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Rachel e il suo cane, Hero, erano parecchi metri avanti a noi e apparentemente determinati a non perdersi la scena dell’inseguimento.
“Rachel!”, gridò mia sorella Kaitlin correndo verso la figlia di nove anni.
Raggiunsi Kaitlin proprio quando fermò la bambina, prendendola per lo zaino. Provai a trattenere Hero ma mi sfuggì e corse abbaiando verso i due uomini. Sparì sotto il furgone e dall’altra parte venne un colpo di pistola.
“Zio Saxon!” Rachel piangeva cercando di liberarsi dalla ferma presa della madre. “Hanno sparato al mio cagnolino.”
Hero tornò indietro a gran velocità e saltò in braccia a Rachel. Era incolume ma tremava dalla paura.
“Vado a metter fine a questa assurdità,” dissi. “Non è un posto in cui sparare.” Mia sorella o Rachel potevano esser colpite da un proiettile vagante.
“Saxon.” Kaitlin si guardò intorno al molo vuoto. “Andiamocene da qui.”
Allungai la mano, agitandola avanti e indietro, mentre andavo verso il furgone. “Sono solo in due.”
L'alba era a pochi minuti da quei moli, dove un incrocio di strade nella giungla si estendeva lungo un ampio squarcio di foresta scavata sulle rive del Rio Negro. Diciotto chilometri a valle, l'acqua fangosa del fiume si riversava nel verde intenso del vorticoso Rio delle Amazzoni. Il lontano centro di scambi di Manaus, situato nel profondo cuore del Sud America, si stava appena svegliando in quel mattino d’estate tropicale.
Mi girai di fianco per infilarmi, insieme allo zaino, tra davanti del furgone e una pila di casse. Dal furgone si sentivano dei ringhi ovattati. Il fondo del veicolo era coperto da un telo mimetico, per nascondere gli animali al suo interno.
Poco prima di giare attorno al furgone, sentii un tonfo. I due uomini erano sul bordo del molo, guardando verso l’acqua Uno di loro - Silveira, credo - aveva un revolver.
“Ti avevo detto di sparare a un piede,” disse l'altro uomo. Era calvo, con un anello di capelli marrone topo all’altezza delle orecchie. “Adesso dobbiamo raccontare di non averlo trovato.”
Quando guardò verso il suo compagno, potei vedere i suoi folti baffi neri. Silveira aveva una mascella pesante ombreggiata da una folta crescita di due giorni di baffi arruffati, e i suoi capelli unti pendevano in ciuffi. Era molto più alto dell’uomo calvo, e insieme sembravano una coppia di teppisti.
“Almeno Oxana non saprà quanto sei stupido,” disse Silveira. “Hai fatto scappare quella cosa, ho dovuto fermarla.”
Decisi di trattenere il mio coraggio come aveva fatto Hero, ma prima che potessi andar via un altro ringhio proveniente dall’interno del furgone attirò l'attenzione dei due uomini. Quando Silveira mi vide nascose velocemente la pistola dietro la schiena. Avvicinandosi, i suoi piccoli occhi mi fulminarono da sotto le sopracciglia folte da uomo delle caverne. L’uomo basso esitò, poi lo seguì.
“Bom dia”, dissi in portoghese, cercando di comportarmi in modo smarrito, stupido e completamente ignaro di ciò che era appena successo. “Conosce la strada per Alichapon-tupec?”
L’enorme uomo delle caverne Silveira si fermò, apparentemente stupito di sentire la sua lingua. Il secondo uomo si fermò accanto al suo compagno. Dopo un momento, mi parlò.
“Non è abituato a questo modo di rivolgersi.”
Inglese? Ma prima parlavano in portoghese.
Non volevo fargli sapere che avevo visto o sentito qualcosa.
L’uomo calvo si avvicinò a Silveira e gli sussurrò qualcosa, tenendomi d’occhio. Mentre Silveira annuiva al suo amico, qualcuno chiamò il mio nome.
“Saxon,” disse Kaitlin dall'altra parte del furgone. “Stanno arrivando degli uomini.” Anche lei parlò in portoghese.
L’uomo basso mise velocemente la mano dietro la schiena del suo compagno, dove c'era la pistola. Kaitlin fece il giro del furgone, seguita da Rachel con ancora in braccio Hero. Il cane ringhiò ai due uomini.
“Sono circa una dozzina.” Kaitlin strinse le mani attorno alle cinghie del suo zaino è annuì verso la direzione da cui stavano arrivando. “Uno di loro sembra un poliziotto.” Parlava con me ma guardava Silveira e il suo compagno.
Ovviamente, i due uomini riuscivano a capirla. Si scambiarono uno sguardo, tornarono verso il loro furgone, salirono e chiusero le portiere dietro di loro.
“Andiamo,” mi sussurrò Kaitlin, “dobbiamo andare.”
“Va tutto bene,” dissi. “Il poliziotto si occuperà di loro.”
“Idiota,” sibilò lei andandosene. “Non arriverà nessuno.”
Rachel e io la seguimmo.
* * * * * *
Un’ora dopo uscii dal piccolo cafè, dal nome appropriato Extremidade das Docas, La Fine dei Moli, per cercare una guida. Lasciai mia sorella e mia nipote a finire la loro colazione, e andai ad esplorare i moli traballanti oltre la zona commerciale, portandomi dietro una tazza di caffè caldo.
Arrivai a un molo di legno e sabbia che si estendeva nel fiume. Era deserto, tranne per una persona seduta alla fine. Buttai la tazza vuota in un cestino e camminai lungo il molo Magari avrei chiesto informazioni sulla pesca.
Quando mi fermai accanto alla persona seduta, una giovane ragazza , lei mi diede una rapida occhiata dagli stivali in pelle ai pantaloni color khaki fin su al cappello. I suoi occhi esitarono sul mio vecchio accendino Zippo infilato nella fascia del cappello. Riportò la sua attenzione all'acqua.
Sopra la cintura era nuda, ad eccezione di un amuleto appeso al collo da una striscia di pelle. Mi girai per guardarla meglio.
“È un modem IBM?”
Strinse gli occhi su di me come se avessi detto qualcosa di sbagliato. Aveva una gonna di tessuto damascato, sedeva con un ginocchio alzato e un piede sulle assi del molo. L’altra gamba, rozzamente intagliata da un pezzo di mogano, penzolava nell’acqua fangosa.
Mi ignorò e tirò fuori un topo da una borsa di tela, e lo lanciò ai piranha. Aveva un’espressione fredda, come se non le importasse quale creatura mangiasse l’altra, fintanto che una divorasse l’altra.
Quel modem non era una cosa primitiva che ci si aspetterebbe di trovare nella natura selvaggia, ma un moderno dispositivo creato per comunicazioni rapide, largo un pacco di gomme e sottile come un dito. Su un lato era stampato IBM, seguito da USB, probabilmente veniva da un portatile ed era di recente costruzione. Un filo di pelle passava attraverso un buco in un angolo, e triangoli di soffice pelo animale ne imbottivano gli angoli proteggendo le parti più morbide del suo corpo.
Peccato per quel buco nel modem.
Avrebbe potuto funzionare nel portatile che pensavo di comprare per Kaitlin una volta tornati a Lisbona. Quel computer sarebbe stato di grande aiuto a mia sorella, per organizzare tutti i dati che raccoglieva.
“Conosci la strada per Alichapon-tupec?” Chiesi.
La donna mi guardò a lungo, senza parlare. I suoi occhi scuri avevano un’intensità quasi ipnotica. Sentivo il bisogno di distogliere lo sguardo ma non ci sono riuscito.
Qualcosa alla fine del molo cadde violentemente in acqua, poi di nuovo silenzio. Un pappagallo chiamò la compagna e volò via per riunirsi a lei nella sponda opposta del fiume. Un debole odore di gelsomino arrivò da una brezza leggera che scompigliò i capelli della donna, e i delicati petali rossi e gialli nascosti dietro l’orecchio sinistro. Il forte abbaiare di una scimmia urlatrice che reclamava il suo territorio echeggiò per tutta la foresta. Tutto questo accadeva in pochi secondi, ma sembravano molti di più e la giovane donna continuava a guardarmi negli occhi come se riuscisse a vedere oltre i miei pensieri.
Finalmente mi rispose in Yanomami e indicò alcune canoe legate lungo il molo. Non capii le sue parole e riconobbi la lingua Yanomami solo perché l’avevo già sentita parlare dai nativi di quella regione dell’Amazzonia. Quando feci dei segnali a causa della mia ignoranza, mi guardò con uno sguardo che non era ostile ma nemmeno tanto amichevole. Irritato, pensai. Guardai i piranha, anche loro sembravano infastiditi dalla mia presenza. Il topo non si vedeva più.
Mi prese la mano per alzarsi, e rimasi stupito da quanto era bassa. I suoi capelli scuri e lucenti erano divisi nel mezzo e la testa mi arrivava solo al petto. Un attimo prima, seduta a fissarmi, pensavo fosse alta quanto me, forse più alta. Ma era solo un’illusione, un aura di coraggio sorprendentemente forte. La guardavo, ora che era in piedi, ma l'aura rimase.
Si girò i lunghi capelli sulla spalla mentre il sole scintillava sul suo amuleto. Chiedendomi cosa fosse successo al precedente proprietario del modem provai a toccarlo, ma ancor prima che ci riuscissi, mi schiaffeggiò forte.
Per un attimo restai stordito, incapace di reagire. L’impatto della mano sul viso mi riportò alla mente l’ultima volta che una donna mi ha schiaffeggiato.
Successe circa cinque anni fa, e l’immagine era vivida e chiara. Rivadavia, Argentina. Metà estate, così caldo nella torrida veranda che nulla si muoveva, nemmeno le lucertole che al mattino erano strisciate sui rami di un palo borracho per un pranzo a base di mosche e formiche. In quella calura sub-tropicale Lauren mi schiaffeggiò, sulla stessa, guancia, ma non forte come quello che avevo appena ricevuto.
Lauren era una donna bellissima, ma le mancava qualcosa per essere perfetta. Credeva a tutte le teorie del complotto che aveva sentito, e dato che lavorava per un'agenzia governativa - che si occupava, credo, di esportazioni e dogane - pensava che dei malintenzionati la seguissero sempre. Era nervosa e irascibile. Avrei dovuto sapere che un giorno sarebbe esplosa.
Lauren era anni e migliaia di chilometri lontana da quel molo sul Rio Negro, dove sono stato appena schiaffeggiato di nuovo. Mi massaggiai la guancia, e guardando le dita vidi una sottile striscia di sangue, e una zanzara schiacciata.
“Un po eccessivo, non credi?” Dissi sistemandomi il cappello.
Lei non rispose, si limitò a guardarmi come a sfidarmi a rifarlo.
Non ero sicuro se la zanzara fosse una spettatrice innocente di una avance respinta o se la donna mi stesse salvando da un caso di malaria. Riconobbi dalle ali che era una Anopheles Punctipennis -una femmina ovviamente- portatrice della temuta malattia.
Se lo schiaffo in faccia era il suo modo primitivo di mantenermi in salute, a che scopo? Non avevo sentito parlare di cannibalismo in quella parte dell’Amazzonia, ma nemmeno avevo mai visto una bella donna mezza nuda dar da mangiare topi a dei piranha.
Quando si è chinata per raccogliere l'arco e la faretra di frecce, ho sentito un impulso a lungo assopito ribollire dentro di me. Prima che potesse compiersi, si alzò e mi disse qualcosa, indicando l’altra borsa, Questo lo avevo capito, certe cose non richiedono traduzione.
Feci un profondo respiro per calmare il cuore scalpitante, poi presi la sacca piena di ratti e la seguii lungo il molo. Mentre camminavamo notai le file di segni lasciate da piccoli denti alla fine della sua gamba di legno; fatte dai topi o dai piranha, probabilmente.
Arrivammo a una piccola piroga, e la indicò. Le dissi che viaggiavo insieme ad altre persone. Facendo segnali, mi fece una domanda. Pensami riguardasse i miei compagni.
“Due,” risposi, “una alta così.” Misi la mano all’altezza delle spalle, per indicare quanto fosse alta mia sorella Kaitlin. “E una così,” dissi, abbassando la mano all’altezza di mia nipote, Rachel. “E,” tenendo le mani alla lunghezza di una pagnotta, “uno stupido cane lungo più o meno così.”
Lei scosse la testa e alzò le spalle, e mi portò a una canoa più grande. Presi una mappa dallo zaino. Mostrava Manaus sulle rive del fiume Madeira, e non alla confluenza tra il Rio Negro e il Rio delle Amazzoni, dove si trova effettivamente. E Alichapon-tupec era segnata a venticinque chilometri a valle dalla giunzione dei due fiumi. Se fosse vero, avremmo superato Alichapon-tupec il giorno prima viaggiando sul fiume, cosa che non abbiamo fatto; da qui la mia domanda ala giovare ragazza sul molo.
Volevo trovare il villaggio il prima possibile così che Kaitlin potesse raccogliere i suoi campioni di piante, imparare gli usi medicinali delle foglie, e tornare a Rio. Se avessimo perso la Borboleta in partenza per Lisbona, avremmo perso un paio di settimane a cercare un altro passaggio.
Ho consegnato la mia mappa alla donna, che l'ha srotolata e l'ha studiata con grande interesse mentre guardavo il suo viso passare attraverso una progressione di cipiglio, broncio e sopracciglia aggrottate. I miei occhi iniziarono a vagare e mi venne in mente il National Geographic Magazine. Quando ero un bambino, l’unico volta in cui avevo visto il seno nudo di una donna fu in biblioteca, nella sezione archivi della rivista, dove erano conservate quelle copertine.
“Beh, signor Saxon Lostasia,” mi avrebbe detto la bibliotecaria mentre cercavo di non farmi vedere uscendo dalla biblioteca. “Abbiamo esplorato un po oggi, eh?” E poi avrebbe sorriso e ammiccato, mentre correvo verso la porta. La signorina Pentava mi sembrava vecchia al tempo, ma non doveva avere più di venticinque anni.
Questa donna in piedi accanto a me adesso sarebbe stata una stupenda ragazza in copertina, ma non una buona bibliotecaria.
Riportai gli occhi sulla mappa, la presi dalle sue mani, la girai al contrario e gliela ridiedi. Ancora una volta, dopo avermi guardato di traverso, il suo viso fece quasi le stesse espressioni di prima.
Incredibile, pensai. Sta memorizzando tutto; prima dal basso e ora dall’alto Memoria fotografica, credo.
Dietro di me, sentii un cane abbaiare e guardando il molo vidi Rachel ed Hero correre verso di noi. Il cambiamento avvenuto nella donna quando la bambina e il cane le si sono avvicinati è stato sorprendente.
Capitolo Due
Quando la giovane donna si inginocchiò per portarsi al livello di Rachel, il suo viso apparve accattivante come quello della bambina. Il volto serio e pensieroso dell'adulto è stato completamente cancellato e apparentemente dimenticato. Prima pensavo fosse bellissima, ma ora era solare, simpatica, quasi angelica.
“Ciao,” disse Rachel.
La giovane donna sorrise a Rachel e toccò Hero con la mano, e lui subito si buttò a terra sulla schiena per farsi massaggiare. La donna rise e lo accontentò.
“Cosa è successo alla tua gamba?” Chiese Rachel in portoghese quando la donna si chinò per accarezzare Hero.
La donna sorrise a Rachel, scosse la testa e alzò le spalle. Rachel fece la stessa domanda in francese, ma la donna ancora non capiva. Imperterrita, provò con il linguaggio dei segni. La donna fece dei segni di risposta.
Stavano avendo una conversazione silenziosa, ma non avevo idea di cosa stessero dicendo.
Ci raggiunse Kaitlin, e vidi il sopracciglio destro di mia sorella alzarsi e un piccolo sorriso arricciare le sue labbra mentre mi fissava. Forse avevo ancora il segno della mano sulla guancia.
Quando la giovane donna si alzò, stavolta senza prendermi la mano per aiutarsi, la sua espressione cambiò di nuovo. Era piuttosto cupa mentre guardava da mia sorella a me e di nuovo a Kaitlin.
“Lei è mia mamma,” disse Rachel in portoghese, la lingua più comoda per noi.
Kaitlin era la copia adulta di Rachel; riccioli biondi, occhi grigi, snella. Suppongo che si possa descrivere mia sorella come formosa, ma con i suoi pantaloni cargo e la camicetta di cambric ampia - le tasche sul petto gonfie di penne, matite, blocchetti per appunti, repellente per insetti e una lente d'ingrandimento - era difficile vedere la sua figura.
La giovane donna guardò Rachel e con un'espressione interrogativa le disse qualcosa.
“Madre,” spiegò Rachel.
La donna aggrottò le sopracciglia, ovviamente non capendo.
Il suo nome è Kaitlin.” disse Rachel. “Mia madre. Unì le braccia, le dondolò come una culla, poi indicò se stessa.
Questo mi fece sorridere. Molte volte in passato ci siamo scontrati con le barriere linguistiche. Qualche mese fa, nella città di Antalaha in Madagascar, stavamo provando a comprare del manzo in un affollato mercato della carne. Dopo dieci minuti passati a usare tutte le parole e i segni che conoscevamo, Rachel muggì come una mucca. Tutti si fermarono in silenzio a guardare la ragazzina che faceva strani suoni. Il volto del macellaio si illuminò mentre snocciolava poche parole nella sua lingua, poi anche lui muggì come una mucca. I suoi clienti scoppiarono a ridere e molti di loro vennero in nostro aiuto con suggerimenti al macellaio su vari tagli di carne che ci sarebbero piaciuti. Contento, il macellaio portò bistecche, carne macinata e petto per mostrarcele.
La giovane donna notò la mia espressione divertita e mi lanciò uno sguardo duro.
“Lui è mio zio Saxon,” disse Rachel indicandomi. “Il mio nome è Rachel,” disse mettendosi una mano al petto. “E questo è Hero,” disse inginocchiandosi accanto al cane.
La donna si inginocchiò, il visso un po illuminato. Poi indicò Hero e alzò le sopracciglia.
“Hero,” disse Rachel.
“Hero?,” chiese la donna, e il cane subito si alzò per leccarle la faccia. “Hero,” disse di nuovo e rise, poi diede una pacca sulla spalla di Rachel e la guardò interrogativa.
“Rachel,” disse Rachel.
“Rabel,” disse la donna.
“No,” disse Rachel, “Ra-CHEL.”
“Ah,” disse lei, “Ra-CHEL.”
Rachel annuì vigorosamente, la donna si alzò e diede una pacca sulla spalla di Kaitlin guardando la ragazza.
“Madre. Voglio dire, Kaitlin, “ disse Rachel. “Il suo nome è Kaitlin.”
La donna ci riuscì dopo qualche tentativo. Mia sorella posò lo zaino sul mano, le diede la mano e se le strinsero. La donna mi guardò senza toccarmi.
“Lui è mio zio Saxon,” disse Rachel.
“Unel Sexton,” disse lei.
Rachel rise. “Zio Saxon,” disse, “ma puoi chiamarlo Saxon.”
“Zio Saxon,” disse. “Zio Saxon.”
“Come ti chiami?” Chiese Kaitlin dandole una pacca sulla spalla.
Disse una frase con una parola alla fine che suonava come “See-ann.” Ripeté la parola.