banner banner banner
Lia
Lia
Оценить:
Рейтинг: 0

Полная версия:

Lia

скачать книгу бесплатно


Qui il nostro narratore si interruppe e sorrise. Senza di essa, infatti, non sarei fra di voi. Ma è necessaria una spiegazione.

Come già sapete, Morraine è un’unica casa, racchiusa nelle mura di una normale città. Ciò significa che tutto il suo spazio interno è in gran parte già occupato. E data l’indole dei suoi abitanti, nessuno ha mai costruito la sua abitazione fuori dalle mura.

Per un raggio di venti leghe intorno a Morraine ci sono solo capanne per gli attrezzi agricoli, o per trascorrere qualche notte nella stagione del raccolto. Oltre, cominciano i villaggi e i paesi di coloro che vengono a Morraine per i mercati settimanali: gente che parla con la voce forte e alta di chi ha intorno alla sua casa uno spazio vuoto, e che noi ragazzini guardavamo con un misto di timore e sufficienza.

Ma a parte questo, che c’entra poco o niente, quello che voglio dire è che lo spazio, a Morraine, è limitato. Le possibilità di costruire nuove abitazioni sono prticamente nulle, per motivi igienici ed estetici, come minimo. Con qualche piccola eccezione, come vi racconterò a suo tempo...

Ma Morraine è ragionevolmente ricca e prospera: la sua pianura fertile, i fiumi abbondanti di acque, i suoi artigiani famosi anche dove gli uomini parlano altre lingue.

E a seconda delle circostanze (o dell’influsso degli astri, come vogliono alcuni), la sua popolazione aumenta.

Che fanno coloro che sono in eccesso? Se ne vanno, naturalmente. O non tanto naturalmente. Leggende antiche alludono a sparizioni misteriose, a rapimenti da parte di gnomi o di fate, e in queste leggende un ruolo importante giocano i cunicoli sotterranei della città. Ma ai miei tempi, posso giurarlo, nulla di tutto questo accadeva.

Chi se ne va è detto Portatore-della-lampada, perché al momento di lasciare la città, i suoi parenti gli affidano una lampada e dell’olio, che serviranno ad illuminargli la via.

I motivi per cui i portatori abbandonano Morraine sono molteplici e tutti convincenti. Perché una simile categoria di persone faccia la sua apparizione proprio nei momenti di sovrappopolazione, nessuno è mai riuscito a spiegarlo in maniera definitiva.

È come se una segreta inquietudine pervadesse la gioventù di Morraine, un desiderio di cose nuove, un’insofferenza verso i costumi dei padri, tanto forte da superare l’avversione per i luoghi dove “i muri non si incontrano”.

Nel mio caso, il desiderio si chiamava Lia. Il tempo, era quello dell’Abbondanza di Figli. Come le due cose coincidessero, è un mistero che non presumo di risolvere.

Il Portatore della Lampada è segnato, è quasi sacro. I cinici dicono che è il benvenuto: uno in meno! Comunque, nessuno contesta la sua decisione, e tutti si prodigano in aiuti.

Io avevo quattordici anni, che è giusto l'età minima per partire. Però non desideravo solo andarmene: desideravo andarmene per trovare Lia. Non potevo sopportare l’idea di aspettare, a Morraine, che Lelius riapparisse con il suo carro... fra un anno, o forse dieci, o forse mai.

Ma... lasciare Morraine! Viaggiare per il mondo! La prospettiva mi sgomentava. E c’erano anche un paio di ostacoli di ordine pratico. Primo fra tutti: come mi sarei guadagnato da vivere, durante il viaggio? Poiché la speranza di partire con ricchezze sufficienti appariva remota. La mia non era una famiglia ricca, e Morraine non offre occasioni di facili guadagni. Per non dire del fatto che la prospettiva di viaggiare con molto denaro era più inquietante che rassicurante: l’ignoranza ingigantisce i pericoli, soprattutto per chi, come me, era sempre vissuto entro le mura di una sola città-casa. No: una dignitosa povertà appariva più praticabile.

Che fare? Un’idea si presentò naturale alla mente: diventare io stesso attore! Farmi assumere da qualche compagnia di comici, percorrere le stesse strade di Lia!

L’idea mi riempì di entusiasmo. Presi a frequentare con assiduità ancora maggiore di prima tutti gli attori girovaghi che capitavano in città, e anche i saltimbanchi, i funamboli, i suonatori, perfino quelli che fanno ballare orsi e scimmie. Talvolta, soprattutto le compagnie più numerose hanno bisogno di qualcuno che dia una mano per allestire il palco e le scene, in cambio di qualche soldo o di un posto nelle prime file di panche. Ma ahimè, nessuno era interessato ad un ragazzino della mia età come attore: i pochi ruoli di giovinetto, nella severa economia dei teatranti di strada, venivano assunti da una delle donne.

Mi convinsi, mio malgrado, alla pazienza. Dovevo prepararmi, attendere il momento opportuno, raccogliere informazioni. E chissà che nel frattempo a Morraine non ricomparisse Lelius...

Sarei diventato un attore! Nel mio entusiasmo, riuscii a trascinare e i miei due amici, e accarezzai perfino l’idea di formare con loro una compagnia: qualche ragazza l’avremmo trovata, accumulando risparmi avremmo comprato un vecchio carro, i cavalli e qualche costume, e poi... le vie di tutte le Terre di Mezzo sarebbero state nostre! Da Seth ad Aix, da Aiguerre a Kaliphrene, dalle montagne al mare, e magari oltre...

Nella nostra soffitta segreta allestimmo un teatro: Jues rubò una vecchia coperta di broccato blu a sua madre, per fare da fondale. Lucibello, grazie ai suoi soliti, misteriosi espedienti, arrivò un giorno con un costume da Artefice di Multiformi Metamorfosi. Il nome doveva esserselo inventato lui, ma il costume era senza dubbio impressionante: ampie brache verde cobalto, camicia che assumeva varie sfumature di viola a seconda di come la luce la colpiva, farsetto nero in cui erano intessute minute pagliuzze d’oro, scarpe nere con fibbia d’argento, cappello a cono con tre tese rivolte all'insù e uno stravagante pennacchio. La stoffa aveva il difetto di strapparsi ad ogni gesto un po’ brusco: ma questo era un segno della sua venerabile antichità.

Jues poi, che aveva una folta schiera di sorelle, venne costretto suo malgrado a procurarsi (e ad indossare) un improbabile costume da principessa. Il mio contributo al guardaroba fu piuttosto scarso: un cinturone di cuoio irrigidito, una spada che avevo fabbricato e dorato nella falegnameria di mio padre, il vecchio elmo di mio zio, che aveva servito qualche tempo nel corpo di guardia di Morraine. Ma soprattutto: un copione. Frugando in un baule dove erano conservati vecchi libri di mia zia, trovai alcuni scartafacci ingialliti, fragili, mangiati dai topi, formati da poche decine di fogli cuciti, con rozze incisioni sulla copertina e titoli come: La mirabile Historia dei Dodici Cavalieri, Le Due Figlie del Peccato, Il Mago di Qom, La Freccia insanguinata, Il volo dell’Uccello Fatato, Il Messaggero del Re, e altri ancora. Purtroppo, non trovai ciò che più avrei desiderato: la storia di Teseius e Phenissa.

La scelta ci occupò a lungo. La Mirabile Historia aveva evidentemente un numero eccessivo di personaggi, e nelle Due figlie ce n’era una di troppo. Il volo dell’uccello comportava l’uso di complicate macchine sceniche e così via.

Alla fine, anche per via del costume di Lucibello, la nostra scelta cadde sul Mago di Qom, che presentava anche il vantaggio di avere solo tre personaggi principali. La storia è semplice: il malvagio mago Zarkos costringe alle sue voglie la bellissima Zeryna, minacciando di orribili tormenti il suo fidanzato Glyon se la fanciulla non acconsente. Per salvare l’amato, Zeryna in uno straziante colloquio lo ripudia, simula amore per Zarkos; Glyon medita alternativamente vendetta e suicidio, maledice il momento in cui è nato. Ma nel giorno stesso delle nozze, già abbigliata nell’abito da sposa, Zeryna sceglie di morire di propria mano, eccitando così gli animi di tutta la cittadinanza di Qom contro la folle superbia di Zarkos. Glyon si fa artefice della giustizia, uccide il mago, viene proclamato eroe.

La versione in nostro possesso abbondava di monologhi patetici, declamati da Zeryna e Glyon (ossia: Jues ed io), che mi incaricai di accorciare ed accomodare, trasformando ad esempio le “perle distillate dall’amara rugiada del ricordo” in semplici “lacrime di rimorso”.

I preparativi si trascinarono fino ad inverno inoltrato, anche perché nessuno di noi aveva molto tempo libero. Il giorno della prima prova aveva gelato. Le fontane nei cortili sembravano candelabri rovesciati, e l’acqua poteva essere attinta solo dai pozzi. Avevamo portato della legna per accendere il caminetto nella nostra soffitta segreta, e le feritoie per i piccioni erano state otturate con stracci e paglia.

Ciascuno si era imparato a memoria le parti del primo atto. Iniziava Lucibello, nella parte del mago, e ci lasciò senza fiato: nella luce rossastra e balenante delle fiamme, che mettevano in risalto al meglio il suo costume, sembrava un’apparizione infernale, mentre il vento che soffiava dalle fessure caricava le sue parole di orrore. Il suo fisico poi era perfettamente adeguato al ruolo: magro, quasi ossuto, il viso affilato dal naso aquilino e dalle sopracciglia nere e folte. Jues ed io applaudimmo con convinzione.

Toccava poi alla vergine Zeryna. Jues, devo dire, se la cavò con onore, malgrado le vesti lo impacciassero non poco e la parte lo imbarazzasse. Fu sufficientemente patetico, senza scadere nel lacrimoso; evitò la trappola del falsetto, accontentandosi della sua voce normale, e comunicando il senso della femminilità tramite un gestire sobrio, il capo pudicamente reclinato. Anche lui ebbe applausi meritati. Jues (mi accorgo adesso di non aver mai descritto i miei due amici, e colgo l'occasione per rimediare) al contrario di Lucibello era un tipo bene in carne, con riccioli color carotae e carnagione pallida, non priva di qualche lentiggine. Cosa di cui all'epoca si vergognava parecchio

Toccava a me. Sebbene non avessi praticamente pubblico, il cuore mi batteva forte, mi pareva di soffocare. Le prime parole mi uscirono a fatica. Mi ripresi, prosegui brandendo la spada; arrivato al verso “non resterà questo ferro in ozio”, mi interruppi per un vuoto di memoria. Lucibello mi sibilò le parole. Riattaccai. Alzai con troppa foga la spada, che si spezzo contro una trave del tetto. Lucibello dovette aiutarmi altre due volte. Finii in fretta e furia. Dopo qualche secondo, Jues provò ad applaudire, senza convinzione. Lucibello si era già tolto il costume.

– Io devo scappare – disse.

Jues si districò dalle gonne. – Allora ci vediamo... domani? – propose.

Feci un vago cenno col capo. Jues uscì. Io mi tolsi elmo e cinturone, raccolsi i pezzi della spada, riposi tutti i costumi nel baule. Del fuoco non restavano che poche braci. Spensi la lampada e me ne andai.

Quella sera avevo capito che non sarei mai diventato un attore.

(8) L'ALCHIMISTA

Quando uscii nel Cortile delle Rondini, cadevano fiocchi di neve, larghi e radi. La prima neve d’inverno.

Mi fermai un momento a guardane la neve che scivolava attraverso la luce delle finestre.

Il cortile era quasi deserto, a quell'ora e con la neve. Avrei potuto tornare a casa passando per i corridoi interni di Morraine, ma non mi andava di incontrare gente.

Dovevo fare in fretta, altrimenti rischiavo una punizione. Poi pensai: che importa? Tanto non avrò niente da fare domani...

Ma forse voi vi starete chiedendo cosa sia la neve. Vi rispondo: è una specie di pioggia soffice e bianca, come la lanugine di certe piante; si posa sulle cose e le ricopre, e più cade più si accumula, anche parecchie braccia in certi posti, e non se ne va finché il caldo non la scioglie...

Così presi a camminare, senza meta, da un cortile all’altro, ciascuno più bianco del precedente. I negozi e le botteghe stavano chiudendo. Le donne, avvolte negli scialli, correvano a fare gli ultimi acquisti per la cena. Alcuni bambini cominciavano a lanciarsi palle di neve, ma io non ero certo dell’umore adatto. E in ogni caso non ero più un bambino.

La sconfitta era tanto più cocente perché giungeva imprevista. Mi diedi mille volte dello stupido, ripensando a tutti gli errori commessi. Ma in quel momento, l’ultima cosa che mi sentivo di fare era riprovarci. Odiavo il teatro con tutte le mie forze.

Mi fermai sotto la neve che ormai cadeva fitta. Mi trovavo nel Cortile della Fenice. Come le mie speranze: bruciate. La rinascita?... Ebbi un brivido. Rischiavo di prendermi una malattia. Tanto meglio: avevo una gran voglia di essere compatito.

Mi infilai nell’androne che portava nel Cortile Dorato, e aveva sulla chiave di volta una mezzaluna con un uccello fra i due corni. Una sola luce tagliava a metà il lungo corridoio buio. Doveva essere la vetrina di un negozio, ma conoscevo poco quella zona di Morraine, che era piuttosto distante da casa mia.

Davanti alla vetrina pendeva un'insegna a malapena illuminata dalla luce della vetrina: decifrai a fatica una civetta che stringeva fra gli artigli un rotolo di carta o pergamena; una scritta che non riuscii a leggere. Sbirciai dentro. Una bottega di libraio, con un cliente di spalle, che esaminava qualcosa su un bancone, e il proprietario in cima ad una scaletta, che gli porgeva dei rotoli. Il cliente si voltò per dire qualcosa al proprietario. E lo riconobbi.

Era il giovane biondo, che avevo visto nella torre insieme a Lelius.

Non ricordo cosa pensai, né quanto tempo rimasi lì davanti alla vetrina. So che mi ritrovai dentro, fingendo di rovistare fra i libri. Il proprietario mi lanciò un’occhiata sospettosa. Il giovane biondo non mi degnò di uno sguardo.

Trovai uno scaffale di libri di seconda mano, non molto lontano dal bancone e dal giovane, che anche quella sera vestiva di nero. Non osavo guardarlo, sebbene di certo lui non mi potesse riconoscere, ma sbirciai sul banco. Era coperto di atlanti e di mappe.

– Ecco, questa è molto antica – disse il proprietario, porgendo un foglio ripiegato più volte al suo cliente. Il giovane alchimista lo aprì con cura. Sul bancone si spalancò un mare. Era tale l’illusione di profondità, che mi misi a fissarlo come incantato. In mezzo alla carta spuntava un’isola, verde smeraldo, ocra e madreperla; da un lato della mappa, coste frastagliate protendevano cinque dita di roccia che formavano una mano, e vene di fiumi versavano le loro acque nel mare. Sottili nervature grigie rivelavano la presenza di strade, e minuti rettangoli rossi quella delle case. Per attimo mi ricordai di quel pomeriggio in cui il carro mi aveva investito, e mi ero ritrovato sospeso in aria: sebbene da un’altezza minore, le cose mi erano apparse con la stessa nitida precisione della mappa.

Il giovane spianò il foglio con un gesto brusco della mano. E di colpo il mare, le terre, i fiumi, le strade, tornarono ad essere solo chiazze di colore, mescolate a parole in un alfabeto sconosciuto, che prima non avevo notato.

L’alchimista osservò a lungo la mappa, con le sopracciglia aggrottate. Il padrone sulla sua scala, io in basso con un libro in mano, attendevamo nel massimo silenzio. Infine il giovane scosse la testa. – No, non può essere – mormorò fra sé.

Il venditore di libri emise un sospiro deluso. Scese dalla scala. – Non ho altro – disse. Si voltò bruscamente dalla mia parte. – Tu cosa vuoi?

Io sollevai un libro che avevo in mano. – Quanto costa?

– Nove piastre. – Mi sembrò che avesse detto un prezzo a caso.

– Quando ne avrete altre? – chiese l’alchimista.

– Ah, voi mi chiedete troppo! – Il negoziante agitò le mani davanti a sé. Era un ometto grassoccio, la faccia rotonda e bianca su cui sembrava dipinta una barba nera e cortissima; indossava una sorta di caffettano color ruggine e un berretto con dei ricami in oro. – Queste sono cose rare, antiche... entrarne in possesso è concessione della sorte e frutto di pazienza.

– Bah! – Il cliente non pareva impressionato. – Comunque, non c’è niente che mi interessi. – E senza aggiungere altro, girò sui tacchi e uscì.

Io contai in fretta e furia nove monetine quadrate di rame, le misi in mano al libraio, che mi guardò con aria perplessa, e uscii a mia volta. Non sapevo nemmeno cosa avessi comprato.

Nell’androne buio, non c’era traccia del giovane vestito di nero. Non era possibile! Poi intravidi una macchia chiara che si muoveva alla mia sinistra. I suoi capelli! Corsi quanto più silenziosamente potevo.

Ormai tutti i negozi e le botteghe erano chiusi, le uniche luci venivano dalle finestre. I bambini avevano smesso di giocare a palle di neve, ed erano andati a casa a mangiare. Io e l’alchimista sembravamo le uniche creature rimaste ad aggirarsi nei cortili di Morraine.

Seguirlo sulla neve era facile, grazie alle impronte e al mantello nero. Ma quando prendeva per corridoi e androni, si confondeva con le ombre, ed io non osavo avvicinarmi troppo, per paura di essere scoperto.

Almeno tre volte temetti di perderlo. Ormai non sapevo più dov’ero: la neve fitta, il buio, l’affanno dell’inseguimento mi avevano completamente disorientato.

Entrammo infine in un cortile piccolissimo, in realtà poco più che un pozzo quadrato, che non conoscevo, e c’era da dubitare perfino che avesse un nome. Il vento, che soffiava attraverso l’androne, stretto come un cunicolo, aveva accumulato la neve da un lato del cortiletto. Intravidi per un attimo la forma nera dell’alchimista, dall’estremità del passaggio. Quando arrivai nel cortile, scoprii sulla neve le sue impronte; ma queste sparivano poco più in là, su un pezzo di acciottolato umido e quasi oleoso, sgombro di neve. Con orrore, mi accorsi che il cortile non possedeva una seconda uscita: questo era quasi inconcepibile per Morraine! E dell’alchimista biondo non era rimasta alcuna traccia. Mi ritrassi nel buio dell’androne, cercando di calmare l’affanno e i brividi. Ci misi un po’ a riprendere coraggio. Nessuna luce filtrava dalle finestre del cortile. A tentoni ne percorsi il perimetro, e mi ritrovai all’imboccatura dell’androne, senza aver scoperto alcuna porta.

Rimasi lì ancora un po’, in attesa non so di cosa. Poi tornai indietro, cercai di decifrare la figura sulla chiave di volta all'ingresso dell'androne, ma era troppo buio, e l'unica soluzione fu tenere a mente il percorso fino al primo punto di riferimento noto. Fu solo allora che mi resi conto di non trovarmi molto distante dal Cortile Segreto.

Arrivai a casa con i piedi e i capelli inzuppati. Raccontai che ci eravamo fermati a giocare con la neve, e me la cavai senza una punizione troppo severa.

Andai a letto subito dopo cena, con un senso di stordimento, che nel corso della notte si trasformò in febbre.

Ma prima mi ricordai del libro che avevo acquistato per nove piastre. Lo presi e ne lessi il titolo.

FIORI DI CANDIDO GIARDINO

Ovvero

DELL’ARTE RETORICA

Libri cinque Illustrati con sceltissimi e perpetui essempli degli Autori dell’Età Aurea

Composti dal Venerabile ed Eccellentissimo

Maestro ALOYSIUS ALEXIDES

Protoscriba dell’Accademia di Tutte le Lettere

Con l’aggiunta delle

ISTITUZIONI POETICHE

Recentissimamente redatte dal

Dottissimo Reggitore DYEGIS MACRINUS

Della medesima Accademia

(9) IL CORTILE SENZA NOME

Mi svegliai nel silenzio che segue una fitta nevicata, che è diverso da ogni altro silenzio perché la neve pare assorbire ogni suono, e impossibile da descrivere a chi è sempre vissuto nel deserto.

Mi svegliai da una serie confusa di sogni, di cui ricordavo solo un’immagine inquietante e affascinante insieme: una grande massa di acqua che aveva invaso Morraine, trasformandola in una città di canali e piscine, sotto un cielo grigio ma luminoso, come in attesa di nuova pioggia. Un grande lago si stendeva intorno alle mura.

Avevo trascorso la prima parte della notte rivoltandomi per la febbre, poi ero caduto in un sonno profondo, e adesso mi sentivo fresco e pieno di energia, il che può apparire strano, considerando la delusione della sera precedente. Ma forse mi sentivo solo libero per aver abbandonato un sogno che, in cuor mio, avevo sempre saputo impossibile.

Mi precipitai alla finestra. Non avevo mai visto tanta neve in vita mia. Una coltre spessa un braccio ricopriva i tetti, e perfino i muri delle torri apparivano incrostati di minute scaglie di ghiaccio, così che il bianco uniforme era interrotto solo dal grigio appena più scuro del fumo che si alzava dai comignoli. E mentre guardavo, uno squarcio si aprì fra le nuvole, e il sole appena sorto colpì di sbieco tutti quei cristalli, traendo da ciascuno un fantasma di arcobaleno.

Battei le mani di gioia e spalancai la finestra. Prima la nuvola del mio fiato, poi quelle del cielo coprirono il sole. Rinchiusi in fretta la finestra, ma considerai la visione apparsami di buon auspicio.

Essendo Morraine una città di corridoi e di cortili, a loro volta quasi sempre circondati da portici, le sue attività non sono particolarmente influenzate dagli eventi atmosferici. Perciò dovetti andare come ogni giorno ad aiutare mio padre nella bottega di falegname. Versò metà mattina, accorgendosi di come guardavo la neve nel Cortile del Nano, e immaginando che volessi andare a giocare, mio padre mi spedì a fare qualche commissione, con la tacita intesa che sarei tornato solo all’ora di pranzo. Io mi precipitai verso il Cortile della Mezzanotte, dopo aver scartato l’idea di cercare Jues e Lucibello: sia perché mi avrebbe portato via troppo tempo, sia perché, dopo il fiasco penoso della recita, preferivo non vederli. Da lì, cercai di ripercorre il tragitto della sera prima, quando inseguivo l’alchimista.

La cosa si rivelò meno facile del previsto. Prima di tutto, era giorno di mercato nel Cortile della Mezzanotte, e a causa della neve le bancarelle erano tutte ammassate sotto i portici. Bisognava scavalcare ad ogni passo mucchi di castagne, noci, fichi secchi, gabbie di uccelli da cortile, e schiere di uccelli selvatici morti, portati dai cacciatori delle colline: gente dalla pelle scura, che sedeva accovacciata sui talloni, avvolta nei mantelli marroni con cui si mimetizzavano per meglio cogliere le loro prede, e che li rendevano simili a cumuli di terra. Dai ganci infissi nelle volte penzolavano file di salsicce fresche, tranci di carne affumicata di natura incerta. E per fortuna, molti a causa della neve avevano rinunciato a venire; in compenso, i cittadini di Morraine erano accorsi numerosi, allarmati dalla medesima neve. I venditori cercavano di approfittarne, e il vociare delle contrattazioni risuonava sotto le volte.

Ma dov’era l’androne che cercavo? Il primo androne, cioè, poiché da questo se ne dipartiva un altro, più stretto, che raggiungeva il cortile senza nome. La luce del giorno e la confusione del mercato rendevano tutto diverso. Mi fermai frastornato. Era come la ricerca della torre, pensai. Non l’avrei mai trovato. Una ragazzina mi si avvicinò offrendomi vasetti di miele, ma desistette subito. Dietro un mucchio di pelli appese, scorsi un arco di pietra sormontato da una testa di unicorno. Mi feci strada fra buoi, conigli, castori, ghibetti, volpi, tutti ridotti a piatti simulacri, da cui emanava l’odore acre della concia. Mi addentrai nell’androne. Ecco: a destra un arco tanto basso che alzando la mano quasi riuscivo a toccarne la sommità. In fondo, sulla parete di sinistra, si scorgeva un vago riflesso di luce. Ricordavo che il passaggio piegava bruscamente a destra. Come se si perdesse nelle viscere stesse di Morraine...

La neve, adesso, ricopriva per intero il selciato del cortiletto, e formava quasi una barriera all’uscita del corridoio, che alla luce del giorno appariva ancora più simile a un pozzo.

Mi fermai sotto l’arco. Non si sentiva il più piccolo rumore: come se Morraine fosse diventata una città morta... no: immersa in un sonno magico, come in una favola che mi era stata raccontata da bambino.

Alzai gli occhi. Un uccello nero attraversò obliquamente il quadrato di cielo grigio. Da un davanzale si staccò una falda di neve, che atterrò con un tonfo fragile. La finestra era protetta da una inferriata, dietro cui si intravedevano dei vetri sporchi, come di una stanza disabitata da molto tempo.

Anche alla luce del giorno non si scorgeva alcuna porta nel perimetro del cortile. Il muro del fianco destro era interrotto verticalmente da un contrafforte, che ricordavo di aver incontrato avanzando a tentoni nel buio. Era anche la direzione verso cui avevo visto sparire le impronte dell’alchimista.

Adesso il manto di neve era uniforme, e provavo una vaga riluttanza a disturbarlo.

Iko, mi dissi: è solo un cortile. E mi spinsi in mezzo alla neve.

Giunto al centro del cortile vidi: un gradino che spuntava dalla neve, nell’angolo fra il contrafforte e il muro; una porticina di legno annerito, larga non più di tre palmi, sopra il gradino; sopra la porta, molto in alto, una fenditura larga altrettanto, che saliva fino al tetto (anzi: i tetti, come se ci fossero due case separate!); e in fondo alla fessura, una torre che poteva o non poteva essere quella da cui ero fuggito qualche mese prima, e che avevamo cercato invano per tutta Morraine.

Dopo un tempo indefinito, ma sufficiente perché la neve sciogliendosi mi penetrasse nelle scarpe, mi avvicinai al contrafforte, e ripetei più o meno i gesti della sera prima. La mia mano passò dalla pietra dello spigolo a quella del muro, saltando la porta.

Tirai un sospiro. Un mistero, almeno, era risolto. Restava da spiegare come avesse fatto l’alchimista ad aprire la porta, che appariva priva di qualsiasi serratura. La spinsi, con una certa riluttanza, ma non si mosse di un’unghia. Fantasticai di qualche meccanismo segreto e tastai il muro intorno alla porta, e anche il gradino fin sotto la neve, trovando solo pietre molto corrose, con la malta fra gli interstizi quasi del tutto dilavata.

Mi resi conto che quella doveva essere una delle costruzioni più antiche di Morraine.

Alzai gli occhi, con un senso quasi di vertigine, e guardai nel varco fra i due edifici. Era un corridoio strettissimo... anzi... cercai nella memoria la parola che dovevo aver letto sui libri, perché non si usa a Morraine... un vicolo. Un uomo dalle spalle larghe avrebbe potuto percorrerlo solo di sbieco. La lunga striscia di cielo, fra i muri privi di finestre, sembrava una spada sul punto di calare.

Tornai al centro del cortile, da dove si poteva scorgere la torre. Forse era davvero quella del Cortile Segreto: la posizione corrispondeva. La piccola porzione visibile non mostrava comunque alcuna corda.

Un’altra falda di neve, cadendo vicino, mi fece sobbalzare. Mi guardai alle spalle. Il vetro di una finestra mandò un bagliore di luce grigia, come se si fosse mosso.

Non c’era altro da fare, lì. Con un senso di sollievo, abbandonai il cortile senza nome e ritrovai il consueto trambusto di Morraine.

(10) LA MAPPA