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“Strano. Non l’ho mai vista fare la regina del dramma.” L’uomo sorrise vedendo lo sguardo incredulo di Adara. “Almeno non più di quattro volte il giorno.”
“Non mi aspetterei che la mia studentessa modello trascurasse di tormentare la gente anche fuori dall’aula.” Adara appoggiò la testa all’indietro. “È troppo intelligente per il suo stesso bene, e, o ha una capacità naturale di manipolare le persone o gliel’ha insegnata qualcuno con una competenza straordinaria.” Adara rivolse uno sguardo tagliente verso di lui, come per accusarlo.
“Io no.” Garret si mise una mano sul cuore. “La mia influenza non è altro che buona, pura e gentile. Ha anche menzionato i Peppermint Patties che tieni nell’ultimo cassetto.”
La bocca di lei si spalancò per la sorpresa. “La piccola fetente. Tengo quel cassetto chiuso a chiave.”
“Ha il talento naturale degli Ambrose. Le serrature non ci tengono fuori a lungo, non importa il tipo.” Non si preoccupò di dirle che il catenaccio che lei teneva sul cuore non lo avrebbe tenuto fuori. Lo avrebbe scoperto abbastanza presto.
“Dove mi stai portando?” Adara guardò fuori dal finestrino nell’oscurità. I lampioni erano diminuiti fino a che solo i fari rompevano la notte. “Sarei felice di riempirmi la bocca e adempiere quest’obbligo con un corn dog del minimarket che abbiamo superato un chilometro fa”.
“Ti pentiresti di quel corn dog durante la tua corsa mattutina.” Garret annuì, felice di condividere la saggezza acquisita attraverso l’esperienza personale. “Fidati di me su questo.”
Le labbra di Adara si contrassero in un lieve sorriso.
Forse l’espressione era intesa come condiscendente o maliziosa, ma lui la prese come un incoraggiamento. Qualsiasi cosa anche solo vicina a un sorriso da parte di lei, se la sarebbe tenuta stretta al cuore. “Ho vinto la scommessa, quindi sono io che devo scegliere il luogo.”
Adara sollevò gli occhi al cielo ma la tensione tra i due non tornò.
Dopo qualche minuto arrivarono a destinazione, e Garret parcheggiò nella prima fila del lotto del centro scientifico, vicino alla porta d’ingresso.
Quando il motore tacque, Adara si chinò in avanti, quasi premendo il viso contro il vetro. “Sono abbastanza sicura che la caffetteria del centro scientifico sia chiusa per la notte. Bene. Possiamo tornare indietro per il corn dog.”
Garret fece tintinnare una chiave, aggrottando le sopracciglia. “È tutto chiuso, tranne che per noi.”
Adara sembrò veramente impressionata. “Hai rubato la chiave di proprietà dell’università? Hai imparato da Tatum?”
“Non rubato... manipolato. C’è una grande differenza.” Garret scese dalla macchina e si affrettò a raggiungere lo sportello dalla parte di lei, troppo lentamente. I muscoli delle gambe gli bruciavano ancora per il suo tentativo di jogging mattutino nell’inferno ghiacciato. Adara aveva già chiuso lo sportello e, quando lui la raggiunse, stava con un fianco appoggiato all’auto e teneva lo sguardo rivolto verso il centro scientifico. Senza l’agitazione degli studenti o della facoltà, il posto aveva l’aspetto inquietante e silenzioso di un cimitero.
“Se sei un serial killer che si nasconde dietro la maschera da musicista che scommette con le donne ai giochi di carnevale sperando di vincere per poterle trascinare di notte in centri scientifici deserti, luoghi perfetti per uccidere, sii sincero e dillo.”
“Un assassino sincero? Sembra legale.” Garret le fece cenno di seguirlo sul sentiero di cemento che conduceva sul retro, spalato per lo più senza neve.
Dopo un attimo di esitazione, Adara lo seguì.
Il pizzicore nelle sue spalle si attenuò. Non gli sarebbe piaciuto doverla trascinare con sé e confermare la teoria di lei. “E se fossi un musicista che commette semplicemente dei piccoli crimini?”
“Come le molestie?” Gli occhi di Adara scintillarono, mettendo in ombra la sua espressione seria.
“Più che altro attraversamento fuori dalle strisce pedonali, eccesso di velocità e, ogni tanto, aver fatto il bagno nudo.” Anche se aveva oltrepassato alcune linee semplicemente per portarla lì, non si era guadagnato lo status di stalker molesto. Lo stalking sfiorava il limite dell’ossessione egoistica, qualcosa che non avrebbe mai fatto. Ma se Adara avesse deciso di perseguitarlo, sarebbe stato una vittima volontaria.
“Il bagno nudo?” Lei lo guardò, abbastanza a lungo da dare l’impressione che lo stesse immaginando in acqua. Nudo.
Bene.
“Non hai vissuto veramente finché non ti sei ghiacciato i testicoli nel lago dei Quattro Cantoni in primavera.” Garret rabbrividì. “Quella era una scommessa che ho perso.”
“Oh, accidenti. Immagino che non vivrò mai quest’esperienza.” La bella bocca di Adara, la bocca cui lui non aveva smesso di pensare, si contorse. “Perché non ho i testicoli.”
“Esilarante.”
Si fermarono davanti alla solida porta di metallo che conduceva al planetario. Garret premette il codice dell’allarme, aspettò il bip e aprì la porta con la chiave che aveva scambiato per una futura esibizione al violino. C’era voluta più una negoziazione amichevole che una manipolazione con il direttore - il legame tra compagni di band della scuola media era eterno - ma Adara non aveva bisogno di saperlo. Inoltre, si sarebbe abbassato alla manipolazione, se necessario. Non gli dispiaceva infrangere qualche piccolo codice morale per una buona causa.
Garret le fece cenno di entrare e aspettò che lei oltrepassasse la soglia prima di seguirla. La porta si chiuse di scatto, inghiottendoli nel buio più totale.
“Avrei dovuto chiedere il tuo modus operandi.” La voce roca di Adara attraversò l’oscurità. “Usi un coltello, una pistola o un’ascia? Devo aspettarmi una sessione di tortura con parti del corpo tagliate ogni minuto?” Seguì uno schiocco di dita. “È per questo che mi hai dato quel biglietto con un numero sopra, vero? Ecco quante volte mi pugnalerai.”
Senza vedere, Garret seguì la voce di lei e il suo braccio percepì il calore di lei. Non si era reso conto che fosse così vicina, ma non aveva intenzione di allontanarsi. Si chinò, dove pensava potesse essere l’orecchio di Adara. I suoi capelli lisci gli solleticarono il mento. “Tatum ha ragione,” mormorò. “Hai una mente malata, Adara. Veramente morbosa. Ma se vuoi saperlo, preferisco una lima per unghie. Riduco le mie vittime, lentamente e inesorabilmente, finché non implorano la resa”.
Adara sbuffò, un rumore pericolosamente vicino a una risata. “Tatum ti ha detto che ho una mente malata?”
“Quando ti minacciano di morte con una lima per unghie, è questo che vuoi sapere?” Si arrese all’impulso di sfiorarle i capelli, una breve carezza. Forse lei avrebbe fatto finta di non accorgersene al buio o avrebbe pensato che lui l’avesse urtata. Era seta, morbida e liscia contro i suoi polpastrelli. Dei formicolii gli pulsavano lungo la spina dorsale, una scarica inebriante. Avrebbe voluto sentire anche i suoi capelli sulla bocca.
“Ci vuole una mente malata per conoscerne una.” La voce di lei si abbassò vellutata nel vuoto, accelerando l’elettricità che gli pompava nelle vene. “Comincio a pensare che sia una caratteristica della linea di sangue degli Ambrose.”
“Huh. E per tutto questo tempo ho pensato di essere un prodigio, non un genio pazzo.”
“Wow. Sei così sicuro di te?”
“Onesto. C’è una differenza.” Garret accese l’interruttore della luce.
Il planetario era stato allestito esattamente secondo le sue istruzioni. Lampade incandescenti circondavano l’intero pavimento della cupola, una luce appena sufficiente per vedere cosa ci fosse davanti. Un piccolo tavolo era stato sistemato al centro dell’auditorium, le candele al profumo di vaniglia donavano una delicata sfumatura nell’aria ma Adara non sembrò nemmeno notare quei dettagli. Il suo sguardo si sollevò immediatamente e il suo sussulto di meraviglia rese ogni secondo di preparazione utile. Se non avesse saputo cosa aspettarsi, avrebbe sussultato anche lui. Il cielo si estendeva sopra di loro, un cielo notturno limpido che mostrava innumerevoli stelle, nuvole vorticose tinte di rosa e viola, accentuate da uno sfondo di mezzanotte. Era lo spazio portato sulla Terra, solo per lei. In quel secondo, tutte le maschere di Adara caddero, lasciando solo una ragazza impressionata dalla natura, le ombre del suo dolore dimenticate.
Il petto di Garret si strinse, le meraviglie del planetario sparirono sotto la meraviglia di Adara. Ben-zonna, voleva vederla sempre così, felice, estasiata e libera. Peccato che lei non gli permettesse di usare la sua musica per metterle in faccia la stessa espressione. Un giorno. Un giorno, la meraviglia sarebbe stata solo una delle espressioni che lui le avrebbe ispirato. Lo scenario sarebbe stato pura magia con la musica, ma non voleva ancora mettere alla prova Adara in quell’area. Per lei, aveva scartato la colonna sonora di Star Wars che il regista aveva suggerito e si era accontentato del silenzio. Così com’era, non troppo male.
“Non voglio sapere cosa tu abbia escogitato per fare questo.” Adara era ancora rivolta verso le stelle, le rughe sul suo volto erano sparite. “Ne è valsa quasi la pena perdere al Lancio della carta igienica.”
Garret sorrise. “Quasi?”
“Confesso,” sussurrò lei. “Ne vale assolutamente la pena.”
Il corpo di Garret s’irrigidì in punti scomodi. Avrebbe scambiato il suo violino per sentirla parlare di lui con quella voce sexy e senza fiato. “C’è anche del cibo.” Il giovane aveva voglia di prenderle la mano, di stabilire un qualche tipo di contatto fisico. Invece, s’infilò le mani in tasca. “Meglio dei corn dog freddi e stantii.”
“Con questo scenario, non m’importa se si tratta di haggis e ostriche delle Montagne Rocciose.” La voce di Adara era ancora bassa, stupita.
“Questo è semplicemente sbagliato.” Forse avrebbe dovuto conservare le stelle per dopo, quando lei sembrava ansiosa di andare, qualcosa per convincerla a restare. Così com’era, non era sicuro di come avrebbe rivolto la sua attenzione su di lui. “Mangiamo. Puoi guardare le stelle tutta la notte, se è quello che vuoi.”
“Lo voglio.” Adara usò lo stesso tono affannato.
Garret si contorse immaginando lei che gli si rivolgeva in quel modo, con quella voce. Lo voleva anche lui e le stelle non ne facevano parte. Anche se avrebbero potuto. Più avanti, durante la loro relazione, una notte nel planetario da solo con Adara sarebbe stata astronomica: le stelle sopra la testa, lei tra le sue braccia, pelle contro pelle. Si grattò la mascella. Dato che Adara doveva ancora guardarlo di nuovo, aveva del lavoro da fare prima che ciò accadesse.
Delicatamente, le fece strada tenendole una mano sulla schiena esile. Le sue dita stese la abbracciarono per intero. Aveva bisogno di più cibo e meno corse. Le afferrò il gomito mentre lei inciampava in una delle sedie a sdraio per osservare le stelle sparse per il planetario. “Le stelle non vanno da nessuna parte, Adara. Se inciampi e ti fai male, dovrò portarti all’ospedale. Allora non ci saranno più stelle e ci sarò solo io per molto più tempo della cena.”
“Ottima osservazione. Sarebbe terribile.” Il fatto che la sua voce fosse ancora avvolgente e affannata ammorbidì qualsiasi insulto intenzionale. Lei oltrepassò il divano, interrompendo il lieve contatto con la mano di lui.
Raggiungendo il tavolo, Adara si girò improvvisamente e lo affrontò. A pochi centimetri di distanza, il profumo di lei scivolò lungo i suoi sensi, qualcosa di dolce e tropicale. Forse cocco. “Perché stai facendo questo? Non m’interessa avere una relazione e se dovessi uscire con qualcuno, non sceglierei mai un musicista.” Adara sollevò elegantemente un dito in aria, come se le fosse appena venuta in mente un’idea brillante. “Dovresti chiedere a Gia di uscire. Sareste perfetti insieme. Le piacciono i musicisti.”
“Gia non è il mio tipo.” Anche se Gia poteva essere attratta dai musicisti, Garret sospettava che le sue preferenze si fossero spostate verso i vestiti, le cravatte e le aule di tribunale, non che avesse intenzione di tirare fuori quel particolare argomento. Voleva concentrarsi su Adara, non sulla collisione di Ian e Gia che si profilava all’orizzonte. “Non devi avere paura di me e scappare dalle tue paure non le risolverà. Credimi, lo so. La maggior parte delle persone non si rende conto che avevo il terrore del palcoscenico. Le mie mani tremavano così tanto che riuscivo a malapena a tenere in mano il violino, figuriamoci a suonare, finché la mia insegnante, una novantenne ebrea che parlava a malapena l’inglese, mi diede questo consiglio.” Abbassando la voce, le si avvicinò di più. “Dai un nome alla tua paura. Possiedila e lei non ti possiederà.” Le fece l’occhiolino. “Yutzi. “
Gli occhi di Adara scintillarono e la sua bocca si contorse. “Idiota. La tua insegnante sapeva di cosa stava parlando. Tu, invece, non ne hai la minima idea. Io ho paura di te?” Sollevò il mento. “Non credo.”
“No?” Garret le scivolò più vicino, costringendola a inclinare il mento per reggere il suo sguardo. “Allora lasciami suonare il violino per te.”
“Non mi piace molto la musica.” Disse la giovane in un modo troppo disinvolto per essere creduta.
Garret inarcò un sopracciglio. “A tutti piace la musica di qualche tipo. In un modo o nell’altro riempie tutto il mondo. Gli uccelli, il vento tra gli alberi, il mare contro la riva, gli insetti, la pioggia... È ovunque, ineluttabile. Cercare di evitarlo è come cercare di impedire al tuo cuore di battere. Fa parte di te, anche quando lo neghi.”
“Hai mai sentito un gallo cantare all’una di notte?” Adara agitò le dita, sprezzante, impaziente. “Non la chiamerei musica.”
“Le galline potrebbero non essere d’accordo.” Garret si strofinò il labbro inferiore, il suo battito accelerò. La stava perdendo. Il cibo non l’avrebbe tentata e nemmeno le stelle l’avrebbero trattenuta lì se lui avesse fatto la mossa sbagliata. “E se promettessi di suonare solo canzoni che non hanno un significato personale? E se creassimo nuovi legami emotivi, tu, la musica ed io?” Schioccò le dita. “Indovina la canzone.”
Lei lo guardò come se avesse perso la testa. “Cosa?”
“Ti sto sfidando a una partita di Indovina la canzone. Se riesci a nominare le venticinque canzoni che suono con il mio violino, ti porto a casa, scommessa compiuta. Tre strike e sei fuori. Più velocemente le nomini, meno dovrai sopportarmi.”
“Hai portato il tuo violino?” La voce di Adara tremò sull’ultima parola, quel tanto affinché qualcuno che prestasse attenzione lo notasse.
Lui annuì, pronto a rincorrerla se fosse scappata.
“Hai fiducia in te stesso.” L’insieme teso delle sue spalle non si allentò.
“Speranzoso.” Garret infilò le mani nelle tasche posteriori. “C’è una grande differenza.”
Dopo un momento, gli occhi di lei s’illuminarono in segno di sfida e lui si rilassò. Che contraddizione, Adara. Se la solitudine era il suo obiettivo finale, non avrebbe rischiato accettando la scommessa di carnevale. Non l’avrebbe accompagnato mentre zoppicava lungo il sentiero di corsa. Non avrebbe risposto quando lui aveva suonato il campanello.
Sembrava che le sfide avessero eclissato la solitudine nella playlist di Adara Dumont.
“Controfferta.” Adara armeggiò con i bottoni del cappotto. “Dieci canzoni ma devono essere state rilasciate al pubblico e suonate alla radio, niente canzoni composte da te o da qualche altro artista obsoleto. Devono contenere parole... niente musica classica.”
“Artista obsoleto? Mi hai ferito.” Garret nascose il suo sorriso trionfante dietro una maschera di tranquillità. Almeno per quella sera, lei era sua. Adara non lo sapeva ancora e lui non voleva rovinare tutto dicendoglielo, ma non era possibile che lei conoscesse più canzoni di lui. “Sono famoso in Belgio - cercami su Google se hai il coraggio - e accetto le tue condizioni ma dieci sono troppo poche. Venti.”
“Undici.”
Garret incrociò le braccia. “Sono sceso di cinque e tu ne aggiungi una? Che razza di negoziatrice sei?”.
“Il tipo non disperato.”
“Determinata, non è la stessa cosa di disperata. Diciannove.”
Adara sollevò lo sguardo. “Bene. Quindici.”
Quindici, venti, il numero non aveva molta importanza. Quella era una scommessa che non poteva perdere. Garret abbassò il mento e sorrise lentamente. “Aggiudicato.”
Il sorriso di lei era ampio, bello e un po’ sornione, come se fosse stata lei a fregarlo. Garret avvertì una sensazione di calore irradiarsi nel suo petto, riempiendone ogni angolo. Anche se aveva fatto un errore con questa scommessa, non poteva pentirsene. Lei aveva sorriso e, per il momento, questo era tutto ciò che contava.
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