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La crociera della Tuonante
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La crociera della Tuonante

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Era una fortuna che l’Atlantico non fosse tranquillo e che grosse ondate si formassero, perché le navi inglesi, con una notte così cupa e tempestosa, non avrebbero certamente lasciati i loro sicuri ancoraggi. Ma era pur vero che la corvetta, mancante della sua maestra, avrebbe potuto finir male con una bordata e insabbiarsi su uno dei numerosi banchi ingombranti le entrate della baia, formati dai detriti che la riviera della Mistica trascina in gran copia durante gli acquazzoni estivi ed autunnali. Invece, guidata dal suo miglior timoniere e sorvegliata dal Baronetto, dal signor Howard e da Testa di Pietra, malgrado i frequenti colpi di vento, che mettevano in serio pericolo il pennone issato al posto della maestra, e le fiancate dei cavalloni, continuava la sua rotta verso il sud, tenendosi ad una mezza dozzina di miglia dalla costa americana, visibilissima sotto la luce dei lampi, i quali si succedevano senza interruzione. Metà dell’equipaggio era in coperta, attento, vigilante, pronto a qualunque disperata manovra; l’altra metà si era cacciato nelle batterie dietro i cannoni, potendo darsi che da un momento all’altro qualche volteggiatore inglese comparisse.

Verso la mezzanotte la corvetta era attraverso il canale battuto dal forte Moultrie, il quale era stato eretto sull’isolotto chiamato Sullivan, lontano sei miglia da quella punta di terra che veniva formata dalla congiunzione dei due fiumi Ashley e Cooper. Le onde dell’Atlantico, le quali erano andate ingrossando, si rovesciavano furiosamente dentro le due coste, comprimendosi con grave pericolo. Un colpo di timone mal dato, una manovra ritardata, anche di pochi secondi, e la corvetta era perduta.

Il Corsaro aveva imboccato il portavoce, e i suoi comandi si succedevano limpidi, nonostante le raffiche che si abbattevano sull’attrezzatura, sibilando od ululando. Testa di Pietra, tornato sul castello di prora con Piccolo Flocco e il carnefice di Boston, diventato ormai un altro suo inseparabile amico, aguzzava sempre gli sguardi. Di quando in quando la sua voce, robusta come quella di un vecchio toro, si univa ai comandi del Baronetto. Segnalava ai timonieri la rotta con tale precisione, che Piccolo Flocco non poteva trattenersi dal dire:

«Decisamente questo demonio d’un Bretone vede meglio dei gatti anche di notte! Già, è di Batz!…»

Ad un tratto un comando secco echeggiò:

«Bordate sopravvento!»

La corvetta, che lottava con le onde, girò quasi di colpo su sé stessa e filò lungo le coste dell’isola Sullivan.

«I razzi! I razzi!» gridò il Corsaro.

Testa di Pietra, prevedendo quell’ordine, aveva portato in coperta una cassetta di ferro.

«Aiutami, Piccolo Flocco, e anche voi, signor boia, se non volete provare di che calibro sono i pezzi del forte di Moultrie.»

Tre strisce verdi di fuoco salirono in alto, tentennando fra le raffiche, poi scoppiarono proiettando miriadi di scintille d’uguale colore. Un momento dopo altri tre razzi s’alzavano verso l’estremità del canale, appoggiati da un colpo di cannone in bianco.

«Pronte le ancore!» gridò il Corsaro. «La grossa e la mezzana e due ancorotti da pennello a poppa. A riva i gabbieri! Lesti a raccogliere la gran gabbia ed il trinchetto!»

La manovra fu eseguita in un istante da due dozzine d’uomini, che pareva fossero stretti parenti delle scimmie. La corvetta fece un’ultima bordata, poi affondò le ancore, con gran fragore di catene, dentro una minuscola baia protetta dal forte. In lontananza rimbombarono alcune cannonate e si scorsero dei lampi, poi più nulla. Erano le navi inglesi, le quali, per precauzione, avevano sprecato alcune palle.

Il forte di Moultrie, innalzato dagli Americani anche prima che Boston si arrendesse, era stato costruito solidamente e circondato da alte palizzate formate d’un certo legno spugnoso chiamato palmetto, dentro il quale i proiettili si perdevano senza causare gravi rovine. Era stato poi armato con trentasei grossi pezzi d’artiglieria, i quali potevano bastare a tenere a bada la squadra inglese lasciatasi indietro da lord Howe. Gli Americani l’avevano anche provvisto d’una forte guarnigione, poiché nell’isola avevano stabilito un cantiere, dentro il quale lavoravano alacremente giorno e notte carpentieri, mastri d’ascia e marinai per allestire una flottiglia capace d’intraprendere qualunque impresa. E avevano già quasi ultimate cinque navi: l’Alfredo di 32 cannoni; il Colombo pure di 32; l’Andrea Doria di 16; il Sebastiano Caboto di 14 e la Provvidenza di 12.

Appena la corvetta ebbe dato fondo e gettato un ponte volante, parecchi uomini uscirono dal forte muniti di lanterne e di fucili. Sugli spalti gli artiglieri, per tema d’una qualche sorpresa, soffiavano sulle micce dietro ai loro pezzi. Il Corsaro ed il suo secondo, che si erano affrettati a scendere a terra, esclamarono giocondamente:

«Il colonnello Moultrie!»

«E come potevo non trovarmi qui a difendere l’opera che porta il mio nome?» rispose l’eroico soldato, che tanto aveva operato per far cadere Boston. «Buona sera, Baronetto; buona sera, signor Howard. Giungete in buon punto.»

«Perché, colonnello?» chiese il Corsaro.

«Perché domani la squadra inglese tenterà di cacciarci via. Sono stato avvertito da alcune spie.»

«Mio caro, abbiamo lasciato il nostro albero maestro in mezzo al mare.»

«Fuggito il Marchese?»

«Purtroppo! Le sue artiglierie ci hanno arrestati in piena volata.»

«Un albero si fa presto a rimetterlo.»

«E lord Howe?»

«Fuggito verso il nord.»

«Credo che quegli uomini andranno a dare dei grossi fastidi a Washington intorno a New York.» E dopo un breve silenzio soggiunse: «Se la vostra Tuonante ha perduto un albero, avrà ancora, spero, sempre in buono stato i suoi superbi pezzi che hanno fatto una così splendida prova alla foce della Mistica. Sir William, conto su di voi e sui vostri bravi marinai. Più tardi ci occuperemo di questo signor Marchese, e sapremo scovarlo. Ve lo prometto sul mio onore.»

«Allora son pronto a combattere per la causa americana,» rispose il Baronetto con voce energica.

In quel momento si udirono le sentinelle collocate sui bastioni gridare: «Allarmi!»

«Di già il nemico?» chiese il signor Howard.

«Non me l’aspettavo così presto; tuttavia noi siamo pronti a sostenere l’attacco prima che la fregata venga ingrossata da qualche altra proveniente dall’Europa.»

Punti luminosi solcavano le cupe acque della baia cambiando sovente direzione. Erano le navi inglesi, che tentavano di sorprendere il forte di Moultrie e possibilmente distruggerlo. Ma gli Americani, che si aspettavano quella mossa, avevano prese grandi precauzioni, facendo occupare il forte Johnson, che guardava i canali di Charlestown, dal reggimento stanziale della Carolina, affidando a quei valorosi la difesa dell’isola di Saint-James. Molti canali erano stati sbarrati con grosse trincee e batterie galleggianti, e i magazzini che sorgevano sulle rive erano stati incendiati per impedire che gl’Inglesi vi si annidassero e potessero ancora minacciare Boston. Il generale Lee, nel quale i combattenti avevano grandissima fiducia, era pure giunto a marce forzate con altri stanziali, occupando numerose isole. Così la lotta, un momento sopita dopo la caduta della capitale del Massachussets, stava per riprendersi con novello furore, quantunque ormai i diecimila soldati di lord Howe fossero già lontani e nell’impossibilità assoluta di portare soccorso a quelli che erano rimasti nella baia.

Il Corsaro ed il suo luogotenente si erano affrettati a tornare a bordo della corvetta per prepararsi al combattimento che doveva essere certamente terribile.

Avevano appena dato l’ordine di lanciare la guardia franca nelle batterie, quando alcuni spari rimbombarono in lontananza.

«Ohe, camerati!» gridò Testa di Pietra. «Bagnatevi il muso, perché fra poco qui farà un bel caldo. Pioverà, ma saranno palle infocate quelle che ci cadranno addosso. Io, per mio conto, preferirei gli acquazzoni delle Bermude. Sono abbondanti, sì, ma più salubri.»

3. Il valore americano

La Marina inglese, rabbiosa di aver assistito senza far nulla alla resa di Boston, moveva animosamente all’attacco del forte, che era di grave imbarazzo alle navi provenienti dall’Atlantico, coi rinforzi attesi da lord Clinton, il quale combatteva nelle Caroline con scarsa fortuna. La squadra era composta del Bristol e dello Sperimento, navi quasi di linea, armate di cinquanta pezzi ciascuna e delle fregate Attiva, Altione, Solebay e Sirena di ventotto pezzi; di più vi si erano aggiunti due legni minori da otto, fra cui uno chiamato il Fulmine, nave da bombarde.

Vi era grande aspettativa tanto da parte degli Americani che degl’Inglesi. Ma questi ultimi si trovarono dinanzi a un grave ostacolo: il canale che fronteggiava l’isola di Sullivan era interrato e rendeva estremamente pericoloso il passaggio alle navi troppo grosse. In previsione di ciò, il generale Clinton, che era rimasto a Charlestown, da dove gli Americani non erano ancora riusciti a cacciarlo, aveva raccolte le poche truppe, per la maggior parte di arrolati tedeschi che aveva sottomano, e le aveva concentrate sull’Isola Lunga, situata a levante di quella di Sullivan, perché, al momento opportuno, assalissero il forte alle spalle, poco difeso da quella parte, e distruggessero soprattutto i cantieri. Il colonnello Moultrie, che insieme al generale Lee aveva disposto un magnifico servizio d’informatori, ne era stato subito avvertito. E il pericolo era gravissimo, poiché il forte, assalito da due parti, nonostante il suo grosso armamento di fronte, poteva essere furiosamente distrutto. Non vi era che un uomo solo che potesse proteggerlo alle spalle: il Corsaro. Difatti la sua corvetta, ferma attraverso il canale, sarebbe forse bastata a tenere indietro Scozzesi, Assiani e Brunswickesi coi suoi grossi cannoni da caccia e i ventiquattro pezzi delle batterie. Inoltre pure, avendo dinanzi il forte, coi suoi quattro mortai, che servivano in quel momento da zavorra nella stiva, con tiri d’arcata poteva danneggiare la squadra inglese.

Un ufficiale fu subito mandato a bordo della Tuonante, la quale si preparava a sostenere gagliardamente gli Americani.

«Doppio fuoco!» disse semplicemente il Baronetto colla sua calma abituale. «Avete udito, signor Howard?»

«Sì, sir William.»

«Farete dunque portare in coperta i mortai che già gl’Inglesi conoscono; spiegare i fiocchi ed un paio di vele e salpare le ancore. Il vento si presta a portarci verso l’Isola Lunga.»

Ad un comando dato col fischio, alcuni uomini si slanciarono chi verso gli argani, chi verso l’alberatura, chi nella stiva, il cui boccaporto maestro era stato aperto per issare i mortai.

La squadra inglese si moveva in quel momento, cannoneggiando debolmente. Il timore d’incagliare sui banchi di sabbia o dar di cozzo contro dei tronchi d’albero, vere trincee acquatiche, delle quali gli Americani facevano buon uso, la rendeva previdente. E così la corvetta aveva avuto tempo di eseguire le sue manovre e di prendere posizione dietro il forte, in modo da impedire agl’Inglesi il passaggio dall’Isola Lunga a quella di Sullivan. Anche il colonnello Moultrie aveva avuto il tempo di far trasportare tutti i suoi pezzi sui bastioni di fronte, per battere lo specchio d’acqua che stava dinanzi al forte.

Ora le cannonate cominciavano a succedersi le une alle altre. Lampi e lampi illuminavano la baia, riflettendosi sulle acque tenebrose con bagliori sinistri.

Quello che gli Americani avevano già previsto, accadde.

Le due più grosse navi inglesi, il Bristol e lo Sperimento, troppo pesanti per avventurarsi in quei pericolosi canali, si erano fatte avanti per proteggere le genti che Clinton aveva radunate sull’Isola Lunga, ma dopo qualche bordata andarono a finire sugli scanni di sabbia, che in quel luogo erano assai numerosi, e si sbandarono sul tribordo, rendendo subito inservibili le batterie grosse da quel lato. Tuttavia gli equipaggi inglesi, nonostante l’oscurità della notte e le prime palle che il forte cominciava a lanciare, gettando ancorotti a prora e rinforzando le vele, in poco tempo si trassero dal cattivo passo, e allora il fuoco cominciò su tutta la linea. Ma pareva che la squadra non avesse fretta di dare addosso al forte.

Erano le quattro del mattino del 28 giugno, quando il Fulmine, protetto da un altro legno armato, cominciò risolutamente l’attacco, gettando bombe e palle infocate dentro il forte. Rispondevano vigorosamente gli artiglieri americani, ormai abilissimi anche nel maneggio dei pezzi grossi, e tonava soprattutto la corvetta coi suoi quattro mortai, i cui grossi proiettili eseguivano magnifici tiri d’arcata.

Verso le undici il Bristol, lo Sperimento, l’Altione ed il Solebay, gettate le ancore a cinquecento metri dal forte, cominciarono a sparare rabbiosamente, scaricando bordate su bordate. Quasi nell’istesso tempo la Sirena, l’Attiva e la Sfinge si concentravano verso ponente, fra la punta dell’isola Sullivan ed il canale, per tentare colle artiglierie di strisciare dietro alle fortificazioni. Ma là avevano trovata la corvetta del Corsaro, la quale aveva impegnata risolutamente la lotta. Mentre i cannoni da caccia spazzavano le rive dell’Isola Lunga, per impedire ai soldati di Clinton di attraversare il canale, le sue batterie tonavano con un crescendo spaventoso, ed i suoi mortai lanciavano grosse bombe di là dal forte, cadendo sui ponti della prima squadra.

«Corpo di tutti i campanili di Batz!» esclamò Testa di Pietra, il quale insieme con Piccolo Flocco e quattro artiglieri serviva il suo pezzo favorito di prora. «Che cosa dici tu, monello, di tutto questo affare?»

«Io dico che con tante palle andrebbero giù anche tutti i campanili della Bretagna.» rispose il giovane marinaio, il quale fumava tranquillamente un grosso sigaro virginiano.

«Quelli del Pouliguen forse; non quelli di Batz, che sono di pietra durissima, più della tua testa.»

«Che il diavolo ti porti!»

«Guardati, Piccolo Flocco; grandina.»

«Odo la grandine cadere, ma disgraziatamente non la vedo, se non quando è già sulla tolda della corvetta. Tu invece, Bretone di Batz, vedrai benissimo anche per aria le bombe che ci lanciano gl’Inglesi.»

«Questo poi no!» disse Testa di Pietra. « Non sono compare Trombone io… Il trombone l’ha sonato mio nonno quando montava le navi corsare di Giovanni Bart. Ah, che bei tempi eran quelli, ragazzo mio!»

«Testa di Pietra, tu chiacchieri, e intanto la grandine continua. Ti confesso che mi seccherebbe assai assai avere una gamba spezzata.»

«Mai si colpiscono i Bretoni alle gambe: sempre alla testa.»

«E le bombe vi si spaccano come se fossero… bolle di sapone.»

«Già.»

«Ma io non vorrei farne l’esperimento.»

Testa di Pietra, che teneva la miccia in mano, in attesa che i suoi aiutanti avessero terminato di ricaricare il suo pezzo favorito, lo guardò un po’ di traverso, poi rispose sorridendo:

«E nemmeno io. Ma ora ho da spaccare delle teste d’Inglesi.»

Come abbiamo detto, la battaglia si era impegnata con grande slancio da ambe le parti. L’ammiraglio inglese Pete-Parker e lord Campell incoraggiavano gli equipaggi, credendosi sicuri di demolire ben presto il forte, che sapevano guardato da pochi soldati d’ordinanza e da alcune compagnie di milizie racimolate in fretta, ridurre al silenzio i trentasei grossi pezzi e smontare i ventisei di piccolo calibro.

La notte, assai oscura, era illuminata da lampi vivissimi, ed un frastuono orrendo si propagava attraverso la baia, giungendo fino a Boston e a Charlestown. Granate grossissime e palle infocate solcavano l’aria in gran numero, lasciando dietro strisce di fuoco.

Gl’Inglesi lottavano rabbiosamente, decisi a togliere quell’ostacolo; ma con non meno valore si difendevano gli uomini del Colonnello Moultrie. I loro pezzi di grosso calibro toreavano imberciando meravigliosamente le navi nemiche, mentre le leggiere artiglierie spazzavano i ponti con una grandine non interrotta di mitraglia, straziando molta gente.

Le navi che inquietavano soprattutto il valoroso colonnello ed il Corsaro erano l’Altione, la Sfinge e la Sirena, le quali, avendo gettate le loro ancore verso l’estrema punta di ponente dell’Isola Sullivan, potevano facilmente impedire la ritirata della guarnigione, nel caso d’un disastro, e l’arrivo di nuovi soccorsi d’uomini e di munizioni. Perciò contro di quelle si accaniva maggiormente la corvetta di sir William, la quale, riparata dentro una minuscola cala, ben poco poteva soffrire.

«Sgangheriamole!» gridava Testa di Pietra fra una cannonata e l’altra. «Lasceremo qui le loro alberature, e così la Tuonante sarà vendicata.»

La fortuna non proteggeva quella notte gli abilissimi marinai inglesi, impegnatisi forse troppo imprudentemente fra i bassifondi dei canali.

Già un gran numero di bombe e di palle infocate si erano scambiate, quando la Sfinge, l’Altione e la Sirena, che costituivano il maggior pericolo per il forte, guidate da piloti poco pratici, diedero dentro in un renaio chiamato Middle-Grounds, sbandandosi talmente sui fianchi, da rendere quasi inservibili le batterie di babordo e di tribordo. E allora i difensori del forte, i quali cominciavano a dubitare di poter resistere al terribile bombardamento, anche perché il generale Lee aveva consigliato Moultrie di far saltare tutto e di rifugiarsi in Boston, assistettero ad uno spettacolo terrificante.

Il Corsaro, accortosi subito della cattiva situazione in cui si trovavano le tre navi inglesi, si era messo a tirare con una furia infernale. La Tuonante avvampava come un vulcano e toreava nella notte buia, seminando la morte sulle tolde delle navi avversarie. Testa di Pietra mitragliava più gente che poteva, avendo abbandonata l’idea di far cadere le alberature nemiche.

«Dentro, Piccolo Flocco!» gridava. «Sono in nostra mano ormai quei cani ringhiosi. Fà portare dell’altra mitraglia! Vedrai come spazzerò i ponti di quelle navi.»

E le artiglierie grosse e piccole rombavano con un crescendo spaventevole. Tirava il forte, imberciando le navi che aveva dinanzi; toreava la corvetta più che fosse un vascello d’alto bordo.

Quantunque oppressi da una vera tempesta di ferro, di ghisa e di piombo, che faceva volare braccia, teste e gambe, gli equipaggi inglesi non avevano perduta la loro famosa calma e, guidati da ufficiali abilissimi quanto valorosi, si erano subito accinti a rimettere a galla le tre navi, prima che venissero completamente sfasciate. Lavorando agli argani, gettando ancorotti a prora e a poppa, tracciando e contrabbracciando le vele, si sforzavano di sottrarsi il più presto a quella pioggia di fuoco, che aveva già ormai orrendamente insanguinati i ponti.

Il Bristol soprattutto, essendosi rotte le stacche dei cavi, era rimasto esposto ai tiri del forte e della corvetta per parecchie ore, senza poter quasi rispondere, tanto era critica la sua posizione. Le sue murate fracassate cadevano a larghi pezzi nelle acque del canale; i suoi pennoni, fracassati dalla mitraglia dei pezzi da caccia della Tuonante, piombavano in coperta aumentando la strage. Il capitano Morris, che lo guidava, teneva ostinatamente duro, tentando di condurre ancora in salvo la sua nave, quantunque quasi tutti i marinai gli fossero caduti intorno morti o gravemente feriti. Il sangue arrossava la tolda, e seguendo il pendio della coperta, sfuggiva dagli ombrinali, tingendo le acque.

«Date dentro!» non cessava di gridare sir William.

E la sua voce non andava perduta, poiché se il forte cominciava a rallentare per mancanza di munizioni, la Tuonante, ben fornita per le lunghe crociere, non cessava di seminare palle, bombe e mitraglia.

Alle sette del mattino sul Bristol non rimanevano che pochi uomini, e la nave cominciava a fare acqua, quantunque fosse adagiata su un largo banco sabbioso. Una mezz’ora più tardi, il capitano Mortis, che aveva giurato di non calare la bandiera, quantunque ormai tutto fosse perduto per lui, già ferito da scaglie di mitraglia, cadeva sul banco di quarto con una gamba fracassata da una palla di cannone. Portato nella sua cabina, pochi minuti dopo spirava, mentre la sua nave, ormai quasi deserta, andava ad insabbiarsi, per poi rompersi sulle rive dell’Isola Lunga. Né miglior sorte avevano le altre navi cacciatesi dentro il canale: la Sfinge, l’Altione e la Sirena. Battute furiosamente attraverso i banchi fra i quali si dibattevano con immensa difficoltà, perdevano uomini in gran numero ad ogni scarica delle batterie della corvetta.

Lord Campell, già governatore della Carolina, era stato ferito così gravemente, che qualche mese dopo intraprendeva il gran viaggio; anche l’ammiraglio Pete-Parker era stato colpito da una scaglia di mitraglia e aveva dovuto abbandonare il comando della Sfinge. Nemmeno le altre navi, che combattevano sulla fronte del forte, ottenevano buon successo, malgrado l’enorme spreco di munizioni. Tuttavia le due squadre, quantunque ridotte in cattive condizioni, tennero testa ai difensori del forte fino alla sera, colla speranza che le genti concentrate da lord Clinton sull’Isola Lunga potessero guadare il canale. E l’avrebbero forse tentato senza la presenza della corvetta, che coi suoi cannoni da caccia spazzava senza posa le rive. Si erano anche ingannati sulla profondità delle acque dei canali, i quali non erano stati bene scandagliati prima di cominciare il combattimento.

Alle sette della sera tutte le navi, più o meno malconce e cogli equipaggi più che decimati, dopo aver provato per quattordici ore il valore e la collera americana, abbandonavano definitivamente l’impresa, anche perché degli audaci corsari, montati su piccole scialuppe, erano riusciti a rinnovare le munizioni del forte.

A mezzanotte tutto era finito; e mastro Testa di Pietra, dopo tanto lavoro, uscito ancora una volta illeso, si permetteva il lusso di vuotare, in compagnia di Piccolo Flocco, una buona bottiglia, seduto a cavalcioni del suo pezzo favorito.

4. Il carnefice di Boston impicca

Una settimana dopo della grande vittoria americana, poiché quell’ostinata difesa aveva costretto anche le ultime navi lasciate da lord Howe ad andarsene, la Tuonante, con nuovo albero e ben provvista di viveri e di munizioni, lasciava le acque del forte di Moultrie. Ma non era sola: guidava la prima flottiglia americana composta, come abbiamo detto, del Colombo, dell’Alfredo, dell’Andrea Doria, del Sebastiano Caboto e Provvidenza, con un totale di cento e sei cannoni e montata da più che cinquecento abilissimi marinai, abituati ormai a corseggiare attraverso l’Atlantico.

Una gravissima notizia era giunta, portata da una piccola gagliotta, gravissima per gli Americani e niente affatto spiacevole a sir William, il quale non dimenticava un solo istante Mary di Wentwort, e il marchese d’Halifax. Aveva dunque raccontato il comandante del piccolo e sveltissimo legno corsaro che una grossa squadra, comandata da lord Dunmore, proveniente dai porti d’Irlanda con parecchie migliaia di Scozzesi, soldati in special modo temuti dagli Americani per il loro valore e la loro incredibile resistenza al fuoco, dopo aver cercato di approdare sulle rive della Virginia, respinta da spaventevoli uragani, si avvicinava. Ma aveva anche aggiunto che un certo numero di navi, che lord Howe cercava di condurre verso New York, pure sorprese da venti contrari e da tempeste, si erano imbrancate nella flotta di lord Dunmore.

Una speranza era subito balenata nel cuore del Baronetto: che anche la fregata del Marchese fosse stata sorpresa dai cicloni e che si trovasse insieme con quelle giunte dall’Europa.

E perché no? Testa di Pietra, che da buon Bretone vedeva molto lontano, era più che mai convinto di ritrovare in qualche luogo dell’Atlantico la fregata che aveva rapito al suo capitano la bionda Mary di Wentwort.

«Corpo di tutti i campanili della Bretagna!» aveva detto a Piccolo Flocco. «Noi faremo una magnifica crociera quantunque la squadriglia americana, a mio giudizio, valga ben poco… Bà! la vedremo alla prova.»

La Tuonante aveva appena assaggiate le onde dell’Atlantico, quando delle grida furiose si alzarono dalla stiva, il cui boccaporto era rimasto aperto. Si bestemmiava e anche si picchiava sonoramente, e delle persone urlavano di quando in quando in pessimo inglese:

«Voi accopparci? Canaglia!»

«Noi essere soldati!»

«Ma che soldati?…», rispondeva la voce tonante del mastro della sala. «Siete dei traditori. Vi abbiamo sorpresi nella Santa Barbara. Che ci facevate, canaglie? Volevate farci saltare tutti! Giù, un paio di pedate ancora. In coperta, in coperta miserabili!»

Testa di Pietra e Piccolo Flocco, udendo quelle grida, si lanciarono verso il boccaporto di mastra, seguiti dal Baronetto e dal carnefice di Boston.

Quattro uomini, che indossavano la divisa degli Assiani, venivano spinti su per la scala a pugni e pedate, fra una sequela interminabile di minacce e di bestemmie.

«A morte questi traditori!»

«Hanno le tasche piene di sterline inglesi.»

«Furfanti!»

«Vi appiccheremo tutti sui più alti pennoni.»

I quattro disgraziati, quasi accoppati dai pugni e dai calci che grandinavano su di loro senza economia, un pò spinti, un pò trascinati, giunsero finalmente sulla tolda della corvetta.

Un grande scoppio di risa sfuggì a Testa di Pietra e a Piccolo Flocco. Nel primo, che era sorto dalle profondità della stiva, avevano riconosciuto l’allegro Assiano che essi avevano così ben giocato durante l’assedio di Boston.

«Ohé, mastro Hulbrik, non conoscete più il vostro compare paca paca?» gli disse.

Il Tedesco, udendo quella voce, spiccò un salto, sfuggendo ai marinai, e alzando le braccia verso il cielo, gridò: