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Era quasi il tramonto di una calda giornata di fine maggio e la luce rossastra del sole donava dei colori spettacolari alla stupenda piazza in cui più di tre secoli prima era nato l’imperatore Federico II di Svevia. Disse a se stessa che avrebbe dovuto ricercare il significato dei simboli rinvenuti nella cripta nel Diario di famiglia, in quel prezioso manoscritto che le aveva consegnato la nonna. Ma ora doveva calmarsi, e decise di fare due passi per la città. Attraversò la piazza, raggiungendo il lato opposto, svoltò a sinistra e discese per la Costa dei Longobardi, per raggiungere la parte a valle del centro abitato, dove vivevano mercanti e artigiani. I palazzi erano meno sontuosi rispetto a quelli della parte alta della città, ma erano comunque arricchiti di elementi decorativi, con rifiniti portali e cornici intorno alle finestre. Le facciate erano quasi tutte abbellite dall’intonaco, pitturato in colori pastello, quali celeste, giallo, ocra, arancione tenue; era difficile che venissero lasciate in mattoni faccia a vista, come invece era per i palazzi signorili su al centro. A ricordare che quelle dimore erano state costruite grazie ai soldi guadagnati da chi vi abitava, spesso sugli architravi dei portali o delle finestre del primo piano comparivano delle scritte come “De sua pecunia” o “Suum lucro condita – Ingenio non sorte”. In fondo alla Costa dei Longobardi, svoltando a destra, in breve si poteva raggiungere la chiesa dedicata all’apostolo Pietro, fatta edificare proprio dalla comunità Longobarda residente a Jesi nella seconda metà del secolo decimo terzo. “Principi Apostolorum – MCCLXXXXIIII”, si leggeva sopra il portale; chi aveva inciso la data non aveva più molta memoria di come andassero scritti i numeri in latino, o forse non l’aveva mai saputo essendo un architetto di origine bizantina, abituato già ad avere a che fare con le cifre arabe, molto più semplici da memorizzare. Di fronte alla chiesa, il Palazzo dei Franciolini, appena finito di costruire, era la residenza del Capitano del Popolo, Guglielmo dei Franciolini. Anch’egli aveva fatto la sua fortuna come mercante dato che, dopo la scoperta del Nuovo Mondo, nuovi canali commerciali erano sati aperti e molte nuove mercanzie erano giunte anche a Jesi. Chi aveva potuto aveva approfittato, ed era riuscito in poco tempo ad accumulare notevoli ricchezze. Lucia si soffermò sul ricco portale del palazzo, limitato da due colonne e da alcune piastrelle quadrate di pietra arenaria, decorate con raffigurazioni di Dei e simboli dell’epoca romana.
Con tutta probabilità, nello scavare le fondamenta dell’abitazione, erano stati rinvenuti elementi decorativi di una casa di qualche patrizio romano, e questi erano stati riutilizzati per abbellire il portale. Lucia riconobbe il Dio Pan, Bacco, la Dea Diana, e poi ancora dei gigli a tre punte, e… una stella a sei punte formata da due triangoli incrociati tra loro - strano, non era forse il simbolo degli ebrei? – e ancora una stella a cinque punte, un pentacolo, e… un disegno a sette punte inscritto in un cerchio, simile in tutto e per tutto a quello che aveva visto poco prima nella cripta. Questi ultimi disegni non potevano risalire all’epoca romana, e infatti, osservando con attenzione le piastrelle su cui erano realizzati, si notava che queste erano di fattezza diversa, più recenti rispetto alle altre, forse realizzate all’uopo per decorare il portale. Ma che significato aveva tutto ciò? In quella piazzetta conviveva il sacro con il profano: da un lato la chiesa dedicata al principale degli apostoli, a Pietro, il primo Papa della storia del cristianesimo, dall’altro figure pagane e simboli che potevano accusare il padrone di casa di essere un eretico. Eppure lo zio Cardinale era in buoni rapporti con il Franciolini, addirittura le aveva proposto il figlio come suo futuro sposo! Più guardava quei simboli, più Lucia pensava che quel luogo avesse qualcosa di magico. Forse quel palazzo era stato costruito sopra i ruderi di un tempio pagano, e aveva mantenuto le sue peculiarità. Cercò di concentrarsi, di aprire il suo terzo occhio alla veggenza, invocò il suo spirito, per farlo librare in alto e scrutare elementi che altrimenti non avrebbe visto. Già tra le sue mani disposte a coppa si stava materializzando la palla semifluida dai colori variopinti, quando il portone del palazzo si spalancò all’improvviso, mostrando nella penombra un giovane che indossava una leggera armatura da battaglia, a cavallo di un potente destriero a sua volta bardato in testa a protezione di eventuali colpi che potevano essere inferti da spade e lance.
Il cavaliere reggeva con la mano destra il gonfalone della Repubblica Jesina, rappresentante il leone rampante ornato dalla corona regale. Non appena il portone fu del tutto aperto, spronò il cavallo all’esterno, quasi travolgendo Lucia che era lì davanti. La ragazza, spaventata, si deconcentrò, e la sfera subito scomparve. Il cavallo, di fronte all’ostacolo imprevisto, si impennò, scalciando in aria con le zampe anteriori. Lucia sentì uno zoccolo a brevissima distanza dal suo viso, ma non si lasciò prendere dal panico e infisse il suo sguardo negli occhi azzurro mare del cavaliere, che aveva la visiera dell’elmo sollevata. Per un attimo si perse in quegli occhi, il cavallo si acquietò e il cavaliere ricambiò lo sguardo alla damigella, fissando a sua volta gli occhi nocciola della ragazza. Ci fu un momento di calma, di totale silenzio, l’incrocio dei due sguardi sembrava aver fermato il tempo.
Chi era quel bel cavaliere, pronto a un’ipotetica battaglia in difesa della propria città? Era forse Andrea? Se così fosse stato, avrebbe dovuto essere grata al suo malvagio zio! Ma forse il Franciolini aveva altri figli. Non ebbe il tempo di aprire bocca, perché dopo pochi istanti, le campane della chiesa di San Pietro iniziarono a suonare, e a esse via via si unirono quelle della chiesa di San Bernardo, poi quelle di San Benedetto, e infine quelle di San Floriano. Lanciando un ultimo sguardo a Lucia, il cavaliere spronò di nuovo il cavallo, raggiungendo la limitrofa Piazza del Palio, l’enorme spiazzo all’interno delle mura, dominato dal Torrione di Mezzogiorno. In breve, altri cavalieri in armi si strinsero attorno a colui che stringeva in mano il gonfalone, poi arrivò anche gente a piedi, armata di balestre, pugnali e qualsiasi altra arma potesse essere usata contro il nemico.
«Gli anconetani ci stanno attaccando!», gridò il nobile Franciolini. «Li hanno avvistati le nostre vedette dal Torrione del Montirozzo. Oggi, 30 Maggio 1517, ci prepariamo a difendere le mura della nostra città.»
Tutte le porte furono chiuse, la maggior parte degli uomini a piedi si dispose sugli spalti, mentre i cavalieri si assiepavano nel piazzale all’interno di Porta Valle, pronti alla sortita contro il nemico. Ma per quella notte, l’esercito anconetano, guidato dal Duca Berengario di Montacuto, non si avvicinò a Jesi, rimase accampato più a valle, a poche leghe dal centro abitato di Monsano, seminascosto nella boscaglia ripariale in prossimità del Fiume Esino.
Per alcuni giorni rimase l’allerta. All’imbrunire le scolte raggiungevano gli spalti, a rafforzare la guardia di solito demandata ad alcune vedette, e dalle mura risuonava il richiamo di un canto che da parecchi anni la popolazione non sentiva più:
«Squilla la tromba che già il giorno finì,
già del coprifuoco la canzone salì!
Su, scolte, alle torri guardie armate, olà,
Attente, in silenzio vigilate!»
Il Capitano del Popolo aveva imposto il coprifuoco alla cittadinanza. Alle nove di sera, chi non saliva sugli spalti delle mura, aveva l’obbligo di ritirarsi in casa. Ma la guardia era destinata ad abbassarsi presto. Per la sera del 3 Giugno era prevista la festa a Palazzo Baldeschi, in cui sarebbe stato annunciato il fidanzamento della nipote del Cardinale, Lucia, con il cadetto di casa Franciolini. In quei giorni, ogni volta che Lucia incrociava gli occhi di suo zio, anche se non era capace di leggere i suoi pensieri, nel suo volto vedeva disegnata una sola parola: “tradimento”. Ma non riusciva a capacitarsi quale interpretazione dare a quella parola, al contempo così semplice e così complessa.
CAPITOLO 2
Guglielmo dei Franciolini, Capitano del Popolo di Jesi, era un saggio amministratore, e sapeva bene che non era il caso di autorizzare una sontuosa festa proprio nei giorni in cui il nemico era alle porte della città. Ma non poteva andare contro il Cardinale, rinverdendo ancora una volta i dissapori tra autorità civili ed ecclesiali. Giusto pochi anni prima, il Palazzo del Governo era stato terminato e inaugurato con la benedizione dello stesso Papa Alessandro VI, che aveva concesso alla cittadinanza jesina di continuare a fregiare il leone con la corona regale, purché nella città e nel contado fosse osservata l’autorità ecclesiastica. Tanto che sulla facciata del palazzo si poteva leggere, al di sopra del simbolo della città, la scritta “Res Publica Aesina - Libertas ecclesiastica – MD”. E quindi il famigerato Papa Rodrigo Borgia aveva accordato una certa libertà alla Repubblica Jesina, purché si assoggettasse comunque al potere della Chiesa. Con quest’accordo, agli jesini furono anche risparmiati gli orrori perpetrati nel resto delle Marche dal figlio del Papa, Cesare Borgia, che si era proposto di diventare signore assoluto della Romagna, dell’Umbria e delle Marche con la ferocia e il tradimento. Era storia passata, di quasi vent’anni prima, ma comunque Guglielmo doveva rispettare i patti. Inoltre, era proprio il fidanzamento di suo figlio Andrea con la nipote del Cardinale a suggellare ancor di più l’accordo tra guelfi e ghibellini della sua città. In fin dei conti, il nemico era accampato da qualche giorno sulle rive del fiume, parecchio più a valle, e non accennava a muoversi. In quelle notti di coprifuoco, le vedette e le scolte non avevano notato movimenti; i fuochi di bivacco dell’accampamento erano ben visibili, quasi tenuti accesi a bella posta per tutta la notte dagli anconetani. Il timore, non infondato, di Guglielmo e di suo figlio Andrea, era che tutto ciò fosse un trucco. Forse i nemici aspettavano rinforzi per attaccare, o forse attiravano l’attenzione degli jesini su quel piccolo accampamento, mentre il grosso dell’esercito sarebbe apparso altrove. Il pomeriggio di giovedì 3 giugno era stato particolarmente caldo. Mentre Guglielmo si preparava per la cerimonia, aiutato da alcuni servi a indossare eleganti e colorati abiti di broccato, che contribuivano ad aumentare in maniera notevole la sua produzione di sudore, finiva di impartire ordini ai comandanti delle sue guardie.
«Dai vespri in poi tutte le porte della città devono essere chiuse. Predisponete anche delle catene nelle strade principali, in modo che, in caso di irruzione del nemico, venga ostacolato il suo procedere.»
Il luogotenente lo interruppe.
«Il Cardinale ha dato disposizioni opposte, mio Signore. Vuole che tutte le porte della città siano lasciate aperte, in modo che i nobili che risiedono nel contado abbiano facile accesso al centro abitato, per raggiungere il suo palazzo e la festa. Non possiamo contraddirlo.»
«Rafforzate la guardia alle mura!», gridò concitato il Capitano, battendo un pugno sul tavolo a sottolineare il suo ordine.
«Anche qui, ho i miei dubbi di poterlo fare. Il Cardinale, ai fini della sicurezza, vuole la maggior parte delle guardie armate schierate intorno al suo palazzo.»
«Il Cardinale, il Cardinale!» Guglielmo stava diventando paonazzo per l’ira e per il caldo. «Così rischiamo di consegnare la città al nemico! E sia, ma chiuderemo tutte le porte della città all’imbrunire. Lasceremo aperta solo Porta San Floriano, da dove i nobili ritardatari potranno raggiungere agevolmente Palazzo Baldeschi. Non abbiamo mai subito assalti dalla parte occidentale della città. Il nemico assale sempre da Valle, giungendo dalla piana dell’Esino. Sarebbe poco agevole per un esercito giungere dalla parte delle colline. Inoltre a occidente le mura sono parecchio alte e subito dentro Porta San Floriano abbiamo un fortino dotato di una bombarda, a ulteriore difesa. Preparate il mio destriero, e chiamate mio figlio. È ora di andare: sfileremo in corteo con i cavalli bardati per le vie del centro prima di giungere al Palazzo del Cardinale.»
Arrosti della più disparata varietà di selvaggina, zuppe, insalate e paste, già nel tardo pomeriggio erano state disposte sulla grande tavolata in cui avrebbero preso posto gli ospiti. Il Cardinale teneva Lucia per mano, mentre i servi spruzzavano gli arrosti, in particolare le gru, i pavoni e i cigni, di succo d’arancia e di acqua di rose, al fine di renderli più appetitosi. I filetti di manzo, una volta bolliti, venivano cosparsi di spezie e zucchero. Particolare attenzione era stata riservata ai contorni, verdure di tutti i tipi e di tutti i colori, che più che per essere mangiate, servivano ad allietare gli occhi dei commensali e stimolare l’appetito. Nelle zuppiere facevano mostra di sé minestre dei vari colori. Le zuppe, che di solito venivano servite come dessert, avevano un sapore dolce ed erano condite con zucchero, zafferano, semi di melograno ed erbe aromatiche. Il vero brodo, quello preparato facendo bollire una miscela di carni, verdure e spezie in acqua, era utilizzato come primo piatto, soprattutto nelle campagne e nei castelli della nobiltà contadina. Il brodo veniva bevuto mentre la carne, tolta dal brodo, veniva mangiata a parte e servita con erbe aromatiche. Il Cardinale aveva dato ordine ai cuochi di non servirne, mentre aveva fatto invece cucinare una novità, originaria della corte di Carlo VIII, i maccheroni, ottenuti dalla semola del grano modellata in forma di vermicelli e conditi in salse a base di olio d’oliva, burro e panna. In due tavoli a parte erano stati disposti i dolci, torte alle mele e pan di Spagna, e la frutta, mele, mele cotogne, castagne, noci e frutti di bosco. I vini nelle brocche erano quelli tipici del contado, Verdicchio e Malvasìa. Solo due brocche contenevano un vino rosso, pregiato dono fatto al Cardinale dal Granduca di Portonovo qualche anno prima. Nel tavolo dei dolci, invece, il vino era quello di visciola, proveniente dalle campagne di Morro d’Alba.
«Gli ospiti inizieranno ad arrivare a momenti», disse il Cardinale, rivolto a Lucia, liberandola finalmente dalla stretta della sua gelida mano. La giovane non era mai riuscita a capire come mai lo zio avesse delle mani sempre così fredde, quasi il sangue non scorresse sotto la sua pelle. Neanche il contatto prolungato con la sua, molto più calda, era stato in grado di far aumentare di un poco la temperatura di quella di Artemio. «Andiamo a preparaci.»
Così dicendo, si ritirò nelle sue stanze per agghindarsi in pompa magna, mentre due giovani serve si avvicinarono alla nipote. L’avrebbero condotta nella toilette, per dedicarsi a lei, facendole fare prima un bagno profumato, poi imbellettandola e infine facendole indossare un sontuoso abito di seta verde. Mentre si lasciava accudire, Lucia ripensava agli occhi di Andrea Franciolini. E già! In quei giorni si era informata, e il bel cavaliere di cui aveva incrociato fugacemente lo sguardo era proprio il suo promesso sposo. E si era innamorata dei suoi occhi, del suo viso, del suo portamento, era come se da sempre ci fosse stata un’affinità alchemica con lui. Già lo sentiva parte di lei stessa, parte della sua stessa anima, tutto il suo corpo vibrava al pensiero che da lì a poco avrebbe potuto parlare con lui, conoscerlo meglio, fissare lo sguardo nei suoi occhi, che non le avrebbero di sicuro celato nulla. Si affacciò dalla finestra della stanza, provando però una sensazione strana: il cielo di quella lunga giornata che stava volgendo al tramonto era plumbeo. Una cappa di afa, di umidità, attanagliava la città, infondendo nel suo cuore la sensazione che qualcosa di brutto sarebbe accaduto a breve, e che questo qualcosa si sarebbe ripercosso anche nel lungo termine. Ma che cosa? Non riusciva a capacitarsene, neanche con i suoi poteri di veggenza. La mente dello zio, come al solito, anche quel giorno era stata ermeticamente sigillata, ma quando guardava i suoi occhi solo una parola continuava a risuonare nella sua testa: “Tradimento”. Perché? Avrebbe voluto far materializzare la sua sfera, lanciarla in alto nel cielo affinché vedesse per lei, ma non poteva farlo proprio ora, davanti a dei testimoni. Mentre la serva bionda e alta le finiva di allacciare il vestito dietro la schiena, quella di corporatura più minuta e dai capelli scuri, le faceva indossare i gioielli, collane e braccialetti d’oro e pietre preziose, di squisita fattura, fatti forgiare dal Cardinale apposta per lei da orafi della scuola di Lucagnolo. In quel momento, Lucia avvertì come un mancamento, sentì una fitta al cuore come se qualcuno lo stesse trafiggendo con un pugnale, o con una spada. Si accasciò sulla sedia perdendo conoscenza per qualche istante.
«Mia Signora, mia Signora, come vi sentite?» La voce della serva mora arrivava ovattata alle sue orecchie.
«Non è nulla, è solo colpa del caldo, di quest’afa maledetta, e dell’emozione. Già sto meglio.»
Lucia non aveva associato la sua sensazione a ciò che, di lì a poco, sarebbe accaduto a breve distanza dal suo palazzo, al suo amato Andrea.
Esecutrice della barbara aggressione di quel giorno fu la soldataglia di Francesco Maria della Rovere, duca di Montefeltro e già gonfaloniere della Chiesa. Poiché il nuovo Pontefice, Leone X, l’aveva spogliato del suo Stato, egli per vendicarsi aveva assoldato come mercenari soldati spagnoli e guasconi e, dopo aver saccheggiato molti castelli devoti al Papa, si era diretto verso Jesi, al fine di conquistare questa roccaforte papale, con l’aiuto degli anconetani guidati dal duca di Montacuto e grazie al segreto appoggio della più alta carica ecclesiastica della città, il Cardinale Baldeschi. Come promesso dal Cardinale, la soldataglia proveniente dalle colline a occidente di Jesi, trovò Porta San Floriano aperta, ebbe facile ragione delle guardie del Fortino, attaccate di sorpresa, e si trovò in breve nella Piazza del Mercato, proprio nel momento in cui il corteo del nobile Franciolini, proveniente da Via delle Botteghe, giungeva nella stessa piazza.
Il Franciolini e i suoi non erano pronti alla battaglia, non indossavano armature, stavano andando a una festa e avevano con sé solo armi leggere.
«Tradimento!», gridò Guglielmo scendendo da cavallo e affrontando uno spagnolo armato di spada con un corto pugnale. «Incatenate le strade, non lasciateli andare verso valle, o apriranno le porte all’esercito anconetano, e saremo stretti tra due morse.»
Solo con la forza delle braccia e il suo corto pugnale, aveva già atterrato due spagnoli, lasciandoli in una pozza di sangue. Guglielmo era un abile combattente ed era veloce a spiazzare il nemico. Non appena vedeva l’avversario titubante, gli piantava il coltello nel cuore, poi lo estraeva, puliva la lama sui suoi vestiti e ricominciava a combattere. Le avanguardie nemiche non indossavano infatti armature ed era facile aver ragione di loro. Ma i nemici uscivano da Via del Fortino a decine, a centinaia, come un fiume in piena i cui argini non riescono a trattenere le acque. Un balestriere spagnolo prese la mira e puntò la sua arma contro Andrea, che era ancora fiero in sella al suo cavallo. Il giovane si era trovato altre volte nel pieno della battaglia e non aveva dato peso al fatto che in quel momento non indossava un’armatura, ma un colorato abito di broccato. Fece impennare il suo destriero, per lanciarsi nella mischia, quando fu colpito alla coscia destra. Altre frecce raggiunsero sia il cavallo che il cavaliere. Andrea cadde al suolo, con almeno quattro dardi che lo trafiggevano. Il suo cavallo, colpito in pieno petto, rovinò senza vita sopra di lui. Cercò, senza riuscirci, di sgusciare via dalla massa del pesante animale, ma le forze lo stavano abbandonando. Guglielmo, accortosi del figlio atterrato, si girò verso di lui, distraendosi dalla tenzone e girando le spalle al nemico per andarlo a soccorrere. Vide le palpebre di Andrea abbassarsi, lo chiamò, ma non ebbe risposta. Capì che il suo cadetto stava ormai perdendo i sensi, forse stava per morire. Proprio in quel momento una lunga lama lo trapassò, penetrando da dietro la schiena, facendosi strada tra le costole, squarciando il cuore e fuoriuscendo dal petto, accompagnata da un potente fiotto di sangue. Guglielmo sbarrò gli occhi che, nel momento del trapasso, stavano ancora fissando il prode figliolo agonizzante.
Avuto facilmente ragione di quel piccolo manipolo di uomini, spagnoli e guasconi dilagarono per le strade della città. Alcuni risalirono Via delle Botteghe fino alla Porta della Rocca, sorprendendo i militi a guardia, uccidendoli e aprendo la porta. Altri scesero verso valle per aprire Porta Valle e Porta Cicerchia e favorire così l’ingresso in città dell’esercito anconetano, che da giorni non aspettava altro che quel momento. Seppur colti di sorpresa, gli abitanti cercarono di organizzare una difesa nell’interno del centro abitato, spronati da alcuni nobili, in particolare da Fiorano Santoni, che radunò subito uno squadrone di genti che, incatenate le strade come predisposto dal Capitano del Popolo, s’approntò a combattere il nemico tra le vie, i vicoli e le piazze. Ma quest’ultimo, forte dell’apporto degli anconetani, era troppo numeroso e gli Jesini, avviliti dalle grida e dal pianto delle donne e dei fanciulli, abbandonarono la difesa.
Soprattutto i mercenari al soldo di Francesco Maria Della Rovere erano assetati di razzia e gli abitanti, considerando che non avevano potuto salvare la patria, cercarono almeno di mettere in salvo i loro beni, ma anche in questo non ebbero successo: i gentiluomini ricchi vennero fatti prigionieri e le loro donne, che avevano cercato scampo, con i gioielli, nelle chiese, si videro raggiunte dagli spagnoli anche all’interno dei luoghi sacri, dove essi non disdegnarono di spogliarle di quanto di prezioso avevano addosso e di stuprarle. A un certo punto, una donna, tale Eleonora Carotti, dal portamento altero e maschio, riuscì a sferrare uno schiaffo a un guascone che le stava ponendo le mani nel seno per toglierle i gioielli che vi aveva nascosto e al contempo approfittare per palpeggiarla.
Si ritrovò tra lui e un altro gruppo di soldati spagnoli. Se il guascone schiaffeggiato era rimasto di stucco, senza reagire, gli altri non si erano persi certo d’animo, avevano atterrato la donzella, l’avevano spogliata dei suoi abiti e, assicuratisi che era una donna a tutti gli effetti, l’avevano violentata uno dopo l’altro, tenendole un coltello piantato alla gola. L’ultimo soldato, raggiunto il suo malsano piacere, affondò il coltello, sgozzandola senza pietà.
Il saccheggio di Jesi durò otto giorni, molti palazzi furono incendiati, alcuni con gli abitanti all’interno, legati perché bruciassero vivi dentro la loro abitazione, colpevoli del fatto che i saccheggiatori non avevano trovato abbastanza denaro o preziosi da portare via. Non ci fu alcun rispetto neppure per le cose sacre, né per i religiosi, e molti sacerdoti vennero torturati e martoriati, affinché confessassero in quali luoghi segreti avevano nascosto gli ornamenti delle chiese. Il saccheggio si estese a tutto il contado e nessun luogo, di città e campagna, venne risparmiato.
Palazzo Baldeschi, che era rimasto sbarrato per tutto il tempo, l’ottavo giorno aprì le porte al Granduca Francesco Maria della Rovere e al Duca Berengario di Montacuto, che venivano accolti a colloquio dal Cardinale. Quest’ultimo si era infatti arrogato il diritto di trattare la resa con gli avversari, non essendo più presente in città autorità civile o ecclesiale più alta in grado di lui.
Dopo che i servi ebbero offerto vino di visciola e dolcetti a base di uva sultanina, a un cenno del Cardinale, si ritirarono chiudendo i tre uomini da soli nello studio.
«Avete superato ogni limite. Gli accordi erano che non avreste trovato ostacoli e avreste dovuto uccidere il Franciolini e il figlio, impadronendovi della città. Una facile conquista, invece per giorni e giorni avete seminato terrore, distruzione e morte», tuonò il Cardinale rivolto ai due Duchi.
«Nessun esercito che si rispetti, soprattutto se costituito da mercenari, rinuncia al bottino di guerra», replicò pacatamente il Della Rovere, concentrando il suo sguardo sull’unghia del dito mignolo della mano destra, forse rammaricandosi del fatto che durante i combattimenti questa si era spezzata. «Noi abbiamo mantenuto la parola data. Ora Voi mantenete la vostra, e ci ritireremo in buon ordine, lasciandovi Signore indiscusso di questa città.»
«E sia!», continuò il Baldeschi, ingoiando il rospo, e comunque soddisfatto in cuor suo di come era andata l’operazione. Se parecchi concittadini ci avevano lasciato la vita, peggio per loro, non era poi un grosso problema. «Come promesso, intercederò presso il Santo Padre affinché a Voi, Granduca Della Rovere, vengano restituite terre e titolo. Potrete ritirarvi a Urbino ed essere rispettato per sempre dai vostri sudditi. Per quanto riguarda Ancona, caro Duca, entro un mese farò versare nelle casse della vostra città diecimila fiorini d’oro, che serviranno ad ampliare e fortificare il porto, ma dovrà essere garantito lo scalo commerciale ai mercanti della città di Jesi. E ora, ritirate i vostri eserciti.»
Francesco Maria Della Rovere diede finalmente l’ordine alle sue truppe di abbandonare la città. Gli invasori se ne andarono con una carovana di ben mille bestie cariche di ogni ben di Dio, oltre che di un largo bottino di denari, preziosi e pezzi d’artiglieria. Dal canto suo, il Montacuto, non fidandosi appieno della parola del Cardinale, ritirò il grosso dell’esercito, ma lasciò una guarnigione a Jesi, che se ne sarebbe andata solo dopo che la città sconfitta avesse versato quanto pattuito.
In quei giorni, Artemio Baldeschi era stato troppo concentrato sul corso degli eventi, per badare a quanto stessero facendo sua sorella e sua nipote, e non si era neanche accorto che la ragazza, da quel famoso giovedì sera, era scomparsa. Dell’assenza si erano ben rese conto le due serve, la bionda e la mora, Mira e Pinuccia, che aspettavano la sicura sfuriata del Cardinale nel momento in cui l’avesse alla fine notata. Le due ancelle sapevano bene che, da quella sera, Lucia era rinchiusa nella dimora dei Franciolini, intenta a curare Andrea, ferito gravemente nello scontro con il nemico, e sapevano bene che se lo zio della ragazza lo fosse venuto a sapere si sarebbe infuriato ancor di più.
La sera della festa, Lucia, finitasi di vestire, era uscita sul balcone del palazzo che si affacciava sulla piazza sottostante e che dominava la stessa, per osservare il corteo del nobile Franciolini che arrivava sul lato opposto, da Via delle Botteghe. Era l’imbrunire e sembrava che tutto andasse bene, che tutto fosse tranquillo, e la brutta sensazione che aveva provato poco prima era già svanita. Ma all’improvviso, da Via del Fortino, erano cominciati a sbucare uomini armati, via via sempre più numerosi, che avevano ingaggiato subito battaglia con gli uomini del corteo al seguito del Capitano del Popolo. Aveva visto il suo amato Andrea colpito dalle frecce, e aveva visto Guglielmo colpito a morte alle spalle. Quel vigliacco con un’enorme spada aveva approfittato di un suo momento di distrazione, per aver visto il figlio ferito, per colpirlo da dietro. Lucia non poteva assistere impotente a quell’orrore, doveva correre in aiuto di Andrea, che oltre le frecce, era oppresso dal peso del suo cavallo che gli era rovinato addosso, forse senza vita. Si precipitò giù per le scale e guadagnò l’androne; stava per aprire il portone d’ingresso quando si rese conto che i combattimenti ormai imperversavano in tutta la piazza e che non era il caso di uscire da lì. Entrò nelle stalle e individuò la porticina laterale di servizio, quella utilizzata dagli stallieri, che dava sul vicolo. La porta di legno era sprangata con un catenaccio dall’interno, le fu facile aprirla e ritrovarsi in una viuzza buia e puzzolente, a pochi metri di distanza dall’antica cisterna romana. Pochi passi e sarebbe stata in Piazza, dal lato della chiesa di San Floriano. Per non farsi notare dalla ressa di combattenti, e attraversare la piazza indenne, doveva utilizzare uno stratagemma. Giusto qualche giorno prima, la nonna le aveva insegnato una specie di incantesimo di invisibilità. Non che questo la rendesse proprio invisibile nel vero senso della parola, ma faceva in modo che potesse passare inosservata agli occhi degli altri. Sperò che funzionasse, recitò la formula e iniziò ad attraversare la piazza, tenendosi sempre rasente ai muri, prima del convento, poi della chiesa di San Floriano, poi di quelli di un palazzo di recente costruzione, poi di Palazzo Ghislieri, giungendo all’angolo dove sia Via del Fortino che Via delle Botteghe sbucavano nella piazza. Se fosse giunta fin lì grazie all’incantesimo di invisibilità o perché nessuno si era curato di lei in quanto indaffarato nella battaglia, non le era dato saperlo. Fatto sta che era giunta accanto al suo amore agonizzante. Ben quattro frecce l’avevano colpito, due alla gamba destra, una alla spalla sinistra, l’ultima trapassava da parte a parte il braccio destro all’altezza del muscolo bicipite. Aveva perso parecchio sangue, ed era in stato di semi-incoscienza, la gamba sinistra schiacciata contro il selciato dal peso del tronco del cavallo. Lucia si concentrò sulla bestia morta, ordinando con la mente la sua parziale levitazione. Il cambiamento di posizione dell’animale fu quasi impercettibile, ma bastò a far sì che, iniziando a tirare Andrea afferrandolo sotto le ascelle, la ragazza riuscisse a liberarlo da quell’infelice posizione. Gli occhi del giovane, come per incanto, ripresero luce, fissando quelli della ragazza per un attimo che lei ritenne sublime, poi si ribaltarono all’indietro, mentre Andrea perdeva del tutto conoscenza. Lucia non disperò, appoggiò due dita sulla doccia giugulare del suo amato e poté avvertire una sia pur fievole pulsazione.
Non tutto è perduto, pensò. Ancora la vita non lo ha abbandonato! Ma devo agire in fretta se voglio portarlo in salvo.
Confidando nei suoi poteri, ma anche e soprattutto nella forza della disperazione e nel profondo amore che già per la seconda volta le avevano ispirato gli occhi di lui, caricò il suo corpo inerte sulle sue spalle, rendendosi conto che non stava neanche facendo uno sforzo sovrumano. Estese l’incantesimo di invisibilità al suo giovane amore e si diresse giù per la Costa dei Longobardi, per raggiungere Palazzo Franciolini. Nessuno degli uomini che stavano combattendo per strada li degnò di uno sguardo, continuando a incrociare le armi e battersi come se Lucia, con il suo pesante fardello, neanche esistesse. Quando fu dinanzi al portone della dimora di Andrea, adagiò in terra il suo corpo esanime e si soffermò ancora una volta su quella piastrella decorata che tanto l’aveva incuriosita, quella rappresentante un pentacolo a sette punte. Ma non era il momento di lasciarsi prendere dalle distrazioni. Afferrò il batacchio attaccato al portone e iniziò a bussare con quanta forza ancora aveva. Uno dei servi di casa Franciolini, un moro muscoloso con un turbante in testa, che il Capitano del Popolo aveva acquistato come schiavo in un suo viaggio a Barcellona, aprì il portone giusto di uno spiraglio, per assicurarsi che non fossero i nemici a bussare alla porta. Quando si rese conto della situazione, in un batter d’occhio, fece entrare la ragazza e trascinò dentro il giovane padrone.
«Per Allah e per Maometto, sia benedetto il loro nome, possa essere io perdonato per averli nominati. Che ne è del Capitano?»
«Il Capitano è morto e se, anziché perder tempo a invocare le tue divinità, non farai quello che ti dico, la stessa fine sarà riservata anche al tuo giovane padrone!»
«Non sembra che ci sia molto da fare per lui. Fra qualche istante la sua anima lo lascerà per ricongiungersi a quella dei suoi avi, e di suo padre, che Allah lo abbia in gloria.»
«Non era musulmano, quindi Allah non lo avrà in gloria. Possiamo fare ancora qualcosa per lui. Portalo in camera e adagialo sul suo letto, poi segui le mie istruzioni e lasciaci soli.»
CAPITOLO 3
Alì fece esattamente ciò che Lucia gli aveva ordinato. Nella dispensa aveva trovato tutte le erbe che occorrevano alla ragazza, compresa la corteccia di salice, di cui non aveva ben chiara la funzione. In cucina non si sarebbe mai utilizzata, eppure i suoi padroni ne tenevano una buona scorta in vasetti sigillati con cura. Solo allora, il servitore moro si era accorto che la dispensa era più un’erboristeria che non un deposito di cose mangerecce. C’erano anche quelle, sì, ma molte delle erbe contenute nei vasetti sapeva bene fossero utilizzate da ebrei e fattucchiere a scopi contrari agli insegnamenti sia della sua religione, che di quella cattolica. In fin dei conti, il Dio cristiano e quello musulmano si assomigliavano molto e, se un uomo era destinato a morire, il proprio Dio lo avrebbe preso comunque in gloria e sarebbe stato felice accanto a lui. Non si poteva pretendere di salvare la vita a chi era già destinato a raggiungere il proprio Padre Onnipotente nel regno dei cieli. Questo pensava Alì, mentre attraversava la Piazza del Palio e risaliva a grandi falcate la Costa dei Pastori, guardandosi bene di non imbattersi nei tafferugli che si erano estesi fin lì. Si fermò davanti al portone indicatogli, quello sulla cui testata era riportata la scritta “Hic est Gallus Chirurgus”.
Un altro stregone!, rimuginò Alì tra sé e sé. Si fa chiamare chirurgo, ma so bene che è il fratello di Lodomilla Ruggieri, la strega arsa viva in Piazza della Morte qualche anno fa. Se non presto attenzione e non cerco di allontanarmi da questa gente, finirò anch’io i miei giorni su una catasta ardente. E anche i miei padroni ci sono dentro fino al collo, lo capisco solo ora che razza di eretici ho servito per anni!
Poi realizzò nella sua mente che, appartenendo a un’altra religione, l’Inquisizione non avrebbe potuto processarlo, e si decise a bussare. Un uomo alto, robusto, dai possenti bicipiti, i capelli lunghi raccolti dietro la nuca in una coda e la barba non rasata da qualche giorno, lo squadrò da cima a piedi. Anche Alì era robusto: al suo paese di origine, nell’alta valle del Nilo, era un campione di lotta libera, non c’era nessuno che riuscisse a batterlo, e l’uomo che aveva di fronte non era armato, per cui affrontò il suo sguardo e gli disse ciò che aveva da riferirgli.
«Capisco, prendo i miei attrezzi e ti seguo. Aspettami qui, Palazzo Franciolini è a poca distanza, ma preferisco fare il tragitto in tua compagnia. In due potremmo affrontare meglio eventuali facinorosi.»
Gallo sparì per pochi istanti all’interno della sua dimora e riapparve con una pesante borsa in pelle di vitello, che conteneva gli attrezzi del mestiere e che, a giudicare dall’aspetto, dovevano essere ben pesanti. Attraversarono la piazza passando accanto a gente che combatteva aspramente. Il chirurgo riconobbe un suo amico in uno jesino che veniva abbattuto a colpi di spada e fece per precipitarsi a soccorrerlo. Ma Alì fu lesto a tirarlo per un braccio e farlo desistere dall’intento. Non era proprio il caso di farsi notare e impegnarsi in una battaglia che aveva preso ormai una brutta piega per gli abitanti della città. Era più urgente soccorrere il suo giovane padrone. Alì e Gallo si infilarono nel portone di Palazzo Franciolini, che il moro provvide a sprangare dall’interno. Non avrebbe voluto più mettere il naso fuori da lì neanche per tutto l’oro del mondo, finché i combattimenti non si fossero placati, non sapendo che di lì a poco gli sarebbe stata imposta un’uscita per una commissione ancor più pericolosa di quella appena portata a termine.
Alì osservò Gallo estrarre con delicatezza tre frecce dal corpo di Andrea, mentre Lucia, al suo fianco, era pronta a tamponare il sangue che fuoriusciva non appena l’arma acuminata veniva estratta, utilizzando panni freschi di bucato e applicando l’impiastro a base di erbe che essa stessa aveva preparato in cucina. L’ultima freccia, quella che attraversava il braccio del giovane da parte a parte non voleva saperne di uscire, per quanto Gallo tirasse con decisione.
«Bastardi, hanno utilizzato frecce con rostri, vanno solo in avanti, non si riesce a tirarle indietro. Dovrò spezzare la coda a bilanciere e far fuoriuscire la freccia dal davanti, incidendo col bisturi la cute del braccio in corrispondenza del foro di uscita, ma rischierò di provocare un’emorragia fatale. Sei pronta a tamponare?»
«Sì», rispose Lucia, «sono pronta!»
Alì si rese conto che solo la forza della disperazione impediva a Lucia di svenire, anche se la vista e l’odore del sangue stavano ormai ottundendo i suoi sensi. Rendendosi conto che la ragazza non ce l’avrebbe fatta ad assistere ancora Gallo, Alì fece un respiro profondo e, non appena il chirurgo finì di estrarre la freccia, si fiondò a tamponare la copiosa emorragia. In meno di un istante, la pezza che teneva in mano si era tinta di rosso, e gli faceva percepire al tatto una sensazione viscida davvero sgradevole. In vita sua Alì non aveva mai provato nulla di simile, ma doveva farsi forza. Gallo strappò una striscia di lenzuolo, legandolo stretto attorno al braccio di Andrea, a monte della ferita. Il flusso di sangue si attenuò.
«Non possiamo lasciare il braccio così stretto a lungo, o lo perderemo e sarò poi costretto ad amputarlo a causa della gangrena che si verrà di certo a formare. Ho bisogno di un potente coagulante e cicatrizzante, e il più potente è l’estratto di placenta umana. Alì, devi andare dalla levatrice, lei ha sempre a disposizione placente essiccate e…»
«Ma, la levatrice abita fuori Porta Valle, è troppo pericoloso andare in quella zona!»
«Allora credo che ci sarà poco da fare per il ragazzo.»
Per fortuna, Alì conosceva un passaggio che, attraverso le cantine del palazzo, conduceva fuori delle mura, in prossimità del vallato, dove una corporazione di lavoratori del contado, guidati dalla famiglia Giombini, stavano realizzando un nuovo mulino per la molitura dei cereali. Come fuoriuscì dalla porticina che si apriva nelle mura di levante, ben nascosta da un folto cespuglio, si rammaricò alla vista del costruendo mulino, che era stato in parte raso al suolo dalla furia del nemico. Ma non poteva soffermarsi su quel particolare. La struttura semidistrutta gli offrì riparo dalla vista della soldataglia anconetana, che stava continuando a entrare in città da Porta Valle. Alì si diresse con decisione verso la chiesetta di Sant’Eligio, vicino alla quale abitava Annuccia, la levatrice. Quest’ultima, quando vide il moro, sul momento si impaurì, pensando che fra gli invasori ci fossero anche i saraceni, poi riconobbe Alì e lo fece entrare in casa.
«Sei pazzo ad andartene in giro da queste parti? Stavo per farti secco con questo», gli disse Annuccia, mostrandogli l’alare del camino che teneva stretto in pugno. «Non sono certo intenzionata ad arrendermi e farmi stuprare da questa gentaglia!»
«Ho bisogno di aiuto per il mio Signore, Annuccia. Il Capitano è stato ucciso dal nemico e il giovane Signore è gravemente ferito e ha urgenza di cure.»
Dopo pochi minuti, Alì usciva dalla casa della levatrice, custodendo gelosamente ciò che quest’ultima le aveva affidato e per cui aveva dovuto sborsare ben tre denari d’argento. Riguadagnò la porticina nascosta e tornò nel palazzo dei Franciolini, consegnando a Gallo il prezioso involucro. Il chirurgo prese la placenta secca, la infilò in un calderone di acqua bollente, aggiunse alcune erbe, tra cui il raro Artiglio del Diavolo, e nel giro di una mezz’ora ottenne un impiastro denso, dall’odore sgradevole, che andò a disporre in un vaso d’argilla. Alì prese in mano il recipiente e seguì Gallo nella stanza di Andrea, dove Lucia stava finendo di ripulire dal sangue il corpo seminudo del giovane. Il chirurgo allentò il rudimentale laccio emostatico, mentre la ragazza apponeva sulla ferita un abbondante strato di impiastro, avvolgendo poi una fascia abbastanza stretta, ma non troppo, intorno all’arto offeso. Andrea, nella sua semi incoscienza, fece una smorfia di dolore, che rincuorò tutti i presenti: era ancora vivo, e vigile, anche se molto debole.
«Più di questo non posso fare. I giorni prossimi avrà bisogno di assistenza continua, la febbre salirà, dovrete rinfrescargli la fronte con pezze bagnate e fargli ingerire infusi di corteccia di salice, sperando che riesca a superare non solo l’abbondante perdita di sangue, ma anche l’infezione che si verrà a formare. Se da questa ferita inizierà a fuoriuscire pus verde, potrete cominciare a dargli un addio. Se invece vedrete del pus giallo, quello che noi chirurghi definiamo “bonum et laudabile”, significherà che è in via di guarigione. Ma tu, Lucia, non rimanere qui a lungo: tuo zio presto noterà la tua assenza, e allora credo che per te saranno guai. Addestra il moro ad assistere il suo giovane padrone e ritornatene a casa.»
«Sia mai!», replicò la giovane. «Starò accanto a lui finché non sarà guarito. È il mio promesso sposo e non posso certo abbandonarlo ora.»
«Promesso sposo, dici? Mah, credo proprio che l’intento di tuo zio fosse quello di non farlo giungere avanti all’altare. Non sono un indovino, ma penso che la festa di oggi fosse tutta una farsa per far trovare porte aperte al nemico e morte per il Capitano del Popolo e il suo cadetto. Ti rendi conto che ora il tuo zietto è la massima autorità sia religiosa che politica di Jesi? Fai come vuoi, ma non credo che il Cardinale sia felice di saperti qui ad accudire il cadetto di casa Franciolini.»
Gallo raccolse i suoi strumenti, li pulì con cura, li rimise in borsa, salutò la ragazza con un sorriso, e il moro proclamando un: «Salam Aleikum, la pace sia con te, fratello, e grazie per il tuo prezioso aiuto.»
«Aleikum as salam, grazie a te per le preziose cure che hai offerto al mio padrone, sono certo che se la caverà.»
«Forse dalle ferite» , sentenziò Gallo, chiudendo il pesante portone dietro di sé. «Ma non di certo dalle grinfie del Cardinale Artemio Baldeschi.»
Nei successivi quattro giorni, Andrea rimase in preda alla febbre, accompagnata dai suoi brividi e dai suoi deliri. Lucia gli era stata vicina per tutto il tempo, facendo tutto ciò che le aveva consigliato Gallo e tutto quello di cui era a conoscenza per averlo appreso dalla nonna Elena. Nel delirio, Andrea spesso nominava la strega Lodomilla, parlava degli strani simboli disegnati nella piastrella del portale insieme al pentacolo a sette punte, parlava di un ebreo che lo aveva iniziato a una forma di conoscenza particolare, nominava a volte il re biblico Salomone, a volte una delle mogli dell’Imperatore Federico II, Jolanda di Brienne. Spesso pronunciava, tra altre parole confuse, il nome di un luogo, noto anche a lei: Colle del Giogo. Quella località, che si trovava nel vicino Appennino a un paio di giorni di cammino da Jesi, le faceva tornare alla mente il rito con cui, alcuni mesi prima, era entrata ufficialmente a far parte della setta delle streghe adoratrici della “Buona Dea”. Qualche giorno prima dell’equinozio di primavera, la nonna aveva detto a Lucia di tenersi pronta, in quanto la notte del 21 marzo avrebbero raggiunto le altre adepte e adepti della congrega su a Colle del Giogo, nelle montagne di Apiro.
«Lo zio dice che sono riti pagani, che la maggior parte degli adepti sono eretici e stregoni da mandare al rogo.» Lucia aveva un po’ timore, ma la curiosità prevaleva sulla paura. «Non credi che sia pericoloso partecipare a questa riunione, a questo Sabbah, come lo chiami tu?»
La nonna si era stretta nelle spalle, come a dire che se ne infischiava alquanto di ciò che pensava il fratello, e le aveva risposto con molta naturalezza.
«Quando parliamo di divinità, parliamo di entità soprannaturali, che con la loro infinita bontà possono indicarci vie da seguire, strade che solo con i nostri occhi non riusciremmo mai a vedere. Ora, se il vero Dio è il Padre Onnipotente proclamato dal tuo zio, lo Jahvè invocato dall’ebreo che abita nella casetta giù vicino al fiume, l’Allah in cui credono i Musulmani, lo Zeus dei greci o il Giove degli antichi Romani, dov’è la differenza? Ognuno può chiamare Dio a modo suo e riceverne gli stessi favori, indipendentemente dal nome con cui si rivolge a lui. E se siamo uomini e donne qui in terra, anche in cielo, o nell’Olimpo, o nel giardino di Allah, ci saranno delle divinità donne. Quella che noi adoriamo come la “Buona Dea” era conosciuta ai Romani col nome di Diana. Guarda, guarda la facciata del nostro palazzo. Guarda in alto: che cosa vedi in una nicchia tra le finestre dell’ultimo piano?»
«L’immagine sacra della Madonna, di Maria, della madre di Gesù, accompagnata dalla scritta “Posuerunt me custodem”, posero me a custodia di questa dimora.»
«E quindi qui è la Madonna, la Santa Vergine che veneriamo. Ma ricorda che tutti i luoghi sacri a noi che ci definiamo cristiani, cattolici, sono stati eretti sopra antichi templi pagani, e le antiche divinità sono state sostituite con le nuove. La stessa cattedrale qui a fianco è stata edificata al di sopra delle antiche terme romane, e la posizione della cripta corrisponde all’ubicazione del tempio che i romani avevano dedicato alla Dea Bona, altro nome di Diana. Come vedi, molto accomuna le diverse religioni. Nello stesso luogo dove ci recheremo fra qualche giorno, l’antica immagine della Buona Dea è stata sostituita da una statuetta della Madonna, all’interno di un tabernacolo. Il luogo è comunque sacro, e magico, e c’è sempre qualcuno che adorna l’immagine con gigli freschi e colorati. È il nostro modo di continuare ad adorare la Dea, anche se sotto l’immagine di Maria, madre di Gesù.»
Lucia riteneva che la nonna avesse una cultura non indifferente, forse per aver avuto accesso alla lettura di libri proibiti, conservati nella biblioteca di famiglia. Forse era riuscita ad attingere al sapere custodito gelosamente sotto chiave dallo zio Cardinale, magari a insaputa di quest’ultimo, o forse perché decenni addietro, quando Elena era ancora bambina, i libri potevano essere consultati senza problemi. Poi Artemio si era arrogato il titolo di Inquisitore e aveva messo sotto chiave tutto quello che era contrario alla Fede ufficiale. Ed era andata bene che non avesse fatto un gran falò di quei preziosissimi testi, come aveva sentito avessero fatto altri insigni prelati in altre città d’Italia e d’Europa.
«Ho capito, nonna, l’importante è credere nell’entità buona, che ci vuol bene e ci aiuta, a prescindere dal suo nome.»
Al contrario di quello che Lucia si aspettava e che aveva sentito raccontare da chi temeva le cosiddette streghe, il rito si svolse in tutta tranquillità. Nessun caprone si presentò a reclamare la sua verginità, né nessuno dei partecipanti si sognò di seviziarla o di farle firmare giuramenti con il suo sangue. Il cammino per raggiungere Colle del Giogo non era stato agevole. Passata la chiusa di Moje, il sentiero che costeggiava la riva del fiume Esino spesso si perdeva in mezzo alla boscaglia. Lucia non riusciva a capire come facesse la nonna a non perdersi e a ritrovare la traccia dell’antico sentiero anche dopo aver brancolato per parecchie leghe nel bosco, senza apparenti punti di riferimento. A un certo punto dovettero guadare il fiume e continuare in salita per una sterrata che risaliva la conca scavata da un impetuoso torrente che scendeva dalla montagna. Giunsero ad Apiro all’ora di pranzo e furono ospitati da una coppia di giovani coniugi, Alberto e Ornella, che offrirono loro pane nero e carne di capriolo essiccata. I due avevano una bimba di circa tre anni, due grandi occhi azzurri e i capelli dai fluenti riccioli castani; giocava con una bambola di pezza vicino al focolare, divertendosi a vestirla con minuscoli abiti colorati, realizzati con semplici pezzi di stoffa. Sembrava se ne infischiasse di quanto si preparassero a fare i suoi genitori, insieme ai nuovi arrivati, per la sera stessa.
«Come farete con la bimba?», chiese Elena alla giovane coppia.
«Oh, non c’è problema, alle sette la piccola è già nel mondo dei sogni nel suo pagliericcio. E comunque abbiamo chiesto a Isa, la nostra vicina, di venire a darle un’occhiata. Lo farà di buon grado!»
Lucia, che aveva sempre dormito in un comodo letto, non si capacitava di come facesse questa gente a dormire in quei mucchi di paglia intrecciata.
Saranno pieni di pulci!, pensava, rabbrividendo alla sola idea che la notte successiva le sarebbe toccato in sorte di doverci dormire anche lei. Meglio morta che coricarsi in uno di quei cosi.
La cerimonia di iniziazione della nuova adepta si svolse secondo un’antica ritualità. Era notte fonda quando Lucia e la nonna, in compagnia dei loro ospiti, si immersero nel freddo pungente della montagna. I campi erano ancora ricoperti di un leggero strato di neve e la via era illuminata dal disco luminoso della luna piena che splendeva enorme in cielo, come la ragazza non l’aveva mai vista. Salendo verso Colle del Giogo, in certi punti si poteva sprofondare nella neve fino al ginocchio ed era faticoso andare avanti, ma giunti alla radura cui erano diretti, Lucia si meravigliò di come il luogo fosse quasi del tutto sgombero dalla bianca coltre e il prato fosse costellato di piccoli e numerosissimi fiori colorati, bianchi, lilla, fucsia, viola, gialli…
«Li chiamano bucaneve, perché sono i primi fiori che spuntano appena comincia a sciogliersi la neve, ma il loro vero nome è “Crocus” e i loro stimmi essiccati possono essere utilizzati sia come condimento in cucina, sia per le loro proprietà medicamentose.»
«Nonna, come mai in questo luogo la temperatura sembra più gradevole?», chiese la ragazza, curiosa.
«Si dice che sia un luogo magico, ma in realtà la temperatura è mitigata grazie alla presenza di una sorgente di acqua calda. Qui il sottosuolo è ricco di risorgive sulfuree, ed è per questo che la temperatura è un poco più alta. Da oggi in poi imparerai che la maggior parte dei fenomeni che la gente comune indica come “magici” abbiano in realtà una spiegazione logica, razionale: basta saperla cercare. Ci additano come streghe, ma non facciamo altro che sfruttare conoscenze antiche e fenomeni naturali per i nostri scopi. Vedi, si dice che circa trecento anni or sono sia giunta in questo remoto luogo una delle mogli di Federico II, l’imperatore di Svevia, per celare qualcosa che il suo marito le aveva detto di custodire gelosamente, in quanto proveniva direttamente dalla Terra Santa, da Gerusalemme. Le leggende e le tradizioni vogliono che questo oggetto fosse una pietra magica, una pietra che l’arcangelo Michele avrebbe consegnato ad Abramo o, forse, addirittura la cosiddetta pietra filosofale che cercavano gli antichi alchimisti. Questa è una favola, la verità la conoscerai fra poco. E ora, entriamo nella grotta. Non facciamoci attendere!»
La più anziana delle partecipanti era una donna dai lunghi capelli grigi, la pelle del viso raggrinzita dalle rughe. Indossava una lunga tunica azzurrina sopra la quale, all’altezza del petto, scintillava un talismano dorato assicurato al collo da una catena anch’essa in oro lavorato. Aveva acceso un falò all’interno della grotta, gettando ogni tanto nelle fiamme delle polveri che di volta in volta provocavano una fiammata di colore diverso, ora gialla, ora verde, ora azzurra, ora di un rosso intenso. Per ogni fiammata che illuminava il suo viso, pronunciava delle strane parole, che gli altri presenti interpretavano disponendosi intorno al falò, ora prendendosi per mano e ruotando in circolo, ora allontanandosi e inchinandosi al volere della Vecchia Saggia, ora prendendo mazzi di erbe e gettandoli a loro volta nel fuoco, ora mettendosi seduti in terra nel massimo silenzio. A un certo punto, l’unica persona rimasta in piedi era l’anziana maestra. Teneva in mano un librone sulla cui copertina spiccava il disegno di un pentacolo, proprio simile a quello che era riportato nel diario di famiglia che le aveva consegnato la nonna qualche tempo addietro, e la scritta in caratteri gotici “Clavicula Salomonis”.
«In virtù dei poteri conferitemi da questa congrega, io, Sara dei Bisenzi, accolgo nella nostra comunità la novizia Lucia Baldeschi. Lei è la prescelta, colei che mi sostituirà un giorno e sarà destinata alla guida di tutti voi. Pertanto, Lucia, avvicinati e giura obbedienza e fedeltà su questo libro, scritto di proprio pugno dall’antico Re Salomone, e portato fin qui tra immensi perigli da Jolanda, che perse la propria vita, finalmente giunta alla sua meta finale. È solo grazie alla sua figlia Anna che il libro e i suoi insegnamenti ci è stato tramandato e, di volta in volta, una di noi ha il compito di conservarlo e proteggerlo.»
Così dicendo, l’anziana si sfilò il medaglione e passò la catena intorno al collo di Lucia. Il talismano dorato rappresentava una stella a cinque punte, il sigillo di Salomone. Lo stesso disegno fu tracciato a terra dall’anziana per mezzo di una verga appuntita e la ragazza fu fatta distendere in modo che la sua testa, le sue mani all’estremità delle braccia allargate e i suoi piedi in fondo alle gambe divaricate corrispondessero con esattezza alle punte della stella. Sara prese dell’olio d’oliva, segnando con esso in sequenza la mano sinistra, il piede sinistro, il piede destro, la mano destra e la fronte di Lucia.
«Acqua, aria, terra, fuoco: tu sai come governare i quattro elementi. Essi possono essere invocati e usati da ognuno di noi, ma solo il tuo spirito è in grado di unirli e potenziare al massimo i loro poteri e le loro qualità. Ricorda, Lucia! Userai i tuoi poteri solo a fin di bene e combatterai, fino a sacrificare la tua stessa vita, contro chiunque voglia abusare di te e delle tue capacità per scopi malvagi.» Poi versò dell’acqua sulla mano sinistra della ragazza, ancora distesa, soffiò sul suo piede sinistro, gettò una manciata di terra sul suo piede destro e avvicinò leggermente un bastoncino infuocato alla mano destra. Infine baciò la sua fronte. «E ora alzati. Il tuo lungo cammino è iniziato.»
La cerimonia di iniziazione era pertanto stata molto semplice, non era stata traumatizzante come la ragazza aveva temuto. Il rito si era svolto nella maniera tramandata da tempi remoti, senza costrizioni, senza violenza alcuna, senza interventi di strane figure assomiglianti a caproni o ad altre bestie. Il Demonio non era di certo nascosto tra i partecipanti al rito. Lucia era spiazzata, ma iniziava a capire molte cose, che la nonna l’avrebbe aiutata a definire nei mesi successivi. La magia, la stregoneria, così come l’aveva concepita fino a quel momento, non esisteva. La nonna le avrebbe spiegato quali fossero i limiti del pensiero umano, come ogni individuo fosse dotato di enormi potenzialità legate all’uso di esso, ma che solo qualcuno era in grado di esercitare certe funzioni, sia per capacità innata, sia grazie all’esercizio. Ma allora, si chiedeva Lucia, la sfera fluttuante che si materializzava tra le sue mani era puro frutto della sua fantasia, della sua suggestione? Eppure era in grado di visualizzarla distintamente. Già, ma solo lei, gli altri non la vedevano. Ma aveva provato i suoi effetti devastanti lanciando una palla di fuoco verso quella ragazzina, Elisabetta, che si era ritrovata davvero avvolta dalle fiamme. Ed era in grado di leggere i pensieri di chi le stava di fronte, ed era in grado di ascoltare le voci degli spiriti, e riusciva a prevedere il futuro in qualche maniera. Tutto questo come si spiegava?
«Per tutto c’è una spiegazione razionale», le aveva detto la nonna una sera avanti al caminetto acceso. «Alcuni nostri adepti, alla luce di quanto già fatto in passato da antichi studiosi, di cui alcuni testi sono sfuggiti ai roghi delle autorità ecclesiastiche, hanno aperto il cranio di cadaveri di uomini e donne per studiarne il contenuto, il cervello. La superficie del nostro cervello non è liscia, ma presenta tante pieghe, che vengono dette dagli studiosi di anatomia “circonvoluzioni” e che sono in grado di aumentare di tantissime volte la superficie utile di questo nostro importante organo. Non è il cuore, come tutti dicono, la sede dei nostri sentimenti, è la nostra mente ad essere la loro depositaria. Così come tutti i nostri ricordi, vicini e lontani, vengono qui accantonati. È la mente, il pensiero, che ci consente di riconoscere i suoni, i colori, gli odori, che ci fa associare gli oggetti a un nome, che ci fa apprendere i simboli della scrittura in modo che le persone più intelligenti, o le più fortunate se vuoi, siano in grado di leggere, scrivere e far di conto. È la mente, inoltre, che invia ai nostri occhi i sogni durante il riposo. La nostra mente, quindi, ha potenzialità enormi, ma sconosciute ai più. Così, chi riesce ad allenare la propria mente, riesce poi a eseguire attività che i comuni mortali neanche si sognano. Ed ecco che si possono percepire discorsi pronunciati in un luogo anche in tempi remoti. Ogni parola pronunciata lascia la sua traccia nell’aria, niente si perde. Se tu puoi captare questi discorsi, queste parole, non è che stai parlando con gli spiriti, non è possibile dialogare con persone scomparse da mesi, o da anni, o da secoli, ma è possibile ascoltare quello che loro hanno detto anche tantissimo tempo fa.»
«E la preveggenza?»
«Questo è un po’ più complicato, ma anche qui alcuni studiosi hanno ipotizzato che chi prevede il futuro capti i pensieri di qualcuno che ha già intenzione di mettere in atto determinati comportamenti. È per questo che la preveggenza si limita al breve periodo, e non è possibile prevedere il futuro a lungo termine. Chi asserisce di poterlo fare, è un ciarlatano!»
«E il fatto di poter spostare oggetti, farli levitare, o accendere una lampada solo con la forza del pensiero?»
«Ecco, anche queste sono potenzialità sconosciute alla maggior parte degli individui. Esercitando e allenando la nostra mente e il nostro pensiero, simao in grado di utilizzare gli elementi che ci stanno intorno a nostro vantaggio, in pratica possiamo fare di tutto. Noi siamo abituati a usare i cinque sensi che conosciamo, la vista, il tatto, l’udito, il gusto e l’odorato, senza neanche immaginare quali siano le nostre effettive potenzialità. Gli antichi sapevano bene come utilizzare certi poteri, così da poter costruire opere mastodontiche senza il minimo sforzo. Vedi, i Romani, quando giunsero a conquistare l’Egitto, non si potevano spiegare come avessero fatto gli egiziani, tanto tempo prima del loro arrivo, a costruire opere colossali, come le piramidi e la sfinge. Gli enormi blocchi di pietra con cui erano stati costruiti non potevano essere spostati neanche da centinaia di schiavi che lavorassero insieme.»
«Vuoi dire che…»
«Non voglio dire niente: trai tu le tue conclusioni.»