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Ancora un po'. Un po' di più. In me. Nella carne. Tra le braccia. Ma cade. Lasciando rigagnoli sul mio seno. Lungo le gambe. Brucia le spalle. Mi riscalda con un abbraccio invisibile. E non riesco a trattenerla. I capelli si appiattiscono sul viso. Mi entrano negli occhi.
Guardo in basso.
Verso lo scolo. E divento sempre più piccola. Mentre l'acqua scorre addosso. Dentro. Mi sento venire meno; risucchiata. Come se ogni forza fosse trascinata via. In un momento. Profondo come un abisso; dove potermi specchiare. E desidero. Essere come lei.
Come l'acqua che mi copre.
Che mi arrossa la pelle.
Scomparire. Assieme a lei. Scivolare via nelle tubature. E non tornare più a sentire.
Invece rimango.
Solida. Nella doccia. Con quel dolore che non ha nome. Con quel vuoto e quella mancanza di non so neppure io cosa. Così forte e reale. Che a volte mi sembra la mia unica ragione di vita. Poggio le mani sulle piastrelle. Non voglio pensare. Mentre scorre lungo la schiena. Quella calda mano. Che lava via ogni gioia ed allo stesso tempo nutre ogni speranza. Prima di toccare terra troverà il suo posto; troverà il suo perché. Almeno lei. E adesso mi sento acqua. Voglio essere acqua. M'illudo di essere acqua.
3
Ho aperto gli occhi all'improvviso.
Come riemergere da una lunga apnea. Le immagini attorno a me sono chiare eppure si confondono con quelle del sogno.
Il solito brutto sogno.
Rimango un attimo a pensare “e se fosse tutto vero?”
Lo scompartimento del treno su cui viaggiavo era vuoto ad eccezione di una ragazza. Mi stava guardando. Accenno un sorriso.
Spero di non aver parlato nel sonno. O peggio, russato. A volte mi capita. Sopratutto quando sono scomodo.
Il respiro torna lento e regolare.
E lei ritorna sullo schermo del suo mp3.
Mi volto verso il finestrino. Il paesaggio sfreccia veloce. Non si vede più nulla ormai. Solo qualche luce. Ogni tanto. Si lascia dimenticare come se non fosse mai esistita. E' buio. Saranno almeno le nove.
A volte mi sembra tutto così irreale. Tutto quello che ho attorno; tutta la mia vita. Mi guardo in giro, mi guardo in dietro, e penso che sia tutta una lunga allucinazione. Chissà, forse è davvero così.
Che importa in fondo?
Di sicuro non importa nulla a lei. Lei ascolta musica e sembra felice. E non importa un granché neppure a me alla fine. E' solo che...ogni volta che faccio quell'incubo mi sveglio di pessimo umore.
Decido di lasciarmi cullare dallo sciabordio del treno.
Sembra funzionare.
Mi rilassa.
Mi rilassa sempre.
Non so bene perché abbia preso questo treno. Forse perché amo viaggiare in treno. O forse per cercare di scoprire che cosa sia davvero reale. E che cosa sia solo il frutto della mia fantasia. Se vogliamo chiamarla così.
Spesso questi pensieri mi fanno compagnia. Non che abbia bisogno di compagnia, sia chiaro...solo che mi piace pensare e perdermi nei voli della mia mente. Non so perché. Per capire probabilmente.
Per conoscermi un po' di più.
Provate a chiudere gli occhi e scavare nella vostra memoria. Dai primi ricordi. Guardate il viso di vostro padre o quello di vostra madre. Guardate il ricordo di quando avete imparato ad andare in bicicletta, il vostro primo bacio, la prima sbronza, la prima delusione d'amore, i successi e le cadute.
Sono tutti lì. Nelle vostre memorie. Ogni tanto anche io apro quel cassetto nella mia mente e comincio a sfogliarle come se fossero un quotidiano.
Bene.
Ora provate a pensare che tutto o parte di quei ricordi, non siano mai realmente accaduti.
Come vi sentireste?
Benvenuti nel mondo di Nero.
“Buona sera.” Mi volto. E' il controllore.
Gesti. Non servono parole. La quotidianità delle persone è fatta di mille piccoli gesti inosservati e da troppe parole usate per riempire i silenzi. Silenzi che nessuno sa più ascoltare.
Sfilo il biglietto dalla tasca e penso che è uno spreco di carta. Lo allungo all'uomo. Mezz'età. Baffi folti. Belli, penso. Gli coprono le labbra. Ha la fede. Non vede bene da vicino perché avvicina il biglietto al viso. Però è scrupoloso. Lo timbra.
Faccio collezione di timbri.
Sorrido.
E gli faccio un cenno del capo in risposta al suo congedo.
Mi è sempre piaciuto osservare le persone. Senza nessuno scopo preciso. Le guardo e dai piccoli gesti mi costruisco, mi invento le loro vite. E' un passatempo dilettevole il più delle volte. Nella maggior parte dei casi, loro stanno al gioco se lo fai con discrezione. Devi però imparare a riconoscere dei segnali. Labbra tese verso il basso, palpebre che le seguono, meglio lasciar stare...sono in cerca di discussione. Ed io non amo discutere. Non amo parlare. Sopratutto con le persone.
Rimango alcuni secondi a fissare il corridoio. Le luci inondano ogni superficie. Ma fuori rimane buio. Un po' come dentro me. Non so quello che sto cercando. O forse sì. Magari non è poi così importante. “Scusa sai che ore sono?” chiedo senza pensare. La ragazza leva le cuffie. “Sai che ore sono?” ripeto, indicando con l'indice il polso. Questa volta ho quasi sussurrato. Ho fatto bene a mimare la domanda, non credo mi abbia sentito.
“Sono le nove meno un quarto...” dice.
“Grazie”.
“Hey ma oggi è primavera” dico più che altro a me stesso.
Lei mi ha sentito “eh sì, pare proprio che sia il 21 marzo”.
Probabilmente mi ha preso per uno strambo e stralunato che non sa neppure che giorno è. Ho quasi voglia di chiederle che giorno è oggi...la guardo un istante. E' tornata ad ascoltar musica. Scarta un panino. Uno di quelli preconfezionati. Sembra buono. C'è del tonno ed una salsa. Probabilmente maionese. Ho fame. Non mangio mai quando viaggio. Chissà dove va. Se torna a casa o parte. Sembra una studentessa. Magari torna a casa dai suoi. Oppure va a trovare il ragazzo. O... non ne ho idea. Non mi interessa.
Non mi piace parlare. Credo di avere una bella voce. Solo che non mi piace usarla. Certo, questo non aiuta nella comunicazione. Non so bene perché ciò accada. Eppure è così. Almeno da quando ho memoria. A volte rimango così tanto in silenzio che quando parlo devo tossicchiare per schiarirmi le corde vocali. Un po' come un motore usato troppo poco. Altre volte invece, come poco fa, muovo le labbra ed esce solo un suono flebile.
Mi piace il silenzio.
Nella mia testa, poi, parlo tanto.
Se uso la voce invece rompo il silenzio.
La quiete.
C'è tutta un'armonia dietro. Un'armonia che mi sembra solo di intuire e che non riesco bene a spiegare. Ad afferrare. Preferisco star zitto.
Ascoltare.
Osservare.
Spesso non si ha molto da dire. Anche per questo sto zitto. Perché spesso mi sembra di non avere molto da dire. Sopratutto se dall'altra parte non c'è nessuno che sia interessato ad ascoltare. La maggior parte delle cose che vengono dette sono superflue. Non sentite. Non rispecchiano, se non di rado, ciò che si prova, ciò che si sente. In pochi fanno corrispondere le parole con ciò che realmente sono. Si usano frasi preconfezionate, idee svuotate di significato. Ognuno le conosce già e ci si riconosce. A volte le parole vengono abusate, dette tanto per...sono solo gettate lì, in mezzo alla strada. Eppure loro sono qualcosa di reale. Creano la realtà. Nascondono tutta una magia dentro: racchiudono il senso e l'essenza di emozioni ed esperienze...
Le parole hanno un valore ed un peso inestimabile. Dovrebbero essere usate con cautela. Non tanto per riempire un vuoto o ottenere uno scopo. Arriverà il giorno in cui si ribelleranno. E non si faranno più trovare dalle persone.
Credo sia proprio ciò ad accadere quando non ti viene in mente una certa parola... lei non si vuol far trovare da te. Chissà cosa le hai fatto...
Alla fine vengono usate solo per fare amicizia. O per rassicurarsi.
Io non voglio fare amicizia.
E poi mi stanco.
Dopo cinque minuti che sono costretto a parlare, mi fermo. Ho quasi il fiatone. Come dopo una corsa.
Certo, a volte parlo.
Lo faccio con i miei amici.
Dopo, però, devo avere proprio un aspetto orribile, perché mi sento a pezzi, distrutto...mi vengono le occhiaie e mi sento debole.
Chissà se è felice il controllore. Magari ha un matrimonio splendido. E non vede l'ora di tornare a casa. Forse per quello ha controllato l'orologio prima di timbrare i biglietti. Mangiare un bel piatto caldo e poi andare a letto con la persona che ama. E rimanere stretti. Mentre nella camera accanto dormono i due figli. Certo, ci son problemi. I soldi che non bastano mai -la camicia un po' consumata sul collo ed una macchia che non è andata via, proprio sotto la cravatta.
I ragazzi che chiedono sempre di più... e la salute che si consuma. A volte il controllore, a dispetto della sua stazza, si sente come un cerino. Si accorcia. E si consuma.
Si piega su se stesso.
Fino a rimanere cenere.
Ma quando torna a casa ed entra infreddolito nel letto è felice. Perché abbraccia la moglie. E non sente più il peso dei problemi, del mutuo, dell'età; non ha più freddo. Lì, sotto quelle coperte, accanto a quella donna c'è solo benessere.
Non so. Forse non è così. E odia sua moglie e non ha figli.
Però mi piace immaginarlo felice. Senza soldi. Con la macchina sfasciata e un sacco di guai. Un abbraccio risolve un sacco di cose. Ed un abbraccio può far la differenza.
Non manca molto all'arrivo. Ed io non so ancora perché ho preso questo treno. Però sono felice di averlo fatto. Almeno credo. Ho sempre amato i viaggi in treno. Ma questo l'ho già detto.
Ci sono un sacco di persone. Di tutti i tipi. E c'è sempre qualcosa da guardare.
In silenzio.
4
La stazione non è molto affollata.
Nonostante la voce metallica degli altoparlanti e lo stridio dei freni dei treni, è piuttosto quieta. C'è il solito via vai di persone. Ferrovieri, qualche viaggiatore notturno. Non molti in verità. La maggior parte sta prendendo l'uscita, verso casa.
E poi c'è chi una casa non ce l'ha e si gode le ultime ore al coperto. La sera è fresca. La primavera si manifesta in una nota di dolcezza nell'aria. Anche se il vento è freddo. Pungente.
Indossavo il cappotto. Aperto.
Un clima strano. Tipico della primavera. Quando freddo e caldo si incontrano. Si scontrano. Battaglie. In alto, come sulla terra.
Il cielo era coperto. Nascondeva qualcosa; qualcosa che da qui non riuscivo a vedere. Era luminoso. Quasi bianco.
Non mi andava di andare in quel posto con la sera. Di giorno puoi fingere indifferenza. Puoi far finta di non sentire nulla o che nulla sia accaduto. Di giorno verità e immaginario si possono confondere. Mescolare.
Ma di notte non si può. Non riesco.
Avevo compreso che le cose accadono. A volte senza una ragione. E che la differenza non sta in cosa accade. Ma in come tu le vivi. Per me realtà e fantasia, dentro e fuori, hanno sempre avuto dei confini molto sfumati. Per me era tutto normale. Mi rendo però conto che così non fosse per tutti gli altri. Io pensavo, desideravo, qualcosa e non mi preoccupavo molto sul come realizzarla. Era come se mi costruissi una realtà. Non in modo consapevole. La immaginavo. E se sentivo che era così, diventava quella. Signore e signori ecco la realtà secondo Nero.
Tutto qui.
Capitava in questo modo. Niente di più, niente di meno. Un giorno, verso i sedici anni, mi son svegliato con la ferma convinzione di essere l'uomo più fortunato del mondo. Quel giorno non accadde nulla di eclatante. Certo, non fui interrogato in greco. Avrei preso due, sicuramente. Ma per l'uomo più fortunato del mondo, questo è nulla. Non fui infastidito dai ragazzi più grandi che ogni tanto si appostavano per rubare i soldi a noi piccoli. Niente di che.
Al mio rientro a casa non trovai il mio piatto preferito. Del resto non avevo voglia di lasagne.
Così decisi di concretizzare la mia fortuna: rubai qualche lira dalla borsa di mia madre ed andai a giocare al lotto. Non vinsi. Ma credo che quello fosse un segno. Non ero destinato a diventare ricco. E forse, se fossi diventato ricco, avrei perso la ragione, sarei impazzito e magari avrei commesso una strage; sarei finito in galera ad essere picchiato e sodomizzato per il resto dei miei giorni. “Wow” mi dissi. Ero davvero l'uomo più fortunato del mondo. Per fortuna non avevo vinto. Ecco. Io sono questo. Come si può definire un individuo così del tutto normale?
Vicino alla centrale ci sono decine di hotel a una, due, tre stelle. Crescevano come funghi, in un fitto sottobosco di idiomi, sapori e colori. Sbucavano fuori dai palazzi, s'insinuavano nei marciapiedi o tra le strade come lingue assetate.
Ne avevo trovato uno piuttosto economico e discretamente pulito. Il bagno in camera. A conduzione familiare. La reception aperta 24 ore al giorno. Non che mi interessasse questo dettaglio. Però è una di quelle cose che ti rimangono impresse. E poi avevo il balcone. Affacciava sulla strada. Mi piaceva prendere aria e magari dormire con la finestra aperta. In qualsiasi stagione.
Era dentro un palazzo di metà ottocento. Non distante dai giardini di Palestro. Quella di Porta Venezia è sempre stata una delle mie zone preferite qui nella grande città.
Mi sembrava di essere altrove ogni volta che vi passeggiavo. Negozi multietnici, il parco, profumi d'oriente e d'Africa. Tutto inserito in un contesto “basso”. Quello della Milano di fine ottocento, metà novecento. Niente alla moda; solo un pizzico di buon gusto. Almeno in parte.
Qui non c'erano palazzoni di vetro e acciaio. Non ancora almeno.
Certo che è curioso, pensai: amare una zona di una città proprio perché ti fa credere di non trovarti in quella città...ma anche questo in fondo è solo un altro dettaglio.
C'era aria di neve. La respiravo. Chissà se avrebbe nevicato. Torno a Milano a fine marzo e nevica. Sorrisi. Mi divertiva l'idea.
Ero entrato da pochi minuti nella stanza che mi avrebbe ospitato per alcuni giorni. Il bagno era pulito. C'era una bella doccia. Nuova. Alcune mattonelle intorno allo specchio sul lavabo erano rotte. Il materasso però era comodo.
Quando andavo in hotel ispezionavo sempre la camera. Il bagno, le sedie -se c'erano- aprivo gli armadi e i cassetti, come se avessi dovuto trovarci qualcosa...e poi leggevo tutte le regole dell'hotel. Solo alla fine mi sedevo sul letto per testare il materasso.
Se potevo, fumavo una sigaretta. Oppure scendevo nella reception ed uscivo a fumare per strada. Adesso ero sul balcone. Avevo appena fatto un tiro. Guardavo in alto. Il cielo. E poi il palazzo di fronte.
La bocca mi si era riempita del sapore dolciastro del sangue mentre buttavo fuori il fumo. Il dente. Aveva ripreso a sanguinare. L'avrei dovuto sistemare molti anni fa. Certo non me ne potevo lamentare.