venne da ridere.
La verità è che avevano tutta la ragione del mondo, c'era tempo per vedere tutto, quindi cedetti senza lamentarmi molto.
«Guarda!», gridò Dámaso. «L'autobus sta arrivando, potremmo andare a vedere Little India, il quartiere indiano della città.»
Josele ed io pensammo che fosse una buona idea e trenta minuti più tardi stavamo scendendo dall'autobus in un quartiere completamente diverso. Lì la distribuzione demografica era completamente diversa, con la maggioranza di indiani (o bengalesi, perché la verità è che non ero in grado di distinguere gli uni dagli altri). La prima cosa che attirò la mia attenzione furono le centinaia di indiani seduti per terra in un parco, in piccoli gruppi, a chiacchierare tra loro. Secondo quanto mi raccontarono i miei amici, lo facevano ogni domenica. Era come il loro punto d'incontro per vedersi e raccontarsi cosa era successo durante la settimana. Naturalmente, non si vedeva nemmeno una donna. Solo uomini. Curioso. Tradizione? Maschilismo? Le donne si incontravano altrove? Continuammo a camminare e ci trovammo davanti ad una chiesa, la Foochow Methodist Church come si leggeva su un cartello all'ingresso, che mi sorprese essendo nell'area indiana, dove ci si aspetta di vedere i templi indù. Questo dimostrava l'unicità di questo posto. Vedemmo anche dei ristoranti, questo sì, tipici indiani e, alla fine, arrivammo al Mustafá Center. Era un centro commerciale abbastanza grande aperto 24 ore al giorno. Il marciapiede opposto era fiancheggiato da case a due piani che avevano per lo più ristoranti, gioiellerie e accademie di hindi. C'era anche un tempio chiamato Arya Samaj. Questo sembrava indù, ma non saprei dirlo con certezza. All'ingresso c'erano i manifesti di due uomini: uno barbuto dall'aria bonaria e l'altro con un turbante e un'aureola intorno come se fosse un santo. Ad entrambe le estremità della strada si vedevano sullo sfondo i grattacieli della città, che contrastavano con questa zona di case basse. Tutto era molto diverso da quello che conoscevo.
Josele, che era sempre stato più curioso delle cose ed era anche appassionato di fotografia ed era sempre alla ricerca di location uniche per dare sfogo alla sua vocazione, mi spiegò che queste case si chiamavano shop houses, case-botteghe in spagnolo. Erano vecchi edifici con il piano superiore per la residenza e il piano inferiore per l'attività di famiglia, solitamente laboratori, ristoranti o negozi. Apparentemente erano molto apprezzati, non solo per il loro valore storico o per la loro bellezza, ma anche per la posizione privilegiata che avevano. Venivano affittati da tremilacinquecento a quasi ventimila dollari al mese, a seconda della loro ubicazione e condizione, e il prezzo di vendita si misurava in diversi milioni di dollari di Singapore. Una fortuna.
Entrammo nel centro commerciale per vedere che tipo di negozi c'erano. Si estendeva su due isolati e aveva una passerella di vetro al primo piano sopra la strada che collegava i due blocchi di edifici. All'interno c'erano negozi di ogni genere: supermercato, farmacia, cosmetici, abbigliamento sportivo, elettronica, posta e gioiellerie. Avevano anche un servizio di gestione dei visti per indiani e malesi e uno sportello di cambio valuta. Un euro equivaleva a quasi un dollaro e mezzo di Singapore. Avevo ottenuto un cambio leggermente migliore in Spagna.
All'ora di pranzo, dato che non c'era altra possibilità, mangiammo in uno dei tanti ristoranti indiani della zona. Uno che avrebbe dovuto specializzarsi nel cibo dell'India settentrionale. Come se potessi distinguerla da quella del sud! Seguendo il consiglio di Josele e Dámaso, ordinammo diversi piatti da condividere. Dagli antipasti di Aloo Gobi, che erano patate speziate con cavolfiore, e Chaat, un tipo di gnocchi molto croccanti con diversi ripieni molto piccanti. Poi dividemmo il Chanamasala, che in apparenza sembrava un cocido come quello che facevamo a Madrid, ma con le spezie aveva un sapore completamente diverso, un riso con lenticchie chiamato Khichdi e pollo Tandori, un pollo arrosto con yogurt e spezie che gli davano una tonalità rosso brillante. Il tutto accompagnato da un pane chiamato Kulcha e per dessert dei petali di rosa con zucchero chiamati Gulqand. Molti nomi esotici e cibi a volte eccessivamente piccanti. Se consumato solo saltuariamente, mi sembrava un pasto curioso, ma mangiandolo ogni giorno mi sarei stufato di così tante spezie. Inoltre, non ero proprio sicuro che il mio stomaco sarebbe stato in grado di sopportare questo fatto essendo abituato a un tipo di cibo completamente diverso. Quello di cui era sicuro era che non avrei ricordato nessuno dei nomi dei piatti la prossima volta.
Chiesi del cibo tipico di Singapore e mi dissero che era piccante e anche molto speziato, ma di non preoccuparmi perché c'erano tutti i tipi di ristoranti tra cui scegliere. Mi piaceva il piccante, ma ogni tanto e non troppo. Avevo un amico a cui piaceva il cibo che brucia, ma mi sembrava che con il bruciore in bocca non si potesse davvero assaporare il sapore del cibo. Comunque, c'era anche molta influenza cinese nel loro cibo e questa mi piaceva di più. Dovevo assaggiarlo al più presto.
Dopo pranzo tornammo a casa nostra. Dovevo finire di mettere tutte le mie cose nella stanza e volevo riposarmi. Non sapevo se fosse a causa del jet lag o per quale motivo, ma ero distrutto. In ogni caso avevo ricevuto troppe informazioni da quando ero arrivato in città e volevo davvero un po' di tranquillità e anche iniziare a lavorare il giorno dopo per abituarmi un po' alla routine.
Passammo il resto del pomeriggio a casa, guardando un telegiornale in inglese alla TV e chiacchierando delle cose che avremmo fatto nelle prossime settimane.
Cenammo alla fine della giornata con un po' di quello che avevano in frigo e andai a dormire presto. Il giorno dopo iniziava la mia nuova avventura lavorativa.
Thailandia 13
I pensieri sulla mia permanenza a Singapore furono interrotti quando sentii qualcuno che mi osservava. Interruppi la serie di pugni che stavo facendo e guardai verso la porta della cella. C'era un uomo di nome Channarong che mi osservava con curiosità. Lo conoscevo per aver sentito altri prigionieri parlare di lui, sempre con rispetto. Il suo nome, mi era stato detto, significava qualcosa come "lotta per vincere", che era proprio quello per cui mi stavo preparando. Non era molto chiaro perché la gente lo tenesse in così grande considerazione. Non sapevo se fosse un membro della mafia, un famoso lottatore o il figlio di un ricco uomo d'affari che poteva pagare qualcuno per ucciderti se disturbavi la sua prole. Il fatto è che mi stava osservando in silenzio da non so quanto tempo. Cercai di far finta di niente allungando le braccia e facendo dei movimenti stupidi, cercando di imitare quello che nella mia testa sarebbe stato il tai chi. Ero sicuro che fosse tardi e che per Channarong sarebbe stato chiaro che mi stavo allenando nelle arti marziali. Doveva essere molto stupido per credere che quello che stavo facendo fosse Tai Chi.
Mi sentivo ridicolo nel cercare di ingannarlo, così mi fermai e lo fissai senza dire niente. Channarong fissò i suoi occhi nei miei e mi scrutò attentamente. Il suo viso era completamente inespressivo. Era impossibile per me sapere cosa stesse pensando. Dopo pochi istanti, che sembrarono ore, fece qualche passo e si avvicinò a me. Istintivamente arretrai e alzai le braccia sulla difensiva. Ero abituato a tutti quelli che mi si avvicinavano per picchiarmi, anche se questa volta erano troppe botte di fila, dato che l'ultima batosta mi era stata data meno di un'ora prima.
Channarong si avvicinò finché non fu a soli venti centimetri da me e mi guardò con curiosità. Alzò la mano ed io sussultai, aspettando di ricevere il primo colpo, ma invece quello che fece fu afferrare il mio braccio e allungarlo imitando un pugno.
«Non così». mi disse in un inglese stentato mentre scuoteva la testa più e più volte. «Non così. No, no, no.»
Mi prese il braccio e lo allungò di nuovo, questa volta con molta più forza. Costringendomi a torcermi sul fianco per non cadere.
«Muovi i fianchi, colpisci i fianchi. Muovi i fianchi, colpisci i fianchi. Sai come chiamano questa prigione? La Grande Tigre perché si dice che "caccia e mangia". Vuoi essere una preda o un cacciatore?»
Ripeté questa frase come se fosse un mantra, più e più volte, mentre mi muoveva il braccio e mi dava dei colpi alla vita. Stava correggendo il mio movimento! Non solo non voleva colpirmi, ma mi stava insegnando a colpire correttamente. Mi lasciò il braccio e con un gesto della mano mi incoraggiò a continuare a provare. Lanciai una nuova serie di pugni cambiando braccio e usando i miei fianchi nei pugni mentre Channarong continuava a correggere i miei movimenti.
«Muay Thai decima lezione», mi disse molto seriamente dopo un po' di tempo, «allenati ed esercitati regolarmente. Tu sii costante, io osservo. Molto bene. Muay Thai è essere dei guerrieri con otto braccia. Pugni, gomiti, ginocchia e piedi. Allena tutto, cerca l'equilibrio.»
Quindi mi aveva guardato allenarmi senza che me ne rendessi conto. Era chiaro che non lo stava nascondendo così bene come pensava. Un momento! Aveva detto la decima lezione? E le nove precedenti? Non importa, eseguii un'altra serie di pugni concentrandomi sul rendere tutto perfetto, come mi aveva insegnato, ponendo tutta la mia attenzione su ogni dettaglio del movimento, cercando di non lasciarmi influenzare dal dolore del mio corpo. Mi voltai soddisfatto per vedere cosa ne pensava, ma Channarong se n'era già andato. Scomparso nello stesso modo in cui era apparso. Silenziosamente e senza preavviso. Restai del tutto sconcertato. Perché mi aveva aiutato? Perché se n'è andato senza avermi dato il tempo di ringraziarlo? Non avevo risposte e nessuna possibilità di ottenerle in quel momento; quindi, feci quello che ci si aspettava da una persona pratica come me. Continuai ad allenare i miei pugni, sì, aiutandomi con i fianchi a colpire con più forza. Cercando di superare il dolore che ogni movimento mi provocava nelle parti del corpo colpite dal pestaggio.