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Il Metro Dell'Amore Tossico – Romanzo
Il Metro Dell'Amore Tossico – Romanzo
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Il Metro Dell'Amore Tossico – Romanzo

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Il Metro Dell'Amore Tossico – Romanzo
Guido Pagliarino

Ranieri Velli, poeta torinese, in un giorno di luglio del 1969 trova in buca una lettera che gli comunica l’assegnazione di un ricco premio letterario per la sua opera poetica tradotta negli Stati Uniti. Poco dopo sono perpetrati attentati alla sua vita, ammantati da incidenti, senza esito grazie alla capacità atletica e all'abilità marziale del bersaglio. Forse s'è trattato di tentativi di vendetta da parte d'uno dei tanti delinquenti che Ranieri, già funzionario di Polizia, aveva assicurato alla giustizia prima di dimettersi? O, com’egli giunge a sospettare, proprio in quel premio letterario va cercato il movente? O ancor più sorprendentemente, può esser motivo una silloge di sue poesie da poco stampata del tutto a sua insaputa? Volato a New York per la premiazione, qualcuno tenta di nuovo d’uccidere il poeta divenuto, suo malgrado, una pedina d’un gioco di scacchi criminale internazionale.

Ranieri Velli, poeta torinese, rientrando a casa in un giorno di luglio del 1969 trova in buca una lettera, spedita da New York, che gli comunica l’assegnazione di un ricco premio letterario per la sua opera poetica tradotta negli Stati Uniti. Poco dopo sono perpetrati attentati alla sua vita, ammantati da incidenti, senza esito grazie alla capacità atletica e all'abilità marziale del bersaglio. Forse s'è trattato di tentativi di vendetta da parte d'uno dei tanti delinquenti che Ranieri, già funzionario di Polizia, aveva assicurato alla giustizia prima di dimettersi? O, com’egli giunge a sospettare, proprio in quel premio letterario va cercato il movente? O ancor più sorprendentemente, può esser motivo una silloge di sue poesie da poco stampata del tutto a sua insaputa? Volato a New York per la premiazione, Velli è accolto all’aeroporto Kennedy da una giovane italo-americana, Norma Costante, carnale bellezza che è stata incaricata dalla Fondazione Valente, organizzatrice del premio, di assisterlo come interprete e accompagnatrice. Ella, prossima al divorzio dal marito, pittore bisessuale che l’ha tradita abbandonandosi a orge con propri modelli e modelle, pare innamorarsi appassionatamente di lui mentre Ranieri, di sicuro, se ne accende; ma un fatto amaro emergerà dal passato della sensuale signora. Nel frattempo anche in America qualcuno tenta, più volte, d’uccidere il poeta, sempre mascherando i propri tentativi criminosi da fortuiti incidenti; e se Ranieri riesce ancora a sfuggire alla morte, ne sono tuttavia colpite altre persone, per primo John Crispy, grosso broker statunitense che amministra le sostanze di Donald Montgomery, giovane dal carattere algido direttore dell’FBI di New York e candidato al Senato degli Stati Uniti: egli forse odia il proprio amministratore perché è prossimo a sposare sua madre, la donna più ricca d’America. Un fatto appare a un certo punto sicuro, che il poeta è divenuto, suo malgrado, una pedina d’un gioco di scacchi criminale internazionale che riguarda in particolare l'Italia, Paese preda, in quell’anno 1969, di violenze sociali e disordini civili. Numerosi sono i colpi di scena, fra l’altro persone credute defunte riappaiono in scena vive, mentre figure ritenute oneste si rivelano viscide e nichiliste. La soluzione del caso arriverà solo verso la fine quando il poeta, salvato all’ultimo momento dal vice questore Vittorio D’Aiazzo suo fraterno amico, sarà rapito e brutalmente seviziato dall'imprevedibile artefice del colossale piano criminoso. In appendice si può leggere il racconto, finora inedito, “Il fu D’Aiazzo”, le cui vicende riguardano i medesimi protagonisti Velli e D’Aiazzo e sono di poco successive a quelle del romanzo: I mezzi di comunicazione annunciano che il vice questore Vittorio D’Aiazzo è stato assassinato; la vittima, in base a forti indizi, appare essere, contro ogni aspettativa, un individuo dalla doppia personalità, onestissimo funzionario della Questura di Torino e viscido delinquente in quella di Napoli, sua città natale. L’amico Ranieri non si dà pace e inizia a indagare.

Copyright © 2020 Guido Pagliarino - All rights reserved to Guido Pagliarino – Tutti i diritti appartengono a Guido Pagliarino - E-book distribuito da Tektime S.r.l.s. Unipersonale, Via Armando Fioretti, 17, 05030 Montefranco (TR) - Italia - P.IVA/Código fiscal: 01585300559 - Registro mercantil de TERNI, N. REA: TR – 108746

Guido Pagliarino

IL METRO DELL’AMORE TOSSICO

romanzo

con l’appendice del racconto

IL FU D’AIAZZO

Guido Pagliarino

Il metro dell'amore tossico

romanzo

con l’appendice del racconto

Il fu D’Aiazzo

Opera distribuita da Tektime

© Copyright 2020 Guido Pagliarino – Tutti i diritti appartengono all’autore

Edizioni precedenti del romanzo:

1a Edizione, sotto il titolo “Il Poeta e il Committente, romanzo”, libro cartaceo, © Copyright 2007-2014 Boopen Editore, fuori catalogo dall'anno 2014 e dallo stesso anno © Copyright di Guido Pagliarino

2a Edizione, riveduta e variata, pubblicata solo in ebook di tutti i formati sotto il titolo “Il metro dell’amore tossico (Il Poeta e il Committente), romanzo”, © Copyright 2015 Guido Pagliarino, Smashwords Edition

L’immagine di copertina è realizzata elettronicamente dall’autore

I personaggi, le vicende, i nomi di persone, enti e ditte e le loro sedi che compaiono nel romanzo e nel racconto sono immaginari, eventuali riferimenti alla realtà passata e presente sono casuali e assolutamente involontari

Guido Pagliarino

Il Metro dell'Amore Tossico

Romanzo

( © 1992 )

Capitolo I

Era il 1° luglio 1969, un martedì. Rincasando nel tardo pomeriggio, avevo ritirato una grossa busta dalla buca delle lettere. Sul momento avevo solamente osservato ch'era giunta via aerea da un'ignota Alfio Valente Cultural Foundation - New York. Non avevo dato particolare importanza a quel plico, senza affrettarmi ero salito in casa, un modesto appartamento all'ultimo piano d'un vecchio palazzo del centro storico, m'ero messo in libertà e, finalmente, sedutomi alla scrivania della cameretta che mi serviva da studio, avevo aperto la busta. Ne avevo avuto un'esaltante sorpresa: m'era stato assegnato il Brooklyn Alfio Valente Poetry Award per la mia opera poetica tradotta e pubblicata negli Stati Uniti: un premio in denaro, ben 5.000 dollari, pingue cifra a quei tempi; le spese di soggiorno erano pagate. Quei signori americani dovevano nutrire gran fiducia nei servizi postali, visto che non mi avevano avvertito per raccomandata internazionale. Mi chiedevano, a firma del presidente Albert Valente, che avevo immaginato parente e avrei saputo figlio del defunto intestatario della fondazione, di confermare telefonicamente l'accettazione del premio e la mia presenza alla cerimonia di consegna. Avevo considerato, dopo aver dato uno sguardo all'orologio e aver tolto 6 ore alle 17 e 38 minuti che segnava, che per il diverso fuso orario a New York era ancor mattina. Avevo chiamato il centralino dell'unica società telefonica italiana di quei tempi, la statale SIP

, perché mi collegasse alla fondazione: quanto a celerità di chiamate intercontinentali, erano tempi da mammut quelli, l'utente doveva ricorrere a una delle centraliniste SIP e aspettare ch'ella, dopo molti minuti d'attesa come minimo, finalmente lo collegasse al lontano numero grazie a un circuito di comunicazione operato a mano.

Avevo riagganciato e, restando in attesa che l'apparecchio squillasse avvertendomi ch'ero in linea, m’ero crogiolato nell'idea dell'inatteso guadagno che stava per raggiungermi, davvero provvidenziale perché l'arte poetica, come nella sua natura, non mi rendeva quasi nulla e vivevo grazie a discontinue collaborazioni a un quotidiano di Torino, La Gazzetta del Popolo, e all'incerta posizione di traduttore e di editor di una casa editrice, retribuito à forfait per ogni libro. Per la verità avevo anche steso un romanzo, potenzialmente ben più commerciale delle opere in versi, ed ero persino riuscito a pubblicarlo per i tipi della stessa editrice torinese per cui lavoravo, non senza il logorio di alquanti approcci al Khan dei Khan, come usavamo chiamare fra noi l'altezzoso e a volte bizzoso proprietario: ne avevo avuto tante lodi dalla critica, che non avevano gonfiato il mio portafogli, e nessun successo mercantile, trattandosi di "un lavoro di prosa poetica più che d'un romanzo raccontato" come l'editore, già esitante nel darlo alle stampe, m'aveva infine comunicato, calcando il tono sull'ultima parola. È bene ch'io anticipi inoltre, non solo trattandosi d'un caso legato alla mia misera condizione economica di quei tempi ma perché, come vedremo, si sarebbe rivelato drammatico per me e addirittura funesto per molti cittadini degli Stati Uniti e dell'Italia, che sei mesi prima di ricevere il premio Brooklyn Alfio Valente, nel desiderio di più denaro avevo colto l'improvvisa occasione offertami da un potente di comporgli e vendergli, per una rilevante somma, una ventina di sonetti in onore della sua benamata, poesie ch'egli aveva la dichiarata intenzione di spacciare per frutti del proprio talento con l'amorosa. Lo dico subito, provo ancor oggi amarezza per aver venduto la mia arte e, per un insieme di circostanze derivatene, pure dignità e libertà, anche se, come meglio narrerò a suo tempo, ne sarei stato punito moralmente e fisicamente.

Mentre attendevo d'esser collegato alla fondazione, l'allegria m'era scemata di colpo: rileggendo con più attenzione la lettera, avevo notato che la data della premiazione era prossima, nemmeno una ventina di giorni, e avevo realizzato subito dopo che il mio passaporto era scaduto. Un brivido lungo la schiena, testualmente, poi un accesso d'ira: Perché m'avevano avvisato all'ultimo momento?! Indirizzato però uno sguardo alla data di spedizione sulla busta, avevo capito che la fondazione non era colpevole del ritardo, la lettera era partita da New York oltre due settimane prima. Eh, sì, ma almeno di non aver spedito per assicurata lo sei, colpevole, le avevo comunque lanciato idealmente; e subito dopo me l'ero presa con l'ignoto malaccorto – delle poste? d'un aeroporto? – cui dovevo la successiva complicanza; per finire m'ero chiesto se avrei potuto ottenere in tempo il rinnovo del passaporto dalla Questura, malgrado tutto, e, considerato che era richiesto dai prudenti Stati Uniti anche un visto consolare preventivo, m'ero risposto: Quasi certamente no; ma ecco che m'era scoccata una speranza: ...ma sì, chiederò aiuto a Vittorio!

Vice questore, Vittorio D'Aiazzo serviva nella Questura di Torino, dove pur io avevo operato ai suoi ordini prima di congedarmi pochi anni prima. Era un carissimo amico, anzi il solo che avessi; e sapevo da lui che io pure, entrambi d'animo schivo, ero l'unico suo amico vero.

Figùrati un po', m'ero vieppiù confortato, se, vista l'importanza della cosa, non si prodigherà!

Già, ma come mai un individuo tranquillo come me, tutt'altro che portato a un mestiere armato, era entrato in Polizia? Una persona che s'era dedicata all'arte metrica e a frequentissime letture fin dalle medie, ispirata dalle traduzioni dell'Iliade del Monti e dell'Odissea del Pindemonte – medie-ginnasio a quei tempi –, un uomo desideroso di giungere alla laurea in lettere? Presto detto: il clima familiare degli anni '40 dello scorso secolo era ben diverso da quello odierno, era imprescindibile allora per un ragazzino il rispetto della volontà di padre e madre, e i miei genitori non m'avevano assolutamente permesso di rivolgermi agli ambíti studi classici e, con loro sacrificio grande ed enorme incomprensione, m'avevano indirizzato al liceo scientifico, nel miraggio di farmi ingegnere e occuparmi nella stessa industria automobilistica cittadina, la FIAT, dove lavoravano essi stessi come operai. Io odiavo la matematica, la fisica, la chimica e la mineralogia e avevo trascurato quegli studi – una sfilza d’insufficienze, tutti 4! tanto da dover ripetere il primo e il terzo anno del liceo, pur avendo tutti 8 in lettere italiane, latino, filosofia, storia, inglese. Quasi diciannovenne, verso la metà di quello stesso terz'anno ripetuto, era il 1952, non desiderando gravare oltre sui genitori che si stavano sacrificando inutilmente, avevo abbandonato la scuola ed ero entrato in Pubblica Sicurezza, come si chiamava allora la Polizia, svolgendovi prima il servizio militare e poi raffermandomi. Solo molti anni dopo, scacciando il timore di restare senza denaro m'ero finalmente dimesso, non trattenuto dall'essermi guadagnati il grado e il maggiore stipendio di vice brigadiere. Rimaneva quella, infatti, un'attività che, col suo pericolo e i suoi disordinati orari, ostacolava la mia passione per le lettere. Ero stato mosso dall'aver avuto un discreto successo. Fin dal dicembre 1957 avevo pubblicato il mio primo libro di liriche presso una grande editrice – svelerò poi l'arcano d'un evento così improbabile – con successo di critica e l'assegnazione alla silloge del celebre Premio Versilia, sezione opera prima, grazie al quale se n'erano vendute ben trecentoventicinque copie; cosa più importante, in seguito al premio avevo ottenuto, come giornalista pubblicista, collaborazioni letterarie alla torinese Gazzetta del Popolo e a un paio di noti settimanali, con accrescimento della mia notorietà. Le mie dimissioni mi avevano portato ulteriori frutti. Grazie al tempo pieno e alle più frequenti collaborazioni, erano stati dati alle stampe un poema e altre due raccolte di versi, queste composte nel corso degli anni precedenti, quello dopo il mio congedo, e i miei versi erano stati tradotti in inglese e francese e pubblicati nei paesi europei anglofoni e francofoni, negli Stati Uniti e in Canada. Senza lasciare il servizio, la vita di Ranieri Velli, la mia vita, probabilmente avrebbe continuato a svolgersi dall’una all'altra indagine al comando dell'amico, allora commissario, Vittorio D'Aiazzo, con poche pause di gioia letteraria, e non avrei raggiunto vera fama; per contro però, non mi sarei trovato negli ultimi mesi del 1969, come vedremo, fra i dolenti protagonisti d’un caso criminale internazionale, per il quale l'Italia avrebbe rischiato di cadere, ancora una volta, sotto un regime dittatoriale.

M'era squillato il telefono. Era la comunicazione con New York. Conoscevo bene la lingua inglese, grazie non solo alla scuola ma a un corso intensivo d'apprendimento a Londra, zeppo di termini giudiziari, cui ero stato indirizzato da Vittorio in uno scambio con sottufficiali di Scotland Yard. Non avevo avuto nessuna difficoltà a farmi comprendere dall'interlocutrice americana: avevo chiesto di parlare col signor Valente spiegando il motivo della chiamata; non era in sede e m'era stata passata una dirigente, le avevo confermato l'accettazione del premio e la mia presenza alla cerimonia di premiazione; e almeno questa era stata fatta.

Ora toccava al passaporto.

Capitolo II

"Oh, amicissimo! Come vanno le tue indagini sulla poesia?" m’aveva salutato espansivo il dottor D'Aiazzo nel suo forte accento napoletano, dopo ch’ero riuscito ad averlo in linea dal centralino della Questura.

"Un premio è giunto ed il poeta chiede", avevo risposto con un improvvisato endecasillabo scherzoso; e avevo precisato: "Ho vinto un importante premio a New York."

In tono compartecipe s'era felicitato, poi, intercalando qualche parola nel suo dialetto come talvolta faceva, e interpellandomi col diminutivo ch'egli stesso aveva a suo tempo coniato, mi aveva domandato: "Va bbuo', Ran, complimenti a parte, che mi chiede o' poeta?"

"Sarebbe per la data di premiazione prossima e per il mio passaporto scaduto."

"Non c'è problema. Fammelo avere qua con le marche e le foto e te lo faccio preparare a ràzzo, che non per nulla in italiano fa quasi rima col mio cognome D'Aiázzo, accenti a parte. Anzi no, fa' così: all'ora di cena mi porti il tutto a casa mia, ore 20 in punto! e così ci facciamo pure una bella spaghettata e due fettine di carne."

"Ottimo, grazie."

Proprio quella sera avevo sofferto la prima aggressione. Avevo pensato alla rapina d’un balordo e solo a un secondo tentativo d’ammazzarmi, non molti giorni prima del volo per New York, avrei inteso che qualcuno mi voleva morto: Uscendo di casa per recarmi a cena dall'amico, ancor prima che avessi potuto chiudere a chiave la porta m'ero trovato davanti un uomo, a una quattro metri da me sul pianerottolo, viso nascosto da un passamontagna e guanti alle mani, che mi s'era avventato immediatamente contro con un rasoio aperto in pugno e aveva provato ad assestarmi un fendente alla gola. Il colpo non m'aveva raggiunto perché io, con una mossa dell'arte marziale che avevo appreso in Pubblica Sicurezza, avevo bloccato a metà l'arco della lama e disarmato il braccio criminale facendo cadere il rasoio a terra; immediatamente dopo, avevo pestato per bene l'aggressore su testa, volto e tronco e l'avevo messo in fuga giù per le scale: ero giovane a quei tempi, agile e atletico e, cosa non trascurabile, molto alto, 1 metro e 90, mentre quell'individuo era di media statura per cui, mirando alla gola, aveva colpito da sotto in su non con piena forza. Non avevo ritenuto prudente inseguirlo. Avevo raccolto e messo in tasca il rasoio per portarlo a Vittorio, chiusa a chiave la porta di casa ed ero sceso evitando l'ascensore e prendendo per le scale guardingo. Come m'ero però aspettato, dell'individuo nessuna traccia.

Avevo raccontato sbrigativamente all'amico la mia disavventura, quindi gli avevo consegnato la lama dell'aggressore.

Aveva commentato: "Sono sempre più comuni le cosiddette rapine iniziate dall'esterno, forse avrebbe voluto suonare alla porta e poi entrare sotto minaccia di quel rasoio per derubarti, ma è stato sorpreso dalla tua imprevista uscita sul pianerottolo e, temendo che tu facessi baccano, ha perso la testa e ti s'è avventato contro, cercando di farti tacere col tranciarti la gorgia. Perché nemici mortali tu non ne hai, no?"

"Non credo proprio."

"Ergo dovrebbe essere stato un tentativo di rapina. Hai detto che aveva i guanti, perciò niente impronte se non le tue. Mascherato, dunque nessun dettaglio del volto, a parte gli occhi scoperti: ne hai osservato forma e colore? e dimmi: era alto, basso, magro, grosso? rasoio nel pugno destro o mancino? e ti ha detto qualcosa?"

"No, neanche una parola, rasoio nella destra, gli occhi non li ho notati nella frenesia della difesa, era alto sul metro e settantacinque circa, magro ma aveva spalle larghe ed è sicuramente prestante e forte perché se l'è filata lesto giù per le scale anche se l'avevo riempito di botte."

"È già qualcosina, ma difficilmente lo troveremo, immagino non sia tanto citrullo da essersi fatto medicare in ospedale, comunque dopo la tua denuncia potremo indagare presso i pronti soccorsi; molto intelligente però non dev'essere, perché se no, non t'avrebbe mollato sùbito un fendente col rischio di finir dentro per un fatto di sangue, t'avrebbe solo minacciato a una certa distanza chiedendoti di rientrare in silenzio o, semplicemente, sarebbe fuggito senza farti niente."

"Hm... sì."

"Ran, domani mattina mi vieni in Questura per la denuncia; però tu capisci che sarà un po’ difficile che lo troviamo, chillo cattamàro

"

Dato che nulla m’era stato rubato, avevo deciso di tralasciare.

Capitolo III

L'amicizia con Vittorio D'Aiazzo era sbocciata a Genova, lui commissario alla Questura e mio superiore diretto, io agente e poi suo aiutante vice brigadiere promosso per meriti, avendo salvato la vita a un potente ministro, l'onorevole professor Nuto Marradi: In un giorno d'inizio febbraio del 1957 Vittorio, io e due miei colleghi eravamo stati comandati a protezione dell'uomo politico, dal momento del suo sbarco all'aeroporto della città della Lanterna, verso le 10 del mattino, al suo volo di ritorno nel pomeriggio. Un certo Aristide Maria Barani, già indisciplinato impiegato ministeriale e poi anarco-individualista alla macchia, aveva avuto l'infausta idea d'ammazzarlo proprio in quell'occasione; chi sa come e da chi avesse avuto notizia del suo arrivo. Noi avevamo atteso il Marradi nella zona aeroportuale dove, come programmato, l’aereo DC3 Alitalia su cui era imbarcato avrebbe arrestato i motori, e c'eravamo prontamente avvicinati all'aeroplano quand’era stato aperto il portello-scaletta di sbarco. Mentre il comandante aveva chiesto agli altri passeggeri di restare ai propri posti fin a nuovo invito, il ministro era sceso con i due agenti della sua scorta personale. A questo punto l'attentatore solitario, dissimulato da una tuta da inserviente, era sbucato di corsa da dietro un trattore per traino bagagli con in pugno la sovietica Tokarev TT-33 calibro 7,62, pistolona poco precisa ma piuttosto affidabile quanto agli eventuali inceppamenti, e gli s'era lanciato contro alla garibaldina urlandogli: "Lurido ladro farabutto!" Non essendo ancor prossimo all'obiettivo, gli aveva sparato un primo proiettile, andato a vuoto. Io, essendo di retroguardia nel nostro gruppetto e il più vicino allo sparatore – mi ricordo sempre la sequenza come se fosse stata un sogno – con un tiro della mia Beretta d'ordinanza M34 calibro 9, anch'essa imprecisa, per cui di certo aveva contribuito un bel po' di fortuna, avevo ferito l'uomo a una gamba rompendogliela e facendolo crollare a terra; poi alla svelta, con un calcio, gli avevo tolto l'arma di mano. Vittorio, al contrario di me, era in testa alla nostra squadra e il più vicino al ministro, a parte la sua scorta personale, per cui senza il mio intervento sarebbe stato non improbabilmente colpito da uno dei successivi colpi dell'anarchico.

Il farraginoso Aristide Maria Barani non sarebbe stato condannato al massimo della pena, nonostante la tentata strage, essendo stato ritenuto seminfermo di mente al momento di commettere il fatto, in quanto, durante il ricovero in ospedale per la ferita, era risultato sotto i postumi d’una sbornia: doveva aver bevuto per farsi coraggio e proprio l'alcol doveva averlo portato ad agire senza gran costrutto; quindi aveva fallito senza mio enorme merito.

Un mesetto dopo era arrivata da Roma la mia promozione a vice brigadiere, per diretto intervento del Marradi come sarebbe corsa voce nell'Ufficio Segreteria, Personale e Benessere della Questura. Va da sé ch'ero stato profondamente grato a quel ministro, rivelatosi capace di riconoscenza a differenza di tanti altri politici; ma non era stato ancor tutto: alcuni giorni dopo avevo ricevuto una lettera da un’importante casa editrice che m’invitava a spedire in lettura le mie poesie per eventuale pubblicazione. Quasi non credendo a tal improbabilissimo fatto – avevo persino pensato allo scherzo di qualcuno –, avevo comunque eseguito; e dopo nemmeno un paio di settimane m’era giunto il contratto di pubblicazione. Ero esploso di gioia. Ne avevo parlato entusiasta in ufficio col D’Aiazzo; e a questo punto avevo saputo dal commissario che il notorio proprietario di quell’editrice era il Marradi. La mia riconoscenza verso il ministro era salita al settimo cielo.

Tuttavia, Aristide Maria Barani non aveva sbagliato giudizio su quell’uomo: un decennio dopo il Marradi s'era realmente rivelato un "ladro farabutto" come il suo mancato assassino gli aveva urlato all’aeroporto: Nel 1967 era finito in uno scandalo politico clamoroso, scoperto dalla Magistratura, secondo i quotidiani politici d’opposizione grazie a manovre sotterranee di ambienti economici ch’egli aveva danneggiati. L’opposizione aveva pur ventilato che avesse potuto mestare più volte anche in precedenza, essendo stato un segretario di Stato di lungo corso che aveva partecipato, a capo dei più svariati dicasteri, a quasi tutti i Governi della Repubblica, da quelli di centro degli anni '50, al gabinetto di centrodestra del 1960 sostenuto dall’esterno dai neofascisti, ad alcuni di centro successivi e, a far capo dal 1963, a quelli di centrosinistra. Certo è ch'egli era divenuto sempre più potente nel corso degli anni. Quanto meno per le ultime malefatte, era stato messo in stato d'accusa dal Parlamento riunito in seduta comune, in base all'articolo 96 della Costituzione Italiana relativo ai reati commessi da membri del Governo: lui solo, anche se l'opposizione aveva manifestato il sospetto che i colpevoli fossero stati molti e "tutti di area governativa". Prima che Camera e Senato avessero concesso l'autorizzazione a procedere alla Magistratura, il Marradi aveva cercato di fuggire all’estero ma, nel tentativo, era morto in un incidente aereo, e questo aveva alimentato il grave sospetto che fosse stato assassinato da complici perché tacesse per sempre.

Nel 1968 l'Italia dell'egemonia democristiana e poi di quella democristiano-socialista aveva cominciato a venir gravemente contestata, erano iniziati scioperi a catena ed era sorto il cosiddetto Movimento Studentesco: per tutti i contestatori i governi di centrosinistra erano da considerarsi nient’altro che servi dei padroni; quanto ai partiti di centrodestra, liberali compresi, tutti semplicemente fascisti. La contestazione avrebbe innescato un formidabile cambiamento nei costumi della popolazione, che sino ad allora erano rimasti in sostanza quelli dei decenni precedenti basati sui valori forti della moralità cristiana persino, almeno di fondo, per gli atei dichiarati.

Era in tale cornice che si preparava l’avventura che stavo per affrontare affiancato dall'amico Vittorio, durante la quale sarebbe spuntato, fra altri, anche il nome del defunto ministro Nuto Marradi.

Capitolo IV

Il D'Aiazzo era uomo cinquantenne robusto ma non alto, attorno al metro e sessantacinque. Inalberava una capigliatura bruna e riccia ancor folta ma che, nel 1969, iniziava a cedere alla calvizie sul vertice della testa, configurandovi un principio di chierica. Forse per bilanciare, da qualche tempo s’era lasciato crescere la barba. Era un eroe della resistenza antinazista il mio amico Vittorio: nel 1943, giovanissimo vice commissario, era stato uno dei combattenti durante la prima insurrezione antitedesca d'Europa, le cosiddette Quattro giornate di Napoli

, in cui la sua città s'era liberata da sola degli occupanti tedeschi, durante le quali erano rimasti uccisi molti poliziotti della Questura napoletana, fra cui il diretto aiutante in quel tempo del D’Aiazzo, un certo brigadiere Marino Bordin, di cui egli parlava con grande ammirazione. Nonostante l'esteriore allegrezza, Vittorio era persona fondamentalmente triste. Pochi mesi dopo il tentato assassinio del Marradi il mio amico, che s’era sposato nel maggio dell'anno precedente con una donna troppo giovane, una diciottenne figlia d'un collega conosciuta al ballo annuale delle debuttanti, era rimasto vittima d’un grave dispiacere coniugale. S'era tenuto dentro il suo dolore per molto finché, un giorno della primavera del 1958 in cui doveva essersi sentito particolarmente sconfortato perché vi cadeva il secondo anniversario del suo matrimonio, s'era confidato con me, "col mio poeta e amico preferito": Era accaduto l'anno prima che la sua giovanissima moglie avesse conosciuto un ricco importatore americano, ch'era a Genova per i propri commerci, e che fosse fuggita con lui a New York, ottenendo in America lo scioglimento del matrimonio e risposandosi poco dopo con l'amante, com’era stato comunicato a Vittorio per via epistolare dal legale della coppia, su incarico di lei. In Italia non c’era ancora il divorzio per cui Vittorio era rimasto coniugato con la "traditrice"; ma una volta l'amico m'aveva detto, ormai prestavamo entrambi servizio a Torino, che se pur ci fosse stato il divorzio, come cattolico praticante – aveva pronunciato in tono solenne l'ultima parola – non se la sarebbe sentita, di richiederlo. "Sennonché", aveva soggiunto, "malauguratamente" lui aveva "vocazione alla coppia." Insomma, nonostante il suo conclamato cattolicesimo, non era riuscito per molto a rimanersene solo, come avevo presto capito.

Quella sera a cena a casa sua, un appartamento in via Cernaia di fronte alla caserma dei Carabinieri omonima e non lontano dalla Questura di corso Vinzaglio, ci aveva servito e, come ormai d'abitudine, tra una portata e l'altra s’era seduta con noi a tavola una bruna ventinovenne, Carmen, formosetta simpatica e belloccia anche se illetterata e di non ampia mente, che sapevo esercitare per l'amico, oltre alle mansioni di governante, più intime funzioni. Nell'ormai lontano 1959, in occasione del primo invito a cena di Vittorio dopo il nostro trasferimento da Genova a Torino, lui me l'aveva presentata nella sola prima veste e lei, per quella volta, non s'era seduta con noi; ma dall'atteggiamento confidenziale che comunque mostrava, avevo sospettato. "La guagliona è della mia Napoli", s'era confidato già quella volta l'amico, anche se con un certo qual imbarazzo, mentre Carmen era in cucina a preparare il caffè: "È un'orfana senza ’na lira che m’hanno mandato papà e mammà come domestica: forse già te l’avevo detto quand’era arrivata" – avevo assentito –: "Francamente, ero stanco di pizzerie; e anche di essere... solo. Lei è giovanissima... sì, circa com’era mia moglie. Io ho già quarant’anni. Eppure, sai com'è, è finita così, che dopo un po'... siamo ormai... beh, hai capito. Il guaio è… che è ancora minorenne

; perciò tieni per te la sua età": non aveva potuto trattenere un sorriso imbarazzato; poi: “Va bene, lo so che faccio male, che come cattolico dovrei fare il casto e pure che sto forse approfittando un po' troppo di questa guagliona, anche se lei mi pare contenta assai del mio affetto e pure del mio... beh, hai capito a cosa mi riferisco. Non lo so, spero che comunque il Cielo abbia compassione e perdoni."

"Lo spero", avevo fatto eco meccanicamente, senz’accorgermi d'aver alimentato i suoi dubbi, sui quali si sarebbe arrovellato per anni. Me li avrebbe infine manifestati, in occasione d'un penoso avvenimento di cui dirò più avanti. Avevo soggiunto: "Certo, per voi cattolici è una vita piena di problemi, per me ce ne sono già così tanti altri nella vita che, almeno quelli religiosi, li ho sempre tralasciati."

"Non sei credente proprio per nulla?" m'aveva interrogato facendosi più serio.

"Mah, una volta ero del tutto ateo. Adesso… non lo so", avevo risposto esitante: "A volte... ma in definitiva, credo a ciò che vedo; e alla poesia."

"…e chi te la manda la poesia?" m'aveva incalzato, "la musa... già come si chiamava? Ah, sì, Calliope."

"No, Erato, dato che scrivo poesia lirica: Calliope era musa dell'epica."

"...e va bbuo', la musa in genere, non sottilizziamo, guaglio', No, era solo per dirti che la poesia è come l'amicizia; quella vera, dico: viene da Dio. Anzi, è uno dei segni dell'amicizia divina."

Non s'era più parlato per anni di quel rapporto Dio-poesia fino all'ultimo invito quando, a metà cena, Vittorio m’aveva detto: "Lo sai? Il premio letterario ti viene dal Cielo; come la tua poesia. Ricordi che ti dissi tanti anni fa? È Dio la vera e sola Musa."

"Anche per quelli come me?"

"Si capisce! Se son puri di cuore, però; e dimmi, tu lo sai perché i versi non dànno soldi?"

"So che ne direbbero i soldati di monsieur de La Palice

: “Perché hanno pochi lettori”."

"Uh, e chista 'ccà ha da esse 'na risposta?! No, non li dànno perché son cosa dello Spirito Santo; e pure ti dico che la poesia bella viene ai poeti che hanno lo Spirito: tu sarai anche un repubblicano storico, un non credente, ma sei idealista."

Ebbene, ero rimasto per un momento interdetto: dalla vendita dei venti sonetti a quel potente sei mesi prima, infatti, non avevo scritto più nemmeno un verso.

...ma no, avevo concluso in me stesso quella volta, puro caso!

Capitolo V

Buon per me che, a differenza dell'amico, fossi rimasto magro e agile come un tempo e mi sentissi in corpo la stessa forza di quand'ero stato ragazzino, altrimenti quel pomeriggio non me la sarei cavata.

Mancavano solo più due giorni alla mia partenza per New York. Verso le 15 ero uscito per recarmi alla Gazzetta del Popolo per stendervi un articolo per la terza pagina. In quei tempi senza internet, mentre per le riviste si poteva usare la posta, per i quotidiani, causa i ben più rapidi tempi di pubblicazione, bisognava recarsi fisicamente in sede; solo i corrispondenti esteri avevano il privilegio di dettare l'articolo telefonicamente e, qualche volta, pure i cronisti se la notizia era urgente; io e gli altri pubblicisti dovevamo consegnare fisicamente il pezzo scritto a casa, oppure stenderlo direttamente in sede; abitualmente io scrivevo in redazione. Avevo precedentemente collaborato, sempre come esterno pagato a singolo pezzo, a uno dei più importanti fogli italiani, ligure ma con un'edizione torinese, di proprietà del finanziere Angelo Tartaglia Fioretti, capo d'un colossale gruppo economico; ma dopo che, contando sulla mia posizione d'indipendente pubblicista, senza avvisarne alcuno avevo preso a collaborare anche con l'altro giornale, quotidiano avversario delle concentrazioni economiche e favorevole a un’economia cristiano sociale, il foglio del Tartaglia Fioretti non aveva più stampato i miei scritti. Al mio perché mai? la risposta era stata esuberanza di costi. Non m'avevano neppur detto: Ti chiediamo di scegliere. M'avevano semplicemente respinto, come s'io fossi stato un loro cavallo improvvisamente bizzoso che, senza bisogno di scuse, non si monta più. Me n'ero indispettito, tanto più riflettendo ch'era stato proprio il Tartaglia Fioretti a comprarmi, un paio di mesi prima, quelle venti poesie da spacciar per sue con l'amante. Avevo finalmente capito che, anche in quell'occasione, ero stato trattato come una cosa che si può acquistare e buttare quando si vuole.

Il tragitto non era lungo da casa mia in via Giulio: un pezzetto della stessa, poi via della Consolata, via del Carmine e pochi metri di corso Valdocco, dove il giornale aveva sede; ma quel giorno, all’angolo tra lo stesso e via del Carmine, ormai vicinissimo alla mèta, mentre attraversavo sul verde, un furgone parcheggiato era partito all'improvviso puntando dritto su di me. Con un tuffo l’avevo evitato, proprio appena, limitando i danni alle mani spellate; e mentre il mezzo fuggiva, ero riuscito a prendergli la targa. Dopo aver scritto la mia nota al giornale, un poco sotto shock e pensando a chi potessi avere per nemico, m’ero precipitato alla vicina Questura da Vittorio. Come avevo pensato, il furgone era stato rubato. Nella mia denuncia l'amico aveva fatto annotare pure l'aggressione precedente, che ormai non si poteva più ritenere con sicurezza a scopo di rapina. Poteva esser stato il medesimo aggressore dell'altra volta a cercare d'uccidermi? Dopo essersi rimesso dai colpi potenti che gli avevo inferto? Purtroppo non avevo potuto vedere la figura alla guida.

"Non hai nessun sospetto? Che so, uno sgarbo?" m’aveva chiesto il D'Aiazzo.

"No, vado d'accordo con tutti."

"Già, già: potrebbe essere la vendetta di qualcuno che avevamo mandato dentro; ma di chi? Con tutte le indagini fatte assieme e tutta la gente che avevamo sbattuto in gattabuia... Mah! Comunque... forse sarà bene che mi guardi anch'io."

Da quel momento ero stato assai cauto e, fino al mio arrivo negli Stati Uniti, null'altro di male m’era successo.

Capitolo VI

Erano le 9 del mattino, ora di New York.

All'aeroporto s’era passato un controllo doganale così minuzioso che forse era secondo solo a certe ispezioni carcerarie. Avevano guardato persino nel tubetto del dentifricio e nel flacone del dopobarba, prendendo campioni che, pensai, avrebbero analizzato. Me l'ero aspettato, per la verità, un esame attento, anche se non talmente. Infatti, come pure i nostri mezzi d'informazione avevano riferito, due mesi prima in alcuni quartieri di New York l'acqua potabile era sgorgata dai rubinetti insieme a una strana sostanza inavvertibile al gusto, incolore e inodore, versata da ignoti in uno degli acquedotti in quantità proporzionalmente minuscole, ma talmente potente da indurre tutte le persone che l'avevano bevuta per almeno una decina di giorni alla condizione irreversibile di tossicodipendenti bramosi d'eroina. Nelle settimane successive era accaduta la stessa cosa a San Francisco e a Philadelphia. Contemporaneamente, i media avevano orecchiato e riferito che la Polizia Federale aveva saputo, da agenti della CIA, di un prodotto chimico che scienziati sovietici parevano avere sintetizzato. Qualcuno nell'FBI aveva avuto l'intuizione di far analizzare quelle acque e s’era scoperto il composto. Inutilmente però s’era cercato il laboratorio che lo produceva. S'era dunque sospettato che fosse stato importato segretamente. Intanto, i mezzi di comunicazione, preoccupando ancora di più i cittadini, s'erano chiesti: Si tratta di un'operazione di sabotaggio da parte dell’Unione Sovietica? O, col suo aiuto, dei nord vietnamiti? A nome del capo dell’URSS Leonid Il'ič Brežnev, l’ambasciatore sovietico aveva inoltrato una nota di ferma protesta alla Casa Bianca, accusando gli Stati Uniti di bieca calunnia.

Finalmente libero, m’ero avviato all’uscita per prendere un taxi che mi conducesse al Plaza Hotel, dove gli organizzatori m’avevano prenotato una camera. M’ero sentito però chiamare in italiano da una bella voce femminile. Era una signora attorno alla trentina, capelli corvini, molto graziosa, che, alla mia sinistra, stava agitando una breve sottile pertica con in cima un cartoncino bianco con il mio nome e cognome scritti in rosso.

"Il poeta Velli, vero?" m’aveva chiesto avvicinandosi e abbassando il cartello.

M’ero fermato: "In persona, signora..."

"Miniver: Norma Miniver. Sono inviata per lei dalla fondazione Valente." M’aveva porto la mano, dopo aver passato il cartello dalla destra alla sinistra. "L'ho riconosciuta non appena l'ho vista. Sa, la foto sui suoi libri."

Me n’ero compiaciuto. "Parla molto bene l'italiano", m’ero complimentato a mia volta mentre ci si avviava all'uscita.

"Sono italo americana."

"…ma il cognome..."

"È di mio marito. Quello della mia famiglia è Costante. Ho detto Miniver per abitudine. In verità", s’era confidata senza imbarazzo, " riprenderò il mio fra poco: abito già da sola e sto per ottenere il divorzio."

Al Plaza, dopo le formalità d'ingresso, Norma m’aveva preceduto col porteur fin dentro la stanza. Sulla soglia del bagno figurava un cartello in quattro lingue, ma non in italiano, che ammoniva in lettere maiuscole: NON BERE L'ACQUA DEGLI IMPIANTI IGIENICI. POTREBBE CONTENERE SOSTANZE NOCIVE.

"Sono a sua disposizione come hostess per tutto il tempo della sua permanenza", m’aveva assicurato; "ma ora, penso che lei desideri soltanto rinfrescarsi e riposarsi. Occupo la camera qui accanto a sinistra, per qualunque occorrenza."