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Il Castello Della Bestia
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Il Castello Della Bestia

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«Jean Philippe. Yvette dice che sei qui per prenderti cura di me, ma solo se piacerai a papà. Maman non c’è più. È morta. Anche il nostro cane è morto. A volte sono triste e piango, ma papà dice che va bene.» Il cuore di Veronica si strinse a quelle parole ingenue, ma dovette sopprimere un’altra risata per quello che lui aggiunse dopo. «Mi hai portato un regalo? Papà mi porta sempre un regalo e lo nasconde in una delle tasche. Anche oncle Marius. È per questo che indossi quel cappotto, per nascondere i regali?» le chiese, osservando il suo abbigliamento con più entusiasmo.

«È un piacere conoscerti, Jean-Philippe» rispose Veronica, poi scosse la testa con rammarico. «Non ero al corrente di questa usanza, quindi oggi niente regali, ma prometto che, se rimango, ti porterò qualcosa la prossima volta che vado in città. Sei d’accordo?»

Lui dondolò la testolina mentre annuiva, i suoi bei capelli biondi luccicarono nonostante la luce fioca di quella giornata uggiosa. «Va bene» concordò. «Spero che tu vada presto in città.»

Quella volta Veronica non avrebbe potuto nascondere il suo sorriso nemmeno se ci avesse provato, quindi non se ne preoccupò. Un altro rumore le fece alzare di nuovo lo sguardo verso la porta, dove notò una giovane donna leggermente preoccupata. Il suo petto si alzava e si abbassava rapidamente, come se avesse corso. Indossava una specie di uniforme, non quella bianca e nera tipica del personale di servizio, ma qualcosa fece pensare a Veronica che potesse essere una domestica o una governante. Lo sguardo che quella donna rivolse a Jean-Philippe era un misto di esasperazione e affetto.

L’uomo entrato subito dietro di lei, però, fece scattare Veronica in piedi e la costrinse a raddrizzare la schiena. Era alto, probabilmente vicino ai due metri, e le spalle e il petto erano ampi e muscolosi. Indossava un abito che doveva essere stato fatto su misura per adattarsi così bene alla sua figura imponente, ed emanava un’aura di puro potere. Sicuro di sé. Avrebbe dovuto essere cieca o completamente incurante per non essere consapevole della prestanza di un uomo simile.

Nonostante la sua stazza e la sua stessa presenza sembrassero riempire la stanza, fu il suo viso ad affascinarla davvero. I capelli scuri e ondulati incorniciavano il volto più attraente che avesse mai visto. Non avrebbe potuto definirlo bello, il suo naso romano era un po’ troppo prominente, ma i suoi lineamenti erano virili, forti e assolutamente stupefacenti. Notò, anche da quella distanza, che i suoi occhi erano di un marrone intenso come il cioccolato fondente fuso, incorniciati da spesse ciglia scure, e sembravano scrutarla dentro dall’altra parte della stanza. Sentì la pelle d’oca salirle sulle braccia e sul collo, e non riuscì a distogliere lo sguardo.

Quando lui cominciò a muoversi, qualsiasi incantesimo l’avesse stregata si ruppe. Con stupore, notò che camminava appoggiandosi a un bastone con passi misurati e che sembravano celare un dolore nascosto.

«Oh, Monsieur, mi dispiace tanto. È scappato via, quando invece avrebbe dovuto seguirmi» si scusò la giovane donna con l’uomo che Veronica immaginò fosse Monsieur Reynard.

Lui inclinò leggermente la testa e, sebbene il suo viso fosse rimasto impassibile, Veronica vi scorse una certa indulgenza.

«Capisco, Yvette. Puoi tornare al tuo lavoro.» Il suo tono era profondo e tenebroso, roco. Si diffuse attraverso la stanza silenziosa, riempiendo ogni angolo, anche se parlava a bassa voce.

La giovane donna fece un piccolo inchino e uscì in fretta dalla stanza con gratitudine, lasciando soli Veronica, Jean-Philippe e Monsieur Reynard.

«Papà!» esclamò il ragazzino, confermando l’ipotesi di Veronica sull’identità dell’uomo. Lo vide fare una smorfia quasi impercettibile quando il suo bambino gli andò a sbattere contro una gamba in una dimostrazione di affetto infantile.

«Vedo che hai incontrato la signorina Carson, figliolo» disse guardando Veronica, mentre arruffava la fine capigliatura del bimbo.

«Oh sì! Ti piace? Può rimanere?»

La domanda cadde pesantemente nella stanza silenziosa, e Veronica si voltò per prendere di nuovo la cartellina.

«Ho portato una copia del mio curriculum e un elenco di referenze...»

«Non ce n’è bisogno» la interruppe Monsieur Reynard, facendo un gesto con la mano come per scacciare le sue parole. «Ho visto abbastanza. Il lavoro è suo.»

La bocca di Veronica si spalancò. «Io, uh ... ci siamo appena conosciuti.»

Lui sollevò le sopracciglia scure. «È vero.»

Lei scosse la testa. Perché era così turbata? Santo cielo, di solito era più spigliata di così! «Voglio dire, non mi ha fatto il colloquio. Non vuole sapere... di più?»

L’uomo si strinse nelle spalle e inclinò la testa di lato. «Mademoiselle, sono conosciuto per essere un ottimo giudice del carattere delle persone, con pochissime eccezioni. È ciò che mi ha reso un uomo di successo. Jean-Philippe ha bisogno di qualcuno che sia bravo con i bambini, esperto e parli francese. Da quello che ho potuto sentire, lei possiede questi requisiti.»

Veronica avvertì un caldo rossore salirle dal collo, dritto alle guance e poi fino all’attaccatura dei capelli. Per qualche ragione l’idea di non conoscere nulla di quell’uomo, con la sua soverchiante personalità, la rendeva oltremodo agitata. «Stava ascoltando?» chiese con un tono di voce che, si congratulò con se stessa, apparve quasi normale.

Lui si strinse nelle spalle in uno stile meravigliosamente mediterraneo. «Non di proposito, ma la porta era socchiusa e le voci sono arrivate al corridoio.»

Ripensando alla sua conversazione con Jean-Philippe, Veronica non riuscì a capire cosa avesse potuto dire, per giustificare quella immediata accettazione. «E ho detto abbastanza per darle questa sicurezza?»

Se aveva pensato di aver superato lo shock iniziale riguardo alla bellezza di lui, come qualcuno che dopo essere saltato nell’acqua fredda inizia ad acclimatarsi, aveva torto. Quando rivolse su di lei tutta la forza dei suoi occhi scuri e profondi e alzò gli angoli della bocca in quello che avrebbe potuto essere l’inizio di un sorriso, lei dovette quasi riprendere fiato. Sentì la pelle d’oca sollevarsi di nuovo sulle braccia.

«Ha superato il controllo delle referenze a pieni voti e deve essere consapevole che il suo accento è perfetto. Ma, soprattutto, non ha perso un colpo, quando mio figlio ha insultato il suo ehm... ensemble.» Indicò con tatto il vestito e lei aprì la bocca per l’indignazione, solo per richiuderla di scatto alle parole che lui pronunciò di seguito. «Credo davvero che lei sia una giovane donna di buon senso, pazienza e gentilezza. Queste sono le qualità che apprezzo più di tutte le altre.»

Le sue lodi la riscaldarono, ed erano così vicine a descrivere il tipo di persona che lei sperava di essere, che Veronica sentì come se un altro pezzo si fosse incastrato in quella connessione che stava iniziando a sentire con lui.

«Grazie. In tal caso, accetto il lavoro.» Lui non ricambiò il suo sorriso, ma a lei sembrò che suoi occhi si fossero leggermente increspati agli angoli.

«Chiederò a Monsieur Hormet di portarle i documenti. Vieni, Jean-Philippe» disse lui, voltandosi e dirigendosi verso la porta con passi lenti e misurati, con un’andatura che lei sospettò dissimulasse un dolore molto ben nascosto. Jean-Philippe lo superò per correre fuori dalla porta prima di suo padre.

Tutto considerato, Veronica fu davvero soddisfatta e sollevata di aver evitato lo stress di un vero e proprio colloquio, poi udì le ultime parole di Monsieur Reynard prima che lasciasse la stanza.

«Che sollievo incontrare una giovane donna che non si preoccupa troppo del proprio abbigliamento.»

Capitolo Due

Mentre consegnava a Veronica un fascio di carte da esaminare, Monsieur Hormet passò in rassegna qualche dettaglio, alcuni dei quali lei già conosceva e altri che le erano nuovi. Riassumendo brevemente, le disse che era desiderio del suo nuovo datore di lavoro che Jean-Philippe parlasse inglese per la maggior parte del tempo, ma che voleva anche che suo figlio si sentisse a suo agio a parlare francese con la sua ragazza alla pari se il bimbo lo avesse desiderato. A quanto sembrava, Jean-Philippe aveva avuto una tata che era andata in pensione solo di recente, subito dopo “l’incidente”. Monsieur Hormet lo disse in tono sommesso, quasi come se desiderasse non doverne parlare affatto. Da allora, una delle cameriere, Yvette, aveva fatto un lavoro extra, occupandosi anche di Jean-Philippe, e per questo motivo Veronica avrebbe dovuto iniziare immediatamente, se per lei fosse stato accettabile. Un po’ frastornata da quel vero e proprio diluvio di informazioni, soprattutto dopo tanta segretezza, Veronica annuì. Dopotutto, non aveva nessun altro posto dove stare.

Dopo aver letto e firmato i numerosi documenti, compresi i dettagliati accordi di non divulgazione e riservatezza, che sembravano addirittura eccessivi anche per un milionario, o miliardario, o qualunque cosa fosse Monsieur Reynard, Monsieur Hormet la condusse in quella che sarebbe diventata la sua stanza. Era al secondo piano, sul lato rivolto verso l’oceano, e la vista era davvero mozzafiato. Anche la stanza stessa era incantevole, decorata con mobili antichi come l’enorme letto di mogano, completo di un copriletto di raso blu scuro. La cassettiera e il guardaroba sembravano appartenere a un museo, ma in qualche modo molto amati. Tutto era pulito e ben tenuto, nei colori blu, crema e oro. Veronica ripensò alla sua camera nell’appartamento di Boston e fece una smorfia, al confronto. Aveva sicuramente lasciato almeno un paio di abiti scartati buttati sul copriletto floreale, che non si abbinava per niente al resto dei colori della stanza, ma che lei adorava lo stesso.

Prima che potesse avere il tempo di darsi la “rinfrescata”, che Monsieur Hormet aveva previsto che facesse, sentì una porta aprirsi su cardini ben oliati, e una sfera di energia dai capelli dorati corse nella stanza.

«Mademoiselle Carson, rimani! Sono così emozionato! Quando andrai in città?»

Veronica sorrise al mix entusiasta di francese e inglese. «Per favore, chiamami Veronica, visto che ho intenzione di chiamarti Jean-Philippe» iniziò. Le ci volle un altro secondo, accidenti, si stava arrugginendo, per rendersi conto del motivo per cui le aveva rivolto quella domanda. «E vuoi sapere quando ti porterò un regalo?»

Jean-Philippe annuì, sorridendo ampiamente e mostrando una fila di denti da latte bianchi e uniformi.

Veronica gli tese le mani. «Non so esattamente quando, ma penso che sarà presto, dato che devo comprare alcune cose. Nel frattempo, che ne dici se ci conoscessimo un po’? Puoi dirmi quali sono le tue attività preferite. Sai, molte delle cose che faremo, potrebbero essere una sorpresa divertente.»

Il ragazzino annuì, chiaramente interessato, e si avvicinò.

«Mi piace andare alla spiaggia. Papà dice che non posso andare da solo, ma a volte, quando mi promette che mi porterà, deve lavorare. Ti piacciono le conchiglie?»

Sorridendo, Veronica ripensò ai giorni felici che aveva trascorso sulla spiaggia con i suoi fratelli minori, costruendo castelli di sabbia e decorandoli con finestre e porte fatte con le conchiglie. «Assolutamente. Le conchiglie sono meravigliose. Sapevi che un tempo erano la casa di alcune creature marine?»

Jean-Philippe sembrava affascinato. «Sono come degli scheletri?»

Veronica ci pensò su. «Beh, a volte suppongo che lo siano. Come gli esoscheletri di alcune creature, cioè scheletri che gli animali indossano all’esterno invece che all’interno. Ma altre creature escono dai loro gusci, quando trovano una nuova casa, come i paguri, per esempio: man mano che crescono, lasciano il loro vecchio guscio, perché diventa troppo piccolo.» Imitò il movimento di un granchio facendo strisciare le dita sul copriletto, con un leggero fruscìo sul raso. «Poi vanno, il più velocemente possibile, a trovare un altro guscio che pensano potrebbe adattarsi meglio.»

Jean-Philippe annuì saggiamente. «Mi comprano dei nuovi vestiti quando i miei pantaloni si aprono, quando mi siedo. Siamo dovuti venire in questa casa quando quella in cui vivevamo è bruciata. Alcune persone hanno detto che la casa era tracig... trajkig... tragica, ma a me piaceva... e anche i miei amici. Louis aveva due barboncini. Quelli sono cani, lo sapevi?»

Come si può dimenticare il candore dei bambini in età prescolare? E cosa intendeva con “tragica”? Non aveva certo intenzione di chiedere i dettagli a Jean-Philippe, ma non poteva fare a meno di domandarselo. «Mi dispiace. Sembra che ti manchino la tua casa e i tuoi amici.»

«Jean-Philippe, avresti dovuto restare con Yvette fino a quando Mademoiselle Carson non avesse avuto la possibilità di sistemarsi.» La voce profonda proveniente dalla porta, fece scattare Veronica in piedi. Come prima, la vista dell’alta figura del proprietario di quella voce, le fece battere il cuore e fremere le terminazioni nervose. Qualcosa in Monsieur Reynard aveva attirato la sua attenzione come nessun altro in precedenza. Forse come nessuno aveva mai fatto.

«La signorina Carson dice che posso chiamarla Veronica e lei mi chiamerà Jean-Philippe» disse il ragazzino.

«È vero? A volte Jean-Philippe... beh, spesso... ha una grande immaginazione.» Monsieur Reynard si voltò verso di lei mentre parlava.

Una strana sensazione allo stomaco avvertì Veronica che forse le abitudini della casa erano un po’ più formali, ma si trattava di un bambino, per l’amor del cielo. Di sicuro non avrebbe voluto che un bambino di quattro anni la chiamasse ‘Mademoiselle Carson’. Veronica alzò il mento.

«Ha capito perfettamente. In realtà, spero che tutti mi chiamino Veronica. Non credo di essere mai stata chiamata Miss, o Mademoiselle, Carson.» Se avesse pensato che il suo nuovo datore di lavoro le avrebbe chiesto di chiamarlo con il suo nome di battesimo, qualunque fosse, in cambio, sarebbe rimasta delusa.

«Benissimo. Lo farò sapere al resto dello staff. E ora, Jean-Philippe, credo che abbiamo rubato abbastanza tempo, a, ehm, Veronica. Lasciamo che si rilassi e si rinfreschi.»

«Non mi importa se rimane. Io, ehm, non ho molto da disfare o... rinfrescare, davvero.» Sentì le sue guance avvampare, mentre gesticolava goffamente verso la grande ventiquattrore dove aveva infilato un rapido cambio di vestiti e due set di biancheria intima, nel caso il colloquio fosse finito tardi e lei avesse perso l’ultimo treno.

Lui sollevò un sopracciglio scuro. «Effettivamente mi devo scusare per non aver considerato i suoi piani, con la mia offerta impulsiva. Forse non si aspettava di rimanere così presto.»

«Oh, nessun problema, capisco» si affrettò a rassicurarlo, e lui inarcò le labbra in un sorriso ironico.

«E lo apprezzo, ma il problema rimane. Se per lei va bene, prenderebbe in considerazione di acquistare qui, in città, tutto ciò di cui potrebbe aver bisogno per la prossima settimana, a mie spese, ovviamente, e tornare a Boston con me mercoledì prossimo per fare le valigie? Temo che dovremo partire abbastanza presto, ho una riunione alle undici, ma lei avrebbe tutto il giorno a disposizione e saremo di ritorno entro sera.»

All’idea di passare ore in macchina con quell’uomo, andando e tornando da Boston, venne travolta da un’ondata di qualcosa che poteva essere sia eccitazione che panico. «Oh, non è necessario... posso...» Veronica non era sicura di come avesse pianificato di finire quella frase, ma Monsieur Reynard la interruppe.

«No, no, insisto. Ora lei è una mia dipendente, uno stimato membro della mia famiglia. Inoltre, sarà la custode di tutto ciò che ho di prezioso: Jean-Philippe, il mio stesso cuore.»

Le sue parole e il suo tono la presero alla sprovvista, così inaspettatamente tenere, provenendo da qualcuno che sembrava altrimenti formale e quasi distante. Ma mentre parlava, lei sentì la verità nascosta nella sua voce. Quell’uomo amava suo figlio ferocemente.

«Ovviamente. Grazie, allora» accettò.

«Mancano ancora ore prima che faccia buio e alla cena. Forse Veronica dovrebbe andare in città adesso?»

Monsieur Reynard guardò incuriosito il volto sorridente di suo figlio. «Giusto. Questo sarebbe un buon momento per andare...»

«Yeah!» Esultò Jean-Philippe. Le labbra di Veronica si contrassero mentre tratteneva una risata e il suo nuovo datore di lavoro la guardò con aria interrogativa.

«Credo che si sia ricordato che ho promesso che gli avrei portato una sorpresa la prossima volta che fossi andata in città» spiegò.

Monsieur Reynard non sorrise veramente, ma i suoi occhi si ammorbidirono in un modo che la fece sentire improvvisamente accaldata. «Vedo che ha già imparato a conoscere una delle cose preferite di questo piccolo mascalzone. Le sorprese non sono mai troppe.»

«Potrebbe aver sottinteso qualcosa del genere» rispose lei scoppiando a ridere apertamente. «E sarei felice di andarci adesso. Non ho altro da fare, dopotutto.»

Stranamente, le sue parole informali sembrarono raffreddare la temperatura della stanza, e lei desiderò potersele rimangiare.

«Monsieur Hormet la accompagnerà, allora, e gli darò istruzioni di farmi fatturare direttamente dai negozi di abbigliamento… Non c’è bisogno che scelga qualcosa...» fece una pausa, come se cercasse una parola con tatto, «...di eccessivamente pratico» decise infine. «Può prendere qualcosa di adeguato e appropriato senza preoccuparsi del costo.»

La scelta del cappotto di oggi mi perseguiterà per sempre? Si chiese Veronica. Di solito non si vestiva così, ma si era trattato di un colloquio di lavoro!Buon Dio. Nessuno in quella casa sapeva che per un colloquio di lavoro ci si veste per compiacere qualsiasi tipo di interlocutore?

«Grazie. Farò del mio meglio» rispose acida, pensando che lui non avesse notato l’accenno di sarcasmo nel tono della sua voce, ma colse un certo luccichio di divertimento negli occhi del suo nuovo datore di lavoro, quando gli passò accanto dopo che lui le aveva fatto cenno di precederlo. Forse Monsieur Reynard non era fatto di marmo, dopotutto.

Lasciando la stanza, Alain si rese conto di cosa fosse quella sensazione sconosciuta che si agitava nel suo petto. Leggerezza. Umorismo. Pensò che potesse piacergli davvero quella giovane donna un po’ troppo modesta. Veronica. Il nome non sembrava adatto a lei, ma gli era piaciuto come aveva insistito che tutti la chiamassero così, anche se lui aveva notato che si era resa conto che fosse una richiesta insolita.

Il suo istinto, e aveva costruito il suo vasto impero commerciale in gran parte sulla sua percezione nei riguardi degli altri, gli diceva che non avrebbe potuto trovare una compagnia migliore per il suo bambino. E se le sue parole, espresse d’impulso, avevano sorpreso sia lui che la giovane donna, niente poteva essere più vero. Jean-Philippe era il centro del suo mondo. La leggerezza e la gioia che suo figlio portava con sé illuminavano anche le parti più oscure del cordiglio e dell’angoscia di Alain.

Se prima dei recenti avvenimenti nella loro casa di Nizza a volte aveva dato per scontata la sicurezza e la presenza continua di suo figlio, ora tutto quello che faceva era per Jean-Philippe. Aveva trasferito una porzione molto ridotta della servitù nella loro casa più piccola e più remota lì, nel Maine, in parte per tenersi lontano dalla stampa implacabile, ma soprattutto per suo figlio, per assicurarsi che Jean-Philippe potesse correre libero e divertirsi senza il costante controllo dei media, le speculazioni, i sospetti, e i costanti crudeli pettegolezzi a cui non potevano sfuggire in nessun ambito della società francese.

L’ironia della scelta del luogo non gli era sfuggita, però. Era una delle case che aveva ereditato da suo padre, il quale aveva fatto trasportare lo storico castello via nave, mattone dopo mattone, dal nord della Francia come grande gesto romantico in onore della moglie americana. Era sempre stato un posto speciale e idilliaco per Alain e suo fratello, Marius, quando vi si erano recati durante alcune delle loro vacanze estive da bambini. Dopo la morte dei suoi genitori, anche Alain l’aveva condiviso con sua moglie Joëlle, quando si erano appena sposati. Una volta aveva pensato che potesse diventare anche il loro posto speciale, ma naturalmente alla fine si era sbagliato, come si era sbagliato su tante cose legate a Joëlle. Non ci avevano mai portato Jean-Philippe in vacanza. Alain non aveva mai avuto tempo per lunghe vacanze. O, per meglio dire, non aveva mai fatto in tempo. Ma ora, trovare tempo per suo figlio, considerando i suoi desideri e le sue necessità, era la cosa più importante per lui.

A volte, nelle ultime due settimane, da quando erano arrivati, aveva avuto l’impressione di avvertire la presenza degli spiriti di coloro che non c’erano più. Una suggestione, ma aveva immaginato di aver sentito il profumo di sua madre o dei fiori che lui e suo fratello raccoglievano per lei ai margini della foresta vicina.

Avrebbe potuto giurare di aver sentito anche la risata argentina di sua moglie. Era stato attratto da tante cose di Joëlle, quando si erano conosciuti, ma la sua risata, il modo in cui il suo bel viso si illuminava di felicità, era qualcosa che non avrebbe mai dimenticato. Poi l’aveva persa, ma la sua risata era qualcosa che aveva sentito spesso quando erano andati lì, insieme. Quel castello sembrava quasi infestato, non dalla malinconia ma da ricordi che ora erano ugualmente tristi. Sperò che Jean-Philippe e la sua nuova ragazza alla pari potessero scacciare quei ricordi, sostituendoli con altri nuovi... migliori.

Si scosse di dosso quei pensieri malinconici: da quando era diventato così sdolcinato? Alain si diresse nel suo ufficio. I suoi passi erano ancora dolorosi, specialmente se aveva camminato molto durante il giorno, ma ormai, il più delle volte, riusciva a nascondere le smorfie e la rigidità, se si muoveva molto lentamente. Volutamente. Quel giorno, però, aveva decisamente camminato troppo e avrebbe dovuto sollevare la gamba, quando si fosse seduto. Poco prima di entrare nel suo ufficio, con l’intenzione di fare un’ultima chiamata in videoconferenza con un importante cliente parigino, prima che fosse troppo tardi in Europa, non poté fare a meno di sorridere, e la sensazione di usare quei muscoli facciali gli risultò insolita.

Non gli era sfuggito il modo in cui gli occhi di Veronica avevano lampeggiato e il suo petto si era gonfiato per l’indignazione, quando le aveva suggerito di non essere troppo frugale nelle sue scelte, anche se lei aveva cercato di nasconderlo. Poteva magari essere modesta, ma sotto sotto c’era anche del fuoco... Sperò sinceramente che si divertisse a fare shopping in città e, incuriosito suo malgrado, si chiese cosa avrebbe preso per Jean-Philippe. Sentì una strana accelerazione nel suo polso ricordando le sue curve generose, a quanto sarebbe stata morbida se l’avesse toccata, baciata, tenuta contro il suo corpo. Poi si tolse ogni pensiero di lei dalla testa e si concentrò sugli affari.

Capitolo Tre

Grant’s Cliff si trovava a solo a un paio di miglia al massimo dal castello e la città era sorprendentemente grande, ma molti dei caffè e dei negozi di souvenir lungo la strada principale del centro erano ancora chiusi per la stagione. Contrariamente a quanto aveva detto il controllore, sembrava dopotutto una meta turistica, anche se piccola. Veronica era stata a Camden, una volta, in una gita estiva di tanto tempo prima, e in diverse città del Maine meridionale, ma Grant’s Cliff sembrava più... autentica, in qualche modo, come se fosse un luogo destinato agli abitanti del posto quanto ai turisti. Dato che un altro nome del Maine era “Vacationland” – diamine, lo avevano scritto anche sulle targhe automobilistiche – pensò che forse quell’aspetto fosse insolito per una città costiera. C’erano diverse boutique tra cui scegliere, ma era preoccupata che non fossero proprio il suo stile e che i vestiti in vendita non fossero del tutto appropriati per correre dietro tutto il giorno dietro a un bambino di quattro anni. Con sollievo, individuò un minuscolo centro commerciale proprio ai margini del centro della città: era la versione più piccola di un grande magazzino che avesse mai visto. Tuttavia, riconobbe il nome e immaginò che avrebbe trovato tutto il necessario.

Monsieur Hormet, dopo averla aiutata a scendere dall’auto, la seguì all’interno e lei si sentì quasi come una celebrità con il suo piccolo entourage. Tutti, beh, tutti e cinque gli altri clienti, si girarono a guardarla, e lei arrossì, prima di dirigersi verso la sezione dei vestiti da donna. All’inizio fu parsimoniosa in quello che sceglieva, ma poi, ricordando le istruzioni di Monsieur Reynard di non essere troppo tradizionalista, aggiunse, alla sua pila di abiti, diversi top e maglioni fatti a maglia e pratici pantaloni. Quando arrivò a calze, biancheria intima e camicie da notte, Monsieur Hormet si schiarì la gola e guardò di proposito altrove, cosa che la fece sorridere. Avrebbe anche potuto giurare che un leggero rossore colorasse le guance consumate dal tempo di quel brav’uomo.

Portò tutto quello che aveva scelto nel camerino, con l’aiuto di una commessa che doveva avere diciassette anni, e cominciò a provare il primo vestito. Mentre si infilava i jeans foderati di pile e il maglione, si rese conto di non essere sola.

“...pericoloso lassù. Non lascerò che Caitlin e Connor vadano a giocare lì, visto che la bestia è tornata.”

Non riuscì a distinguere ogni parola della conversazione sommessa delle donne, ma le sue orecchie praticamente bruciarono, sentendo qualcun altro menzionare la bestia. Che diamine?

“...non sicuro ... dovrebbe essere illegale ... quel ragazzino.” La voce dell’altra donna era ancora più bassa, ma le sue parole più urgenti.

Quando Veronica sentì le porte del camerino accanto al suo aprirsi, si affrettò a finire di infilarsi il maglione, ma era troppo tardi per vedere qualcosa di più delle spalle di due donne che camminavano lungo lo stretto corridoio centrale del reparto femminile. Cosa avevano voluto dire? Da come ne parlavano, sembrava più che si stessero riferendo a una persona piuttosto che a un animale, ma chi chiamerebbe una persona “bestia”? E perché? Lei e Jean-Philippe sarebbero stati al sicuro durante le escursioni giornaliere che lei stava già pianificando mentalmente per loro due?

La commessa adolescente la stava aspettando, e l’entusiasmo genuino della ragazza per le sue scelte le fece presto dimenticare la strana conversazione. Finì per comprare un completo nuovo per ogni giorno della settimana – dimostrando che poteva essere non poi così pratica – insieme a un sufficiente assortimento di biancheria intima. Si sentì un po’ in colpa per aver comprato un paio di scarponi da trekking impermeabili super comodi, perché in realtà non possedeva quel tipo di scarpe da quando era bambina. Inoltre, era ragionevolmente certa che Monsieur Reynard sarebbe rimasto sconvolto da chiunque possedesse qualcosa di così pratico. Infatti, cercò di pagare lei stessa gli stivaletti, ma era già stato messo tutto insieme sul conto. Decise che avrebbe ripagato Monsieur Reynard e spiegato l’errore, dato che avrebbe comunque dovuto comprare qualcosa come quelle calzature per il nuovo lavoro. All’ultimo minuto, aggiunse anche un abito, dal momento che non era davvero sicura di cos’altro avrebbe comportato il suo lavoro. Non riusciva ancora a capire quale fosse lo stile di vita al castello e voleva essere preparata e, se possibile, evitare di indossare di nuovo il suo abito da colloquio.

Sorrise tra sé e sé mentre se ne andavano, finché non si rese conto che tutti la stavano di nuovo fissando. La studiavano, a dire il vero. Rivolse un vago sorriso al negozio in generale e pensò che non dovevano esserci molti visitatori in quel periodo dell’anno. Tuttavia, era stato strano.

Dopo aver messo le borse in macchina, fermò Monsieur Hormet prima che rientrassero. «C’è un negozio di caramelle o di giocattoli?»

Lo scintillio nei suoi occhi le disse che sapeva perché lo stava chiedendo. «Ce ne sono diversi, ma la maggior parte sono ancora chiusi per la stagione. Lì c’è un bel negozietto di souvenir che vende cose buffe e dolcetti.» Le indicò l’isolato successivo, ma quando fece per seguirla, lei lo fermò.

«No, no... lei rimanga qui. Ci metterò solo cinque minuti.» L’aria era ancora fresca, ma un po’ di sole doveva aver finalmente fatto breccia nel grigiore precedente, e le piaceva come faceva sentire tutto più gradevole. Poteva vedere e sentire l’oceano da quasi tutte le parti del piccolo centro. Sembrava davvero un pittoresco villaggio di pescatori del New England con rifiniture raffinate.

Il negozio di souvenir era strapieno di ogni sorta di cose, e lei immaginò che sarebbe stato il paradiso di un bambino. Aveva di tutto, dalle aragoste a molla alle caramelle sfuse e cioccolatini, mescolati a occhiali da sole, magliette e tutte le solite cose da turisti. Quando entrò, una donna stava parlando con la commessa, ma la conversazione si fermò non appena il campanello sopra la porta suonò, annunciando la sua presenza. Eppure, pensava di aver sentito “lavora per la bestia.”

«Buongiorno» azzardò, usando il suo tono più amichevole.

Le due donne sorrisero, ma non risposero.

Consapevole che Monsieur Hormet la stava aspettando, fece un rapido giro del negozio e fu felice di trovare un piccolo set di creature marine di plastica. Pensò che a Jean-Philippe sarebbe piaciuto e che sarebbe stato qualcosa che avrebbero potuto portare con loro e con cui giocare durante una scampagnata, e su cui inventare storie. Alla cassa, prese anche un paio di pezzi di caramelle salate fatte in loco, solo perché, beh... yum. Magari avrebbe potuto sgranocchiarne una mentre tornava a casa. La commessa le fece il conto in totale silenzio, mentre l’altra acquirente stava in disparte, ma Veronica avvertì i loro sguardi su di sé, mentre entrambe la guardavano uscire. Veronica combatté l’impulso di spazzolarsi la schiena per essere sicura che qualcosa non si fosse incollato in quel punto. Si supponeva che gli abitanti del Maine fossero più amichevoli dei bostoniani, che potevano essere un po’ scontrosi, ma… wow. Cos’aveva quella città?

Il viso di Monsieur Hormet si atteggiò in un sorriso quando vide cosa aveva comprato.

«Ottima scelta, Mademoiselle» disse, aprendole la portiera per farla entrare.

«Grazie, e spero che mi chiamerà Veronica. Monsieur Reynard ha detto che avrebbe informato tutti, ma probabilmente non ne ha avuto il tempo...»

«Certo, Mademoiselle Veronica. Con piacere» rispose Monsieur Hormet, e lei dovette nascondere un suo sorriso. Beh, almeno l’aveva chiamata Veronica... più o meno.

Dopo il breve viaggio di ritorno al castello, l’uomo insistette per portarle le borse nella sua stanza.