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Il Vento Dell'Amore
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Il Vento Dell'Amore

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Anche se moltiplicate le preghiere,

io non ascolto.

Le vostre mani grondano sangue.

Lavatevi, purificatevi,

togliete il male delle vostre azioni

dalla mia vista.

Cessate di fare il male,

imparate a fare il bene,

ricercate la giustizia,

soccorrete l’oppresso,

rendete giustizia all’orfano,

difendete la causa della vedova”.

Scrive il profeta Amos(Am 5, 21-24):

“Io detesto, respingo le vostre feste,

e non gradisco le vostre riunioni;

anche se voi mi offrite olocausti,

io non gradisco i vostri doni.

E le vittime grasse come pacificazione

Io non le guardo.

Lontano da me il frastuono dei tuoi canti,

il suono delle tue arpe non posso sentirlo!

Piuttosto scorra come acqua il diritto

e la giustizia come un torrente perenne”.

Quanto al profeta Michea, egli dalla Giudea assiste a grandi eventi, anzitutto alla guerra tra i regni ebraici di Giuda e Israele e all'invasione della Galilea da parte dell'esercito assiro con la presa di Samaria e la sconfitta del regno d’Israele. Condanna aspramente sacerdoti e falsi profeti e attacca con veemenza i ricchi proprietari di latifondi, i quali opprimono e sfruttano senza compassione i poveri, tra cui anzitutto i braccianti agricoli e i piccoli proprietari. Denuncia la corruzione delle città, in primo luogo di Gerusalemme che rende simbolo della corruzione dei vertici religiosi e politici e dei funzionari governativi. Come contemporaneamente Amos in Israele, Michea prédica la giustizia di Jahvè e richiede a suo nome un comportamento concretamente onesto e non solo di giustizia formale: Dio richiede che, sul suo stesso esempio, si eserciti la pietà (Mi 6, 8).

È interessante notare che Michea presenta una delle profezie più chiare sul Messia, figura che il Nuovo Testamento identificherà con Gesù Cristo (Mi 5, 1-14): afferma ch’egli nascerà a Betlemme, non sarà un angelo ma un essere umano, originerà dal passato più lontano, si circonderà d’un gruppo di uomini retti, si prenderà cura dei miseri e fonderà un universale regno di giustizia, pace e benessere (Mi 4,1-5) di cui sarà sovrano Dio stesso e in cui le lance diverranno falci e le spade aratri perché non ci saranno più guerre; questo simbolicamente; in sostanza, un regno ultraterreno di Pace e cioè la Vita eterna in Dio dei beati.

Profeta Michea, tempera grassa su tavola, àmbito veneto, primo quarto secolo XVI

Sulle mentalità politeista ed enoteista presso gli Ebrei (#ulink_9633163a-70f0-50fa-973f-401972ab6ef6)

Prima della schiavitù babilonese gli Ebrei sono attirati dal politeismo: convivendo stirpi e religioni diverse sullo stesso territorio palestinese, non c’è affatto da stupirsene. Molti adorano, a lato di Jahvè, dèi della terra e, in generale, della fertilità; per primi un Padre El che arriva nelle menti di certuni a confondersi con Jahvè, una Madre Asherah, equivalente alla babilonese Ishtar, a sua volta corrispondente alla fenicia Astarte e da taluni ritenuta la moglie di Jahvè stesso, e i loro figli Anath e Baal, nome il secondo dal plurimo significato di Marito, Signore, Padrone; quest’ultima divinità è la più onorata e blandita, da certuni maggiormente di Jahvè. Gli Ebrei erigono loro statue e stele e offrono sacrifici, addirittura nel cortile del tempio costruito da Salomone. S’innalzano inoltre pietre di culto, davanti a una porta di Gerusalemme intitolata a Giosuè, persino ai pelosi, divinità inferiori dei campi simili ai boschivi fauni dei Greci. Vari sovrani sono conniventi o peggio; è idolatra Geroboamo, primo re d’Israele dopo la dissociazione da Giuda delle terre del nord: è scritto in 2 Cronache che “Geroboamo aveva stabilito suoi sacerdoti per le alture, per i demòni e per i vitelli che aveva eretti” (2 Cr 11, 15); nell’originale ebraico era detto precisamente che si trattava di statue di pelosi e di vitelli.

Nel corso del tempo cadono mali sul popolo ebraico, ed ecco sorgere nell’ambiente profetico l’idea, che si rifletterà sulla Bibbia, che Jahvè punisca quegl’idolatri dei suoi sudditi: sudditi perché il solo re d’Israele è Dio mentre Davide e i successivi sovrani sono suoi delegati, vice re. Il profeta di turno leva quindi la voce perché si cessi d’adorare divinità estranee, ma sempre invano, e i castighi divini arrivano di nuovo puntuali, tante volte nella forma d’una sconfitta in guerra. Adorare gli dèi di altri popoli è una prassi talmente viva in Israele che ci vorrà infine la punizione enorme, come verrà intesa, della deportazione in terra babilonese perché l’intero Israele giunga all’idea di Dio unico e solo.

Si forma nel IX secolo a.C. un movimento, diretto dai profeti Elia ed Eliseo, particolarmente duro contro il politeismo e che giunge all’omicidio di sacerdoti e di profeti delle divinità straniere. Questo partito ispira, a fini religiosi, una rivoluzione nel regno d’Israele verso l’840 a.C., tuttavia il movimento non riesce ad affermarsi, restando assai minoritario. Da parte sua già il re Asa (circa 913-873 a.C.), nipote di Salomone, aveva combattuto, vanamente, la mentalità politeista. Poi interviene un fatto nuovo e critico, la dominazione assira.

Nell’VIII secolo prima di Cristo l’Assiria, sotto Tiglatpileser III re dal 744, da regno s’è fatta impero conquistando molti stati e instaurandovi suoi governatori e la pratica di deportare parte delle popolazioni vinte sostituendole con altre: gli Assiri si sono rivolti a nord verso Urartu, a sud hanno conquistato Babilonia, che già era stata loro in passato, ad est hanno vinto la Media, a nord si sono espansi verso le zone mediterranee; finalmente sconfiggono il regno d’Israele e, subito dopo, l’Egitto.

Nel 721 a.C. il re assiro Sargon II ha conquistato la capitale d’Israele Samaria. Deporta dunque“gli Israeliti in Assiria destinandoli a Chelach, alla zona intorno a Cabor, fiume del Gozan, e alle città della Media” (2 Re 17, 5 s). Sulle terre di Samaria trasferisce altri popoli da regioni distanti dell’impero, che unendosi col residuo non deportato della nazione israelita costituisce la popolazione che sarà detta samaritana, malvista dagli Ebrei ancora al tempo di Gesù perché considerata bastarda:: con tale termine gli Ebrei definivano i supposti discendenti di padri ebrei e madri non ebree; la cittadinanza giudaica e lo stato di ebreo si acquisiva da parte di madre, e ancor oggi nello Stato d'Israele è ebreo chi ha madre ebrea. Le dieci tribù del nord sono dunque assorbite da altri popoli mentre alcuni dei componenti scendono nel sud e s’aggregano a Giuda.

La dodicesima tribù, discendente dal figlio di Giacobbe di nome Levi, era quella sacerdotale (cui erano appartenuti Aronne e Mosè) e, a differenza delle altre undici, non aveva avuto in assegnazione un particolare territorio dopo la conquista della Terra Promessa.

Al tempo di Gesù i leviti saranno gli aiutanti dei sacerdoti, costoro ormai della ristretta classe dei sadducei e sedicenti eredi dell’antico sommo sacerdote Sadòq (o Sadùq) di epoca davidica.

Ecco che in tutte le zone sottomesse dagli Assiri, e dunque anche nei territori ebraici, si rinforza il culto per il dio nazionale, mentre in particolare nel sopravvissuto regno di Giuda si fortifica il partito politico-religioso del culto esclusivo a Jahvè, il quale è però ancora considerato il primo tra gli dèi (enoteismo), non il solo e unico Dio. Inoltre, poiché Jahvè è ormai inteso da quel movimento come la Divinità che in modo particolare gradisce e protegge i poveri, s’alza la richiesta d’una riforma legislativa a loro favore. Un giurista di Gerusalemme, Saban lo scriba, propone un nuovo codice, che comprende tanto la proibizione d’adorare altri dèi quanto miglioramenti a favore del popolo indigente. Lo chiama Legge di Jahvè. Non è certo s’egli lo presenti espressamente come il Documento dell’alleanza mosaica, comunque Saban afferma che il rotolo di questa Legge è stato ritrovato dal gran sacerdote Elcia nel 621 a.C., nei labirinti sotterranei d’un santuario posto nel tempio gerosolomitano, luogo sacro già dedicato a Jahvè ma dov’era stato in seguito eretto un altare pagano; in tal modo il giurista presenta la Legge al re Giosia, sovrano salito al trono in giovanissima età e che regna in un periodo (640-609 a.C.) nel quale il nuovo impero babilonese sta ormai per sostituire quello assiro. È possibile che Saban abbia messo per iscritto una tradizione orale e poi, d’accordo con Elcia, l’abbia presentata come antico documento ritrovato nel tempio. In ogni caso il sovrano accetta come autentico questo libro, dopo ch’è stato convalidato da una profetessa: è un materiale che confluirà durante e/o nel dopo esilio nel libro del Deuteronomio, soprattutto nei capitoli da 12 a 26 e nel 28: in detto libro, influenzato dal profetismo pre-esilico, risuonerà la primitiva legislazione di Giuda col basilare appello morale di tutelare i rapporti di fratellanza e uguaglianza tra i membri della società.

All’opposto estremo, in un altro testo del Pentateuco che è espressione del gruppo elitario sacerdotale, il Levitico, (v. di questo saggio il capitolo II - LE BASILARI TRADIZIONI VETEROTESTAMENTARIE (#litres_trial_promo)), sarà in primo piano l’esigenza della purezza, identificandosi l’etica con la purità rituale e legale; e sarà il codice levitico più che l’idea di giustizia deuteronomica a rimanere prioritario in Israele, ancora al tempo di Cristo.

In conseguenza del ritrovamento, Giosia tenta una riforma monoteista, o più verosimilmente enoteista, ramazzando via dal suo regno negromanti e indovini e abbattendo idoli. Si tratta d’una gran riforma religiosa, culturale e politica che però non entra nel cuore d’Israele: quando il sovrano viene sconfitto e muore in una guerra contro re Neco II di Siria, un fatto considerato di malaugurio, il regno di Giuda torna al politeismo, fatto che i profeti Geremia ed Ezechiele bolleranno come causa della sua rovina, anche se non sarà in loro assente la speranza e annunceranno tempi nuovi e migliori.

Così Geremia, essendo caduta Gerusalemme per opera dell’esercito babilonese, profetizza: “Ecco verranno giorni - dice il Signore - nei quali con la casa di Israele e con la casa di Giuda io concluderò una alleanza nuova. Non come l'alleanza che ho conclusa con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dal paese d'Egitto, una alleanza che essi hanno violato, benché io fossi loro Signore. Parola del Signore. Questa sarà l'alleanza che io concluderò con la casa di Israele dopo quei giorni, dice il Signore: Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo. Non dovranno più istruirsi gli uni gli altri, dicendo: Riconoscete il Signore, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande, dice il Signore; poiché io perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato” (Ger 31, 31-34); ed Ezechiele durante l’esilio a Babilonia scriverà quale voce di Dio: “Poi verserò sopra di voi acqua pura e diventerete puri. Io vi purificherò da tutte le vostre impurità e da tutti i vostri atti di idolatria, e vi darò un cuore nuovo metterò in voi uno spirito nuovo, toglierò dal vostro corpo il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne, metterò in voi il mio Spirito” (Ez 36, 25-27).

Mentre questi profeti annunciano la liberazione politica degli Ebrei dalla servitù in Babilonia, il Cristianesimo, andando oltre le loro umane intenzioni, vedrà nei loro testi ispirati gli annunci di Cristo Salvatore, portatore della nuova e definitiva alleanza; nel vangelo Gesù si riferisce a Geremia dopo aver benedetto il pane eucaristico: “[...] allo stesso modo dopo aver cenato, prese il calice dicendo: Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue che è sparso per voi” (Lc 22, 20).

Gebhard Fugel, Sulle acque di Babilonia, Museo Diocesano, Freising

Le deportazioni a Babilonia (#ulink_9633163a-70f0-50fa-973f-401972ab6ef6)

Il regno di Giuda cade sotto l’influsso di Babilonia e, in conseguenza del rifiuto nel 598 a.C. del re Jojaqim, figlio di Giosia, di rimanere sotto quest’influenza, l’anno successivo la capitale Gerusalemme è assediata dal re Nabucodonosor. Dopo pochi mesi, essendo morto Jojaqim, forse assassinato da alcuni dei suoi nella vana speranza che il sovrano invasore togliesse l’assedio, suo figlio Jojaqin (o Jeconia) s’arrende (2 Re 24,12) e, come riferisce il libro del profeta Ezechiele (Ez 17), viene deportato a Babilonia nel 597 (o 596) a.C. con la famiglia, i maggiori membri dell’aristocrazia, i guerrieri, gli eunuchi di corte nonché i fabbri e gli altri operai specializzati; il secondo libro dei Re (2 Re 24, 14-16) precisa che gli esiliati sono collocati in varie località, soprattutto a Tel Arsa, Tel Abib, Addam, Kerub, Kasifya e Immer, lungo le sponde del fiume Kebar, nei pressi dell’antica città, ormai in semi rovina, di Nippur..

Nippur era stata eretta dai Sumeri nel sud della Mesopotamia e aveva avuto la massima espansione nel III millennio prima di Cristo grazie all'importanza del tempio in onore del dio Enlil. Era stata semiabbandonata verso l’anno 1000 e avrebbe avuto nuova fortuna solo secoli dopo l’esilio ebraico, nel III secolo a.C., sotto i Parti.

Si tratta di quei luoghi della Mesopotamia meridionale su cui sorgeva la città di Ur dei Caldei dalla quale, secondo la tradizione e come sarebbe stato riportato per iscritto, nel V secolo, nel libro della Genesi, aveva preso le mosse il capostipite degli Ebrei Abramo, in conseguenza della chiamata di Dio (Gen 17, 1-14).

Ezechiele (circa 628 – 570 a.C.), figlio di sacerdote e destinato a divenire tale, viene deportato nel corso di quest’ondata assieme al re Jojaqin. Poiché la carica sacerdotale si può esercitare solo dai trent’anni ed egli compirà quest’età essendo già in esilio, a differenza del padre non sarà mai sacerdote; diviene però profeta. Cerca d’infondere nei compagni la fede nella redenzione d’Israele, che storicamente sarebbe avvenuta una sessantina d’anni dopo, per decisione del re Ciro II di Persia. Il lungo libro d’Ezechiele è in tre parti. Nella prima sono denunciati i peccati d’Israele che portano al castigo di Dio con la caduta di Gerusalemme (capitoli 1-24). La seconda comprende l'annuncio della disgrazia in cui incorrono le nazioni idolatre (25-32). Infine, nell’ultima parte (33-48), Dio incarica Ezechiele di esortare gli Ebrei alla conversione dai peccati e di annunciare una nuova Gerusalemme. Intanto il regno di Giuda è lasciato formalmente in vita sotto il re fantoccio Mattania, zio di Jojaqin, cui Nabucodonosor cambia il nome in Sedecia come segno di sottomissione (2 Re 24,17). Il sovrano babilonese mantiene parte del suo esercito a presidiare Giuda. Il debole re, influenzato da una corte antibabilonese e avendo difficoltà a pagare il pesante tributo a Babilonia, si ribella approfittando del fatto che il faraone egiziano Hofra ha inviato una spedizione contro Nabucodonosor per conquistare terre confinanti e questi ha di necessità allontanato truppe. L’Egitto è sconfitto , Nabucodonosor muove contro Gerusalemme e la città viene vinta, saccheggiata e data alle fiamme; le mura e il tempio vengono distrutti (2 Re 24-25; Ger 39; 2 Cr 36). Una notevole parte della popolazione, come riferisce la Bibbia in 2 Re e in Geremia (2 Re 25, 8-21 e Ger 52) è portata con la forza in Babilonia in un’ulteriore deportazione che riguarda la nuova classe aristocratica e chiunque si sia schierato col re Sedecia; questi è accecato, deportato a sua volta e imprigionato, dopo aver visto uccidere tutti i suoi figli, ammazzati perché non abbia più discendenza.

In Giudea e in quanto resta della sua capitale rimangono gli ebrei poveri, alla cui guida è posto il re fantoccio Godolia, già primo ministro e traditore filo babilonese. Non molto tempo dopo questo sovrano viene assassinato e il regno di Giuda, da questo momento, non è più tale, il territorio diviene, anche formalmente, soggetto a Babilonia. Secondo il profeta Geremia si assiste inoltre, negli anni 582/581 a.C., a un’altra deportazione che riguarda certi palestinesi che avevano tentato un’estrema resistenza in connivenza con moabiti e ammoniti (Ger 52,30).

Insomma, una larga parte del popolo ebraico, a causa delle successive deportazioni, vive ormai in esilio, comunemente detto la servitù babilonese.

L’esilio crea una netta separazione nella storia religioso-politica d’Israele.

In Giudea coloro che restano continuano il culto dov’era sorto il tempio, mantenendo diretti legami col passato, e non è del tutto esclusa la composizione biblica: forse tra i rimasti in patria e non fra gli esiliati nasce il libro delle Lamentazioni, opera d’ignoto autore erroneamente attribuita in passato a Geremia, cinque componimenti poetici scritti secondo lo stile e il ritmo degli antichi canti funebri giudaici, in cui si riflette il tormento per la perdita dei cari esiliati o uccisi, per la scomparsa della nazione e la devastazione della capitale e del tempio, per il venir meno del sacerdozio e dei sacrifici rituali.

Si tratta d'un particolare ritmo funebre, detto kinah, in cui manca un elemento: si tratta d’un artificio stilistico per evidenziare la mancanza della persona scomparsa, in questo caso la città di Gerusalemme personificata.

Quanto ai deportati, all’inizio quegli stessi pensieri e la personale sofferenza dell’esilio li mettono in grave crisi; tuttavia la forza della tradizione giudea, sia orale sia espressa per iscritto nei testi dei profeti antichi e in una prima stesura dell’opera del Deuteronomista, fonte biblica di cui parlerò nel prossimo capitolo, testi portati seco da sacerdoti e scribi, rende il luogo e l’epoca, nella riflessione teologica dei deportati espressa in primo luogo da Ezechiele e, verso la fine dell’esilio, dal Deutero Isaia autore dei capitoli da 40 a 55 del libro d’Isaia, estremamente favorevoli a una maturazione della fede d’Israele. La servitù babilonese è a un certo punto concepita dai più colti come costruttiva ira del Signore, rivolta non tanto a punire le colpe, vale a dire la noncuranza per il Dio d’Israele d’una parte degli Ebrei e addirittura l’idolatria di altri, ma a causare il positivo pentimento e il ritorno al pieno culto per Jahvè.

Gli esuli sono normalmente seguaci della fonte biblica Deuteronomista, influenzata dai profeti pre-esilici egualitari e filo-popolari, ma tra essi non si trova il profeta Ezechiele che non solo ha un vocabolario e uno stile differenti, ma pure idee legali dissimili, le quali passano a un gruppo di seguaci, i cui studi confluiranno, dopo il ritorno a Gerusalemme, nella scuola teologica sacerdotale, composta da raccoglitori e studiosi di tradizioni in funzione del futuro, ai quali dobbiamo scritti come il libro del Levitico e la storia della Creazione nel primo capitolo della Genesi. L’idea di Jahvè il Creatore ha grande importanza anche nel Deutero Isaia, che concepisce inoltre la scena di Jahvè, assiso sul trono nei cerchi celesti, che dichiara solennemente d’essere il primo e l’ultimo e che al di fuori di lui non c’è altro iddio, perché gli dèi d’altri popoli sono solo idoli di pietra o di legno che non possono danneggiare né aiutare nessuno: un chiaro passaggio dall’enoteismo al monoteismo.

Nel formarsi d’un rigoroso monoteismo, viene creandosi la tradizione spirituale del popolo eletto da Jahvè che si riflette per iscritto nei nuovi profeti e si rispecchierà nel Pentateuco, nei sei libri storici a seguire e in salmi.

Dunque Babilonia diviene il luogo della salvezza: entra nella coscienza collettiva l'idea che Dio ha punito Israele per il suoi peccati d’idolatria e indifferenza verso di lui solamente perché meditasse. Nasce, in altre parole, una più raffinata concezione di Dio, ci si rende conto che non s’è trattato di vera ira divina, bensì d’affezione per quel suo popolo eletto che Jahvè ha voluto si crogiolasse nel dolore solo perché tornasse a lui. In questi anni s’acquista una nuova conoscenza di Dio scoprendo che la storia del popolo ebraico è interamente storia salvifica guidata da lui. Sorge la convinzione che Jahvè ha voluto gli Ebrei nella stessa terra che, secondo le tradizioni orali, era stata di Abramo, perché dopo l’espiazione Israele seguisse le orme del patriarca: i profeti Ezechiele e Deutero Isaia ragionano sul passato e intendono non solo che la servitù babilonese, come tutti i mali precedenti, ha una causa precisa, il peccato d’idolatria di Israele, ma pure un fine provvidenziale, la sua purificazione per il ritorno a Dio, per una nuova creazione, un nuovo esodo verso Canaan, una novella alleanza dopo quella sul Sinai e un nuovo regno di Gerusalemme. Il dolore serve a redimere, come viene espresso dal Deutero Isaia nei carmi del Servo di Jahvè, un concetto che avrà il suo culmine in Gesù Cristo. Dopo aver compreso che l’amore divino per Israele non è venuto meno, i profeti in esilio cominciano inoltre a capire che bisogna essere i testimoni di Dio, anzitutto, con un comportamento esemplare anche al fine di convertire gli altri popoli alla fede in lui: Jahvè non solo vuole rinnovamento e vita per Israele, ma desidera che siano estesi a tutto il mondo, ciò che si compirà secoli dopo con Gesù e la sua Chiesa evangelizzatrice.

Cristo, con un richiamo ai carmi del Deutero Isaia, verrà presentato nel vangelo come l’innocente servo di Dio che soffre per la salvezza di tutto il genere umano: così come il popolo ebraico, analogamente al Servo di Jahvè, ha penato per la schiavitù babilonese in funzione della liberazione e del ritorno a Gerusalemme, così soffrirà il Servo di Jahvè-Gesù per liberare gli uomini dalla schiavitù al peccato e indirizzarli alla Nuova Gerusalemme, il Regno di Dio: “Ed egli – il Risorto – disse loro – ai due discepoli che, non credendo più, stavano fuggendo verso Emmaus dopo la sua crocifissione e morte –: 'Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella gloria?'”(Lc 24, 25 s).

La liberazione dall’esilio babilonese è recepita religiosamente come il segno divino del perdono (Ez capitoli da 41 a 48. V. anche Esdra, 1, 1-9); essa è attribuita teologicamente all’intervento di Jahvè nel cuore di Ciro l’affrancatore che il Deutero Isaia chiama amico di Dio, suo eletto e suo pastore: il regno di Nabucodonosor non era stato longevo, verso il 539 a.C. Ciro II di Persia aveva conquistato Babilonia e, quindi, la Palestina era divenuta tributaria del suo grande impero. Il sovrano, persona dalla mente piuttosto aperta a differenza del re babilonese che aveva cercato d’eliminare l’identità ebraica, essendo conscio che la tolleranza può favorire l’ordine rispetta le culture dei popoli soggetti (2 Cr 36, 23): “Nell’anno primo di Ciro, re di Persia, a compimento della parola del Signore predetta per bocca di Geremia, il Signore suscitò lo spirito di Ciro re di Persia, che fece proclamare per tutto il regno, a voce e per iscritto: Dice Ciro re di Persia: Il Signore, Dio dei cieli, mi ha consegnato tutti i regni della terra. Egli mi ha comandato di costruirgli un tempio in Gerusalemme, che è di Giuda. Chiunque di voi appartiene al suo popolo, il suo Dio sia con lui e parta!” Come si vede, l’autore immagina un Ciro semplice strumento di Dio.

nche altrove nella Bibbia dei sovrani pagani sono presentati come inviati di Jahvè, ma per punire popoli avversari d’Israele, che essi sconfiggono. Ad esempio in Ezechiele tale incarico, contro gli Egiziani, è dato da Dio a Nabucodonosor (cfr. Ez 29, 17-20).

Già nel 538 a.C. l'illuminato Ciro concede agli israeliti deportati che lo desiderino di rientrare nella loro terra, in ogni caso a lui soggetta. Non tutti scelgono di tornare, essendo passati tanti anni e trattandosi della seconda e terza generazione, ormai radicate in Babilonia, in parte i deportati scelgono di restarvi come liberi sudditi di Ciro. Il ritorno di chi sceglie il rimpatrio è a tappe, riguarda vari gruppi e si svolge in un periodo di oltre un secolo. Intanto il re, per ingraziarsi maggiormente il popolo ebraico e meglio assicurare l’ordine sociale, comanda addirittura la ricostruzione del tempio di Gerusalemme e la ripresa del culto, restituendo gli arredi sacri rubati a suo tempo da Nabucodonosor. Al giudeo Sesbassar, discendente della casa di Davide, l’imperatore dà autorità e lo incarica di ricostruire il tempio. Egli accetta con entusiasmo, ma l’opera si rivela assai difficile e non procede. Inoltre ostacoli sorgono dagli altri abitanti del luogo: Gerusalemme si trova compresa nella Prefettura di Samaria, governata per conto dei Persiani da certi ebrei considerati impuri dai rimpatriati perché ritenuti discendenti da donne non giudee, in senso etnico-religioso considerati bastardi, persone che non solo sono restie a collaborare ma si mostrano, per reazione, nemiche. Dopo vent’anni, invece del nuovo tempio c’è ancora un cumulo di macerie: evidentemente l’entusiasmo per la ritrovata, sia pur entro certi limiti, libertà non è durato a lungo presso il popolo. Per qualche tempo, scomparso dalla scena Sesbassar, la Persia nomina re-vassallo Zorobabele, anch'egli discendente di Davide, che ritorna a Gerusalemme al comando d’un secondo gruppo di rimpatriati. I profeti Zaccaria e Aggeo confidano in lui (Zc 6, 9 ss; Ag 2, 20 ss), sperano che ricostruisca finalmente il tempio, ma invano. Dopo Zorobabele anche il potere politico passa, di fatto, ai sacerdoti, il primo dei quali ha nome Giosuè (come l’antico delfino di Mosè, ma non necessariamente così chiamato dai genitori in sua memoria, perché Joshua - o Jeshua -, in italiano Giosuè o Gesù, era nome assai comune presso gli Ebrei.


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