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Луна и костры. Прекрасное лето / La luna e i falo. La bella estate. Книга для чтения на итальянском языке
Чезаре Павезе
Lettura moderna
В книге представлены два произведения замечательного итальянского писателя-неореалиста, поэта и переводчика Чезаре Павезе «Луна и костры» и «Прекрасное лето».
Роман «Прекрасное лето» получил главную итальянскую литературную премию «Стрега». Италия тридцатых годов, рабочая окраина Турина. На этом фоне разворачивается яркая и драматическая история любви шестнадцатилетней Джинии и художника Гвидо. Джиния стремится вырваться из тусклой реальности и живет ожиданием прекрасного лета.
Героя произведения «Луна и костры», итальянца, сделавшего карьеру в Америке, манит прошлое, потому что только там, на родине, жизнь его обретет смысл – со старыми друзьями среди залитых солнцем виноградников, ореховых рощ и холмов. Но, вернувшись, герой понимает, что все изменилось – и места, и люди, и только дым костров, тлеющих и никогда не гаснущих, временами снова разгорающихся, все тот же – из прошлого…
Cesare Pavese "La luna e i falò. La bella estate"
LA LUNA E I FALÒ
for C.
Ripeness is all.
I
C’è una ragione perché sono tornato in questo paese, qui e non invece a Canelli, a Barbaresco o in Alba. Qui non ci sono nato, è quasi certo; dove son nato non lo so; non c’è da queste parti una casa né un pezzo di terra né delle ossa ch’io possa dire «Ecco cos’ero prima di nascere». Non so se vengo dalla collina o dalla valle, dai boschi o da una casa di balconi. La ragazza che mi ha lasciato sugli scalini del duomo di Alba, magari non veniva neanche dalla campagna, magari era la figlia dei padroni di un palazzo, oppure mi ci hanno portato in un cavagno da vendemmia due povere donne da Monticello, da Neive o perché no da Cravanzana. Chi può dire di che carne sono fatto? Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di piú che un comune giro di stagione.
Se sono cresciuto in questo paese, devo dir grazie alla Virgilia, a Padrino, tutta gente che non c’è piú, anche se loro mi hanno preso e allevato soltanto perché l’ospedale di Alessandria gli passava la mesata. Su queste colli-ne quarant’anni fa c’erano dei dannati che per vedere uno scudo d’argento si caricavano un bastardo dell’ospedale, oltre ai figli che avevano già. C’era chi prendeva una bambina per averci poi la servetta e comandarla meglio; la Virgilia volle me perché di figlie ne aveva già due, e quando fossi un po’ cresciuto speravano di aggiustarsi in una grossa cascina e lavorare tutti quanti e star bene. Padrino aveva allora il casotto di Gaminella – due stanze e una stalla – la capra e quella riva dei noccioli. Io venni su con le ragazze, ci rubavamo la polenta, dormivamo sullo stesso saccone, Angiolina la maggiore aveva un anno piú di me; e soltanto a dieci anni, nell’inverno quando morí la Virgilia, seppi per caso che non ero suo fratello. Da quell’inverno Angiolina giudiziosa dovette smettere di girare con noi per la riva e per i boschi; accudiva alla casa, faceva il pane e le robiole, andava lei a ritirare in municipio il mio scudo; io mi vantavo con Giulia di valere cinque lire, le dicevo che lei non fruttava niente e chiedevo a Padrino perché non prendevamo altri bastardi.
Adesso sapevo ch’eravamo dei miserabili, perché soltanto i miserabili allevano i bastardi dell’ospedale. Prima, quando correndo a scuola gli altri mi dicevano bastardo, io credevo che fosse un nome come vigliacco o vagabondo e rispondevo per le rime. Ma ero già un ragazzo fatto e il municipio non ci pagava piú lo scudo, che io ancora non avevo ben capito che non essere figlio di Padrino e della Virgilia voleva dire non essere nato in Gaminella, non essere sbucato da sotto i noccioli o dall’orecchio della nostra capra come le ragazze.
L’altr’anno, quando tornai la prima volta in paese, venni quasi di nascosto a rivedere i noccioli. La collina di Gaminella, un versante lungo e ininterrotto di vigne e di rive, un pendío cosí insensibile che alzando la testa non se ne vede la cima – e in cima, chi sa dove, ci sono altre vigne, altri boschi, altri sentieri – era come scorticata dall’inverno, mostrava il nudo della terra e dei tronchi. La vedevo bene, nella luce asciutta, digradare gigantesca verso Canelli dove la nostra valle finisce. Dalla straduccia che segue il Belbo arrivai alla spalliera del piccolo ponte e al canneto. Vidi sul ciglione la parete del casotto di grosse pietre annerite, il fico storto, la finestretta vuota, e pensavo a quegli inverni terribili. Ma intorno gli alberi e la terra erano cambiati; la macchia dei noccioli sparita, ridotta una stoppia di meliga. Dalla stalla muggí un bue, e nel freddo della sera sentii l’odore del letame. Chi adesso stava nel casotto non era dunque piú cosí pezzente come noi. M’ero sempre aspettato qualcosa di simile, o magari che il casotto fosse crollato; tante volte m’ero immaginato sulla spalletta del ponte a chiedermi com’era stato possibile passare tanti anni in quel buco, su quei pochi sentieri, pascolando la capra e cercando le mele rotolate in fondo alla riva, convinto che il mondo finisse alla svolta dove la strada strapiombava sul Belbo. Ma non mi ero aspettato di non trovare piú i noccioli. Voleva dire ch’era tutto finito. La novità mi scoraggiò al punto che non chiamai, non entrai sull’aia. Capii lí per lí che cosa vuol dire non essere nato in un posto, non averlo nel sangue, non starci già mezzo sepolto insieme ai vecchi, tanto che un cambiamento di colture non importi. Certamente, di macchie di noccioli ne restavano sulle colline, potevo ancora ritrovarmici; io stesso, se di quella riva fossi stato padrone, l’avrei magari roncata e messa a grano, ma intanto adesso mi faceva l’effetto di quelle stanze di città dove si affitta, si vive un giorno o degli anni, e poi quando si trasloca restano gusci vuoti, disponibili, morti.
Meno male che quella sera voltando le spalle a Gaminella avevo di fronte la collina del Salto, oltre Belbo, con le creste, coi grandi prati che sparivano sulle cime. E piú in basso anche questa era tutta vigne spoglie, tagliate da rive, e le macchie degli alberi, i sentieri, le cascine sparse erano come li avevo veduti giorno per giorno, anno per anno, seduto sul trave dietro il casotto o sulla spalletta del ponte. Poi, tutti quegli anni fino alla leva, ch’ero stato servitore alla cascina della Mora nella grassa piana oltre Belbo, e Padrino, venduto il casotto di Gaminella, se n’era andato con le figlie a Cossano, tutti quegli anni bastava che alzassi gli occhi dai campi per vedere sotto il cielo le vigne del Salto, e anche queste digradavano verso Canelli, nel senso della ferrata, del fischio del treno che sera e mattina correva lungo il Belbo facendomi pensare a meraviglie, alle stazioni e alle città.
Cosí questo paese, dove non sono nato, ho creduto per molto tempo che fosse tutto il mondo. Adesso che il mondo l’ho visto davvero e so che è fatto di tanti piccolo paesi, non so se da ragazzo mi sbagliavo poi di molto. Uno gira per mare e per terra, come i giovanotti dei miei tempi andavano sulle feste dei paesi intorno, e ballavano, bevevano, si picchiavano, portavano a casa la bandiera e i pugni rotti. Si fa l’uva e la si vende a Canelli; si raccolgono i tartufi e si portano in Alba. C’è Nuto, il mio amico del Salto, che provvede di bigonce e di torchi tutta la valle fino a Camo. Che cosa vuol dire? Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. Ma non è facile starci tranquillo. Da un anno che lo tengo d’occhio e quando posso ci scappo da Genova, mi sfugge di mano. Queste cose si capiscono col tempo e l’esperienza. Possibile che a quarant’anni, e con tutto il mondo che ho visto, non sappia ancora che cos’è il mio paese?
C’è qualcosa che non mi capacita. Qui tutti hanno in mente che sono tornato per comprarmi una casa, e mi chiamano l’Americano, mi fanno vedere le figlie. Per uno che è partito senza nemmeno averci un nome, dovrebbe piacermi, e infatti mi piace. Ma non basta. Mi piace anche Genova, mi piace sapere che il mondo è rotondo e avere un piede sulle passerelle. Da quando, ragazzo, al cancello della Mora mi appoggiavo al badile e ascoltavo le chiacchiere dei perdigiorno di passaggio sullo stradone, per me le collinette di Canelli sono la porta del mondo. Nuto che, in confronto con me, non si è mai allontanato dal Salto, dice che per farcela a vivere in questa valle non bisogna mai uscirne. Proprio lui che da giovanotto è arrivato a suonare il clarino in banda oltre Canelli, fino a Spigno, fino a Ovada, dalla parte dove si leva il sole. Ne parliamo ogni tanto, e lui ride.
II
Quest’estate sono sceso all’albergo dell’Angelo, sulla piazza del paese, dove piú nessuno mi conosceva, tanto sono grand’e grosso. Neanch’io in paese conoscevo nessuno; ai miei tempi ci si veniva di rado, si viveva sulla strada, per le rive, nelle aie. Il paese è molto in su nella valle, l’acqua del Belbo passa davanti alla chiesa mezz’ora prima di allargarsi sotto le mie colline.
Ero venuto per riposarmi un quindici giorni e càpito che è la Madonna d’agosto. Tanto meglio, il va e vieni della gente forestiera, la confusione e il baccano della piazza, avrebbero mimetizzato anche un negro. Ho sentito urlare, cantare, giocare al pallone; col buio, fuochi e mortaretti; hanno bevuto, sghignazzato, fatto la processione; tutta la notte per tre notti sulla piazza è andato il ballo, e si sentivano le macchine, le cornette, gli schianti dei fucili pneumatici. Stessi rumori, stesso vino, stesse facce di una volta. I ragazzotti che correvano tra le gambe alla gente erano quelli; i fazzolettoni, le coppie di buoi, il profumo, il sudore, le calze delle donne sulle gambe scure, erano quelli. E le allegrie, le tragedie, le promesse in riva a Belbo. C’era di nuovo che una volta, coi quattro soldi del mio primo salario in mano, m’ero buttato nella festa, al tiro a segno, sull’altalena, avevamo fatto piangere le ragazzine dalle trecce, e nessuno di noialtri sapeva ancora perché uomini e donne, giovanotti impomatati e figliole superbe, si scontravano, si prendevano, si ridevano in faccia e ballavano insieme. C’era di nuovo che adesso lo sapevo, e quel tempo era passato. Me n’ero andato dalla valle quando appena cominciavo a saperlo. Nuto che c’era rimasto, Nuto il falegname del Salto, il mio complice delle prime fughe a Canelli, aveva poi per dieci anni suonato il clarino su tutte le feste, su tutti i balli della vallata. Per lui il mondo era stato una festa continua di dieci anni, sapeva tutti i bevitori, i saltimbanchi, le allegrie dei paesi.
Da un anno tutte le volte che faccio la scappata passo a trovarlo. La sua casa è a mezza costa sul Salto, dà sul libero stradone; c’è un odore di legno fresco, di fiori e di trucioli che, nei primi tempi della Mora, a me che venivo da un casotto e da un’aia sembrava un altro mondo: era l’odore della strada, dei musicanti, delle ville di Canelli dove non ero mai stato.
Adesso Nuto è sposato, un uomo fatto, lavora e dà lavoro, la sua casa è sempre quella e sotto il sole sa di gerani e di leandri, ne ha delle pentole alle finestre e davanti. Il clarino è appeso all’armadio; si cammina sui trucioli; li buttano a ceste nella riva sotto il Salto – una riva di gaggie, di felci e di sambuchi, sempre asciutta d’estate.
Nuto mi ha detto che ha dovuto decidersi – o falegname o musicante – e cosí dopo dieci anni di festa ha posato il clarino alla morte del padre. Quando gli raccontai dov’ero stato, lui disse che ne sapeva già qualcosa da gente di Genova e che in paese ormai raccontavano che prima di partire avevo trovato una pentola d’oro sotto la pila del ponte. Scherzammo. – Forse adesso, – dicevo, – salterà fuori anche mio padre.
– Tuo padre, – mi disse, – sei tu.
– In America, – dissi, – c’è di bello che sono tutti bastardi.
– Anche questa, – fece Nuto, – è una cosa da aggiustare. Perché ci dev’essere chi non ha nome né casa? Non siamo tutti uomini?
– Lascia le cose come sono. Io ce l’ho fatta, anche senza nome.
– Tu ce l’hai fatta, – disse Nuto, – e piú nessuno osa parlartene; ma quelli che non ce l’hanno fatta? Non sai quanti meschini ci sono ancora su queste colline. Quando giravo con la musica, dappertutto davanti alle cucine si trovava l’idiota, il deficiente, il venturino. Figli di alcoolizzati e di serve ignoranti, che li riducono a vivere di torsi di cavolo e di croste. C’era anche chi li scherzava.
– Tu ce l’hai fatta, – disse Nuto, – perché bene o male hai trovato una casa; mangiavi poco dal Padrino, ma mangiavi. Non bisogna dire, gli altri ce la facciano, bisogna aiutarli.
A me piace parlare con Nuto; adesso siamo uomini e ci conosciamo; ma prima, ai tempi della Mora, del lavoro in cascina, lui che ha tre anni piú di me sapeva già fischiare e suonare la chitarra, era cercato e ascoltato, ragionava coi grandi, con noi ragazzi, strizzava l’occhio alle donne. Già allora gli andavo dietro e alle volte scappavo dai beni per correre con lui nella riva o dentro il Belbo, a caccia di nidi. Lui mi diceva come fare per essere rispettato alla Mora; poi la sera veniva in cortile a vegliare con noi della cascina.
E adesso mi raccontava della sua vita di musicante. I paesi dov’era stato li avevamo intorno a noi, di giorno chiari e boscosi sotto il sole, di notte nidi di stelle nel cielo nero. Coi colleghi di banda che istruiva lui sotto una tettoia il sabato sera alla Stazione, arrivavano sulla festa leggeri e spediti; poi per due tre giorni non chiudevano piú la bocca né gli occhi; via il clarino il bicchiere, via il bicchiere la forchetta, poi di nuovo il clarino, la cornetta, la tromba, poi un’altra mangiata, poi un’altra bevuta e l’assolo, poi la merenda, il cenone, la veglia fino al mattino. C’erano feste, processioni, nozze; c’erano gare con le bande rivali. La mattina del secondo, del terzo giorno scendevano dal palchetto stralunati, era un piacere cacciare la faccia in un secchio d’acqua e magari buttarsi sull’erba di quei prati tra i carri, i birocci e lo stallatico dei cavalli e dei buoi. – Chi pagava? – dicevo. – I comuni, le famiglie, gli ambiziosi, tutti quanti. E a mangiare, – diceva, – erano sempre gli stessi.
Che cosa mangiavano, bisognava sentire. Mi tornavano in mente le cene di cui si raccontava alla Mora, cene d’altri paesi e d’altri tempi. Ma i piatti erano sempre gli stessi, e a sentirli mi pareva di rientrare nella cucina della Mora, di rivedere le donne grattugiare, impastare, farcire, scoperchiare e far fuoco, e mi tornava in bocca quel sapore, sentivo lo schiocco dei sarmenti rotti.
– Tu ci avevi la passione, – gli dicevo. – Perché hai smesso? Perché è morto tuo padre?
E Nuto diceva che, prima cosa, suonando se ne portano a casa pochi, e poi che tutto quello spreco e non sapere mai bene chi paga, alla fine disgusta. – Poi c’è stata la guerra, – diceva. – Magari alle ragazze prudevano ancora le gambe, ma chi le faceva piú ballare? La gente si è divertita diverso, negli anni di guerra.
– Però la musica mi piace, – continuò Nuto ripensandoci, – c’è soltanto il guaio ch’è un cattivo padrone… Diventa un vizio, bisogna smettere. Mio padre diceva ch’è meglio il vizio delle donne…
– Già, – gli dissi, – come sei stato con le donne? Una volta ti piacevano. Sul ballo ci passano tutte.
Nuto ha un modo di ridere fischiettando, anche se fa sul serio.
– Non hai fornito l’ospedale di Alessandria?
– Spero di no, – disse lui. – Per uno come te, quanti meschini.
Poi mi disse che, delle due, preferiva la musica. Mettersi in gruppo – a volte succedeva – le notti che rientravano tardi, e suonare, suonare, lui, la cornetta, e il mandolino, andando per lo stradone nel buio, lontano dalle case, lontano dalle donne e dai cani che rispondono da matti, suonare cosí. – Serenate non ne ho mai fatte, – diceva, – una ragazza, se è bella, non è la musica che cerca. Cerca la sua soddisfazione davanti alle amiche, cerca l’uomo. Non ho mai conosciuto una ragazza che capisse cos’è suonare…
Nuto s’accorse che ridevo e disse subito: – Te ne conto una. Avevo un musicante, Arboreto, che suonava il bombardino. Faceva tante serenate che di lui dicevamo: Quei due non si parlano mica, si suonano…
Questi discorsi li facevamo sullo stradone, o alla sua finestra bevendo un bicchiere, e sotto avevamo la piana del Belbo, le albere che segnavano quel filo d’acqua, e davanti la grossa collina di Gaminella, tutta vigne e macchie di rive. Da quanto tempo non bevevo di quel vino?
– Te l’ho già detto, – dissi a Nuto, – che il Cola vuol vendere?
– Soltanto la terra? – disse lui. – Stai attento che ti vende anche il letto.
– Di sacco o di piuma? – dissi tra i denti. – Sono vecchio.
– Tutte le piume diventano sacco, – disse Nuto. Poi mi fa: – Sei già andato a dare un’occhiata alla Mora?
Difatti. Non c’ero andato. Era a due passi dalla casa del Salto e non c’ero andato. Sapevo che il vecchio, le figlie, i ragazzi, i servitori, tutti erano dispersi, spariti, chi morto, chi lontano. Restava soltanto Nicoletto, quel nipote scemo che mi aveva gridato tante volte bastardo pestando i piedi, e metà della roba era venduta.
Dissi: – Un giorno ci andrò. Sono tornato.
III
Di Nuto musicante avevo avuto notizie fresche addirittura in America – quanti anni fa? – quando ancora non pensavo a tornare, quando avevo mollato la squadra ferrovieri e di stazione in stazione ero arrivato in California e vedendo quelle lunghe colline sotto il sole avevo detto: «Sono a casa». Anche l’America finiva nel mare, e stavolta era inutile imbarcarmi ancora, cosí m’ero fermato tra i pini e le vigne. «A vedermi la zappa in mano», dicevo, «quelli di casa riderebbero». Ma non si zappa in California. Sembra di fare i giardinieri, piuttosto. Ci trovai dei piemontesi e mi seccai: non valeva la pena aver traversato tanto mondo, per vedere della gente come me, che per giunta mi guardava di traverso. Piantai le campagne e feci il lattaio a Oakland. La sera, traverso il mare della baia, si vedevano i lampioni di San Francisco. Ci andai, feci un mese di fame e, quando uscii di prigione, ero al punto che invidiavo i cinesi. Adesso mi chiedevo se valeva la pena di traversare il mondo per vedere chiunque. Ritornai sulle colline.
Ci vivevo da un pezzo e m’ero fatto una ragazza che non mi piaceva piú da quando lavorava con me nel locale sulla strada del Cerrito. A forza di venire a prendermi sull’uscio, s’era fatta assumere come cassiera, e adesso tutto il giorno mi guardava attraverso il banco, mentre friggevo il lardo e riempivo bicchieri. La sera uscivo fuori e lei mi raggiungeva correndo sull’asfalto coi tacchetti, mi prendeva a braccio e voleva che fermassimo una macchina per scendere al mare, per andare al cinema.
Appena fuori della luce del locale, si era soli sotto le stelle, in un baccano di grilli e di rospi. Io avrei voluto portarmela in quella campagna, tra i meli, i boschetti, o anche soltanto l’erba corta dei ciglioni, rovesciarla su quella terra, dare un senso a tutto il baccano sotto le stelle. Non voleva saperne. Strillava come fanno le donne, chiedeva di entrare in un altro locale. Per lasciarsi toccare – avevamo una stanza in un vicolo di Oakland – voleva essere sbronza.
Fu una di quelle notti che sentii raccontare di Nuto. Da un uomo che veniva da Bubbio. Lo capii dalla statura e dal passo, prima ancora che aprisse bocca. Portava un camion di legname e, mentre fuori gli facevano il pieno della benzina, lui mi chiese una birra.
– Sarebbe meglio una bottiglia, – dissi in dialetto, a labbra strette.
Gli risero gli occhi e mi guardò. Parlammo tutta la sera, fin che da fuori non sfiatarono il clacson. Nora, dalla cassa, tendeva l’orecchio, si agitava, ma Nora non era mai stata nell’Alessandrino e non capiva. Versai perfino al mio amico una tazza di whisky proibito. Mi raccontò che lui a casa aveva fatto il conducente, i paesi dove aveva girato, perché era venuto in America. – Ma se sapevo che si beve questa roba… Mica da dire, riscalda, ma un vino da pasto non c’è…
– Non c’è niente, – gli dissi, – è come la luna.
Nora, irritata, si aggiustava i capelli. Si girò sulla sedia e aprí la radio sui ballabili. Il mio amico strinse le spalle, si chinò e mi disse sul banco facendo cenno all’indietro con la mano: – A te queste donne ti piacciono?
Passai lo straccio sul banco. – Colpa nostra, – dissi. – Questo paese è casa loro.
Lui stette zitto ascoltando la radio. Io sentivo sotto la musica, uguale, la voce dei rospi. Nora, impettita, gli guardava la schiena con disprezzo.
– È come questa musichetta, – disse lui. – C’è confronto? Non sanno mica suonare…
E mi raccontò della gara di Nizza l’anno prima, quando erano venute le bande di tutti i paesi, da Cortemilia, da San Marzano, da Canelli, da Neive, e avevano suonato suonato, la gente non si muoveva piú, s’era dovuta rimandare la corsa dei cavalli, anche il parroco ascoltava i ballabili, bevevano soltanto per farcela, a mezzanotte suonavano ancora, e aveva vinto il Tiberio, la banda di Neive. Ma c’era stata discussione, fughe, bottiglie in testa, e secondo lui meritava il premio quel Nuto del Salto…
– Nuto? ma lo conosco.
E allora l’amico disse a me chi era Nuto e che cosa faceva. Raccontò che quella stessa notte, per farla vedere agli ignoranti, Nuto s’era messo sullo stradone avevano suonato senza smettere fino a Calamandrana. Lui li aveva seguiti in bicicletta, sotto la luna, e suonavano cosí bene che dalle case le donne saltavano giú dal letto e battevano le mani e allora la banda si fermava e cominciava un altro pezzo. Nuto, in mezzo, portava tutti col clarino.
Nora gridò che facessi smettere il clacson. Versai un’altra tazza al mio amico e gli chiesi quando tornava a Bubbio.
– Anche domani, – disse lui, – se potessi.
Quella notte, prima di scendere a Oakland, andai a fumare una sigaretta sull’erba, lontano dalla strada dove passavano le macchine, sul ciglione vuoto. Non c’era luna ma un mare di stelle, tante quante le voci dei rospi e dei grilli. Quella notte, se anche Nora si fosse lasciata rovesciare sull’erba, non mi sarebbe bastato. I rospi non avrebbero smesso di urlare, né le automobili di buttarsi per la discesa accelerando, né l’America di finire con quella strada, con quelle città illuminate sotto la costa. Capii nel buio, in quell’odore di giardino e di pini, che quelle stelle non erano le mie, che come Nora e gli avventori mi facevano paura. Le uova al lardo, le buone paghe, le arance grosse come angurie, non erano niente, somigliavano a quei grilli e a quei rospi. Valeva la pena esser venuto? Dove potevo ancora andare? Buttarmi dal molo?
Adesso sapevo perché ogni tanto sulle strade si trovava una ragazza strangolata in un’automobile, o dentro una stanza o in fondo a un vicolo. Che anche loro, questa gente, avesse voglia di buttarsi sull’erba, di andare d’accordo coi rospi, di esser padrona di un pezzo di terra quant’è lunga una donna, e dormirci davvero, senza paura? Eppure il paese era grande, ce n’era per tutti. C’erano donne, c’era terra, c’era denari. Ma nessuno ne aveva abbastanza, nessuno per quanto ne avesse si fermava, e le campagne, anche le vigne, sembravano giardini pubblici, aiuole finte come quelle delle stazioni, oppure incolti, terre bruciate, montagne di ferraccio. Non era un paese che uno potesse rassegnarsi, posare la testa e dire agli altri: «Per male che vada mi conoscete. Per male che vada lasciatemi vivere». Era questo che faceva paura. Neanche tra loro non si conoscevano; traversando quelle montagne si capiva a ogni svolta che nessuno lí si era mai fermato, nessuno le aveva toccate con le mani. Per questo un ubriaco lo caricavano di botte, lo mettevano dentro, lo lasciavano per morto. E avevano non soltanto la sbornia, ma anche la donna cattiva. Veniva il giorno che uno per toccare qualcosa, per farsi conoscere, strozzava una donna, le sparava nel sonno, le rompeva la testa con una chiave inglese.
Nora mi chiamò dalla strada, per andare in città. Aveva una voce, in distanza, come quella dei grilli. Mi scappò da ridere, all’idea se avesse saputo quel che pensavo. Ma queste cose non si dicono a nessuno, non serve. Un bel mattino non mi avrebbe piú visto, ecco tutto. Ma dove andare? Ero arrivato in capo al mondo, sull’ultima costa, e ne avevo abbastanza. Allora cominciai a pensare che potevo ripassare le montagne.
IV
Nemmeno per la Madonna d’agosto Nuto ha voluto imboccare il clarino – dice che è come nel fumare, quando si smette bisogna smettere davvero. Di sera veniva all’Angelo e stavamo a prendere il fresco sul poggiolo della mia stanza. Il poggiolo dà sulla piazza e la piazza era un finimondo, ma noi guardavamo di là dai tetti le vigne bianche sotto la luna.
Nuto che di tutto vuol darsi ragione mi parlava di che cos’è questo mondo, voleva sapere da me quel che si fa e quel che si dice, ascoltava col mento poggiato sulla ringhiera.
– Se sapevo suonare come te, non andavo in America, – dissi. – Sai com’è a quell’età. Basta vedere una ragazza, prendersi a pugni con uno, tornare a casa sotto il mattino. Uno vuol fare, esser qualcosa, decidersi. Non ti rassegni a far la vita di prima. Andando sembra piú facile. Si sentono tanti discorsi. A quell’età una piazza come questa sembra il mondo. Uno crede che il mondo sia cosí…
Nuto taceva e guardava i tetti.
– …Chi sa quanti dei ragazzi qui sotto, – dissi, – vorrebbero prendere la strada di Canelli…
– Ma non la prendono, – disse Nuto. – Tu invece l’hai presa. Perché?
Si sanno queste cose? Perché alla Mora mi dicevano anguilla? Perché un mattino sul ponte di Canelli avevo visto un’automobile investire quel bue? Perché non sapevo suonare neanche la chitarra?
Dissi: – Alla Mora stavo troppo bene. Credevo che tutto il mondo fosse come la Mora.
– No, – disse Nuto, – qui stanno male ma nessuno va via. È perché c’è un destino. Tu a Genova, in America, va’ a sapere, dovevi far qualcosa, capire qualcosa che ti sarebbe toccato.
– Proprio a me? Ma non c’era bisogno di andare fin là.
– Magari è qualcosa di bello, – disse Nuto, – non hai fatto i soldi? Magari non te ne sei neanche accorto. Ma a tutti succede qualcosa.
Parlava a testa bassa, la voce usciva storta contro la ringhiera. Fece scorrere i denti sulla ringhiera. Sembrava che giocasse. A un tratto alzò la testa. – Un giorno o l’altro ti racconto delle cose di qui, – disse. – A tutti qualcosa tocca. Vedi dei ragazzi, della gente che non è niente, non fanno nessun male, ma viene il giorno che anche loro…
Sentivo che faceva fatica. Trangugiò la saliva. Da quando ci eravamo rivisti non mi ero ancora abituato a considerarlo diverso da quel Nuto scavezzacollo e tanto in gamba che c’insegnava a tutti quanti e sapeva sempre dir la sua. Mai che mi ricordassi che adesso l’avevo raggiunto e che avevamo la stessa esperienza. Nemmeno mi sembrava cambiato; era soltanto un po’ piú spesso, un po’ meno fantastico, quella faccia da gatto era piú tranquilla e sorniona. Aspettai che si facesse coraggio e si levasse quel peso. Ho sempre visto che la gente, a lasciarle tempo, vuota il sacco.
Ma Nuto quella sera non vuotò il sacco. Cambiò discorso.
Disse: – Sentili, come saltano e come bestemmiano. Per farli venire a pregar la madonna il parroco bisogna che li lasci sfogare. E loro per potersi sfogare bisogna che accendano i lumi alla madonna. Chi dei due frega l’altro?
– Si fregano a turno, – dissi.
– No no, – disse Nuto, – la vince il parroco. Chi è che paga l’illuminazione, i mortaretti, il priorato e la musica? E chi se la ride l’indomani della festa? Dannati, si rompono la schiena per quattro palmi di terra, e poi se li fanno mangiare.
– Non dici che la spesa piú grossa tocca alle famiglie ambiziose?
– E le famiglie ambiziose dove prendono i soldi? Fan lavorare il servitore, la donnetta, il contadino. E la terra, dove l’han presa? Perché dev’esserci chi ne ha molta e chi niente?
– Cosa sei? comunista?
Nuto mi guardò tra storto e allegro. Lasciò che la banda si sfogasse, poi sbirciandomi sempre borbottò: – Siamo troppo ignoranti in questo paese. Comunista non è chi vuole. C’era uno, lo chiamavano il Ghigna, che si dava del comunista e vendeva i peperoni in piazza. Beveva e poi gridava di notte. Questa gente fa piú male che bene. Ci vorrebbero dei comunisti non ignoranti, che non guastassero il nome. Il Ghigna han fatto presto a fregarlo, piú nessuno gli comprava i peperoni. Ha dovuto andar via quest’inverno.
Gli dissi che aveva ragione ma dovevano muoversi nel ’45 quando il ferro era caldo. Allora anche il Ghigna sarebbe stato un aiuto. – Credevo tornando in Italia di trovarci qualcosa di fatto. Avevate il coltello dal manico…
– Io non avevo che una pialla e uno scalpello, – disse Nuto.
– Della miseria ne ho vista dappertutto, – dissi. – Ci sono dei paesi dove le mosche stanno meglio dei cristiani. Ma non basta per rivoltarsi. La gente ha bisogno di una spinta. Allora avevate la spinta e la forza… C’eri anche tu sulle colline?
Non gliel’avevo mai chiesto. Sapevo di diversi del paese – giovanotti venuti al mondo quando noi non avevamo vent’anni – che c’erano morti, su quelle strade, per quei boschi. Sapevo molte cose, gliele avevo chieste, ma non se lui avesse portato il fazzoletto rosso e maneggiato un fucile. Sapevo che quei boschi s’erano riempiti di gente di fuori, renitenti alla leva, scappati di città, teste calde – e Nuto non era di nessuno di questi. Ma Nuto è Nuto e sa meglio di me quel che è giusto.
– No, – disse Nuto, – se ci andavo, mi bruciavano la casa.
Nella riva del Salto Nuto aveva tenuto nascosto dentro una tana un partigiano ferito e gli portava da mangiare di notte. Me lo aveva detto sua mamma. Ci credevo. Era Nuto. Soltanto ieri per strada incontrando due ragazzi che tormentavano una lucertola gli aveva preso la lucertola. Vent’anni passano per tutti.
– Se il sor Matteo ce l’avesse fatto a noi quando andavamo nella riva, – gli avevo detto, – cos’avresti risposto? Quante nidiate hai fatto fuori a quei tempi?
– Sono gesti da ignoranti, – aveva detto. – Facevamo male tutt’e due. Lasciale vivere le bestie. Soffrono già la loro parte in inverno.
– Dico niente. Hai ragione.
– E poi, si comincia cosí, si finisce con scannarsi e bruciare i paesi.