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Adone fece un paio di respiri profondi, poi riportò il telefono all’orecchio. «Se ne è andato, ma potrebbe costituire un problema. Mi ha visto nella mia vera forma. Dovresti mandare qualcuno a intercettarlo. Ha iniziato ad avere dei ripensamenti, dopo aver visto cosa sono.»
«“I satiri hanno la mia ragazza” suona come un’ottima scusa.» Dioniso allontanò il cellulare dalla faccia per parlare con qualcuno in lontananza, prima di riprendere la conversazione con Adone. «Sto inviando Melancton a contenere i danni» Chiese la posizione dell’auto di Donovan e Adone gliela diede. «Resta vicino alla ninfa, ma non farti vedere. Riferiscimi qualsiasi notizia sulla siringa.» Riattaccò senza attendere una risposta. Non aveva chiesto a Adone come si sentisse e cosa ne pensasse di quella storia. A Dioniso importava solo di mettere le mani sulla siringa – una determinazione ostinata, che aveva avuto inizio parecchi mesi prima, dopo aver localizzato Pan e che da allora aveva guadagnato slancio. Le reali intenzioni del dio restavano un mistero, sebbene avesse affermato di voler usare lo strumento solo per liberare i beoti dalla maledizione. Certo… Pan ci aveva provato in passato, senza risultati, e nessuno sapeva cosa Dioniso avesse in mente di fare.
Adone riportò il tirso alla sua forma originale, facendolo roteare tra le dita come un bastone, mentre ragionava sulla situazione in cui si era cacciato e sul fatto che avrebbe dovuto sopportare Melancton e il suo silenzio del cavolo. Sospirando rumorosamente, lasciò che il tirso si trasformasse nuovamente in un anello d’acciaio. Doveva sempre ritornare alla forma originale per poter cambiare di nuovo. Adone se lo mise al dito.
Non era sua intenzione traumatizzare Lily più di quanto avesse già fatto Donovan… per colpa sua. Ad ogni modo, il suo gemello aveva un unico desiderio: essere di nuovo umano. Per costringerlo a mostrare la siringa, sempre che l’avesse lui, avrebbe dovuto far sì che necessitasse di uno strumento tanto potente. Il pensiero di dover fare qualcosa di così orribile che Ariston avrebbe avuto bisogno di usarla – ecco cosa temeva più di ogni altra cosa Adone. Ne sarei capace?
L’idea di abbandonare l’intera missione e lasciare che Ariston tenesse Lily per sé evaporò non appena Adone bevve un sorso del fantastico vino di Dioniso. Tiepido e pungente sulla lingua, avvolgeva le papille gustative con il suo sentore di uva e bacche. Chiuse gli occhi e ne assaporò il gusto. Era dolce, come un’assoluta estasi.
Non dubitava che Dioniso li avrebbe fregati tutti, una volta che si fosse impossessato della siringa. Era quello che facevano gli dèi. La distruzione li seguiva ovunque andassero. Il ricordo del giorno in cui aveva implorato Afrodite affinché lo aiutasse a sconfiggere la maledizione ritornò a galla; la ferita si riaprì. L’orrore nei lineamenti della dea alla vista di ciò che era diventato…
Adone serrò gli occhi, desiderando che sparisse. Odiava quel ricordo. Provava ancora vergogna, ripensandoci. L’aveva pregata di andare da lui, divorato dal desiderio. Afrodite aveva risposto alla sua chiamata, credendo che Adone avesse convinto Ariston a condividere il letto con lei. Reso quasi cieco dalla maledizione, Adone si era scagliato sulla dea. La pelle nuda e febbricitante, il pene dolorosamente eretto. Riusciva a malapena a pensare, guidato com’era da quel bisogno primordiale. Pronto a prenderla con la forza pur di soddisfare quella dolorosa eccitazione.
Vedendo lo stato in cui si trovava, le labbra della dea si erano arricciate in una smorfia sprezzante e Adone ricordava di aver esitato. Ma quando Afrodite aveva aperto la bocca per deriderlo, era stato invaso dal bisogno di prendere ciò di cui aveva bisogno, e in quel momento aveva bisogno di sesso. Lo necessitava quanto l’aria. La dea aveva urlato, mentre Adone si era messo ad armeggiare con la sua veste, in cerca di quel conforto e quella passione che più volte gli aveva donato in passato. Afrodite lo aveva accolto con una ginocchiata all’inguine, prima di spingerlo via e poi si era sistemata il vestito, a testa alta, nonostante la taglia minuta. La corona d’alloro dorata che portava sul capo storta. Lo sguardo micidiale.
«Sei un mostro!» aveva esclamato. «Pensavi davvero che ti avrei accolto nel mio letto con quest’aspetto più bestiale che umano? Volevi costringermi? A me!» Afrodite aveva riso, come se l’idea di essere toccata da uno come lui fosse la cosa più ridicola al mondo. Il suo tono gelido aveva spento quel fuoco che la maledizione gli aveva acceso nel sangue. «Sarebbe stato meglio se fossi morto, Adone. Vederti così insudicia il ricordo del tempo che abbiamo passato insieme. Non cercarmi mai più, orribile creatura.» Era rimasta più sconvolta dal suo aspetto che dal fatto che avesse quasi abusato di lei – quello lo aveva trovato più incredibile che disgustoso. Adone dovette ricordare a se stesso che le dee erano più antiche degli umani, una razza superiore. La loro morale si basava su una concezione assai diversa di ciò che era giusto e di ciò che era sbagliato. Adone non era stato altro che un passatempo per lei, mentre lui l’aveva amata.
Per accrescere la sua vergogna, Afrodite aveva pianto la sua scomparsa come se fosse davvero morto. Sulla sua sofferenza erano state scritte storie e canzoni, eppure non aveva mostrato neanche un pizzico di quella compassione, quando lo aveva bandito dal suo letto. E tutto perché Ariston non aveva assecondato i desideri della dea.
Un altro sorso di vino. La sua agitazione crebbe.
Adone voleva vedere Ariston soffrire, come aveva sofferto lui quando la donna che aveva reso la sua vita degna di essere vissuta gli era stata portata via e la ninfa sarebbe stata la chiave. Con la Luna del Satiro alta nel cielo, Ariston avrebbe conosciuto lo stesso dolore provato da Adone sul monte Citerone, dopo che Afrodite lo aveva abbandonato al suo destino.
Il sole mattutino fornì a Lily un’idea dei punti cardinali. Finché avesse prestato attenzione alla posizione del sole – e non fossero apparse nuvole cariche di pioggia – tutto sarebbe andato bene. Dato che non sarebbero dovuti tornare fino al giorno seguente, domenica, c’era la possibilità che la macchina fosse ancora dove l’avevano lasciata. Questo se Donovan non l’aveva abbandonata sul serio, il che avrebbe significato che si era perso nei boschi. In tal caso, si sarebbe rivelato meno idiota di quanto Lily avesse creduto, ma solo di poco.
Con un po’ di fortuna, si sarebbe imbattuta prima in una stazione della guardia forestale. Non vedeva l’ora di tornare a casa e dedicarsi a una maratona di musical con un Double Fudge Brownie Ben and Jerry’s come unico complice. L’aumento di peso dovuto al gelato le avrebbe dato qualcosa su cui concentrarsi più tardi, nel tentativo di perderlo.
Lily si sfregò il retro del collo e si guardò intorno. La sensazione di essere osservata si era presentata a più riprese durante la notte, ma da quando aveva smontato la tenda e aveva iniziato a camminare era diventata densa e soffocante. Non era una sensazione fisica, ma un’inquietudine che la seguiva mentre avanzava lungo il cammino. La scacciò via come paranoia e ansia, effetti residui della consapevolezza che Donovan l’aveva lasciata lì da sola di proposito. Era davvero una persona così orribile da essere abbandonata? Eh. Così chiede l’orfana.
Gli uccellini cinguettavano allegramente le loro liete canzoni dalla cima degli alberi e il suono spezzava il silenzio della solitudine. Normalmente, Lily avrebbe trovato l’atmosfera tranquilla e rilassante, ma quella mattina le sembrava più spaventosa dopo ogni passo. Un fruscio proveniente dai cespugli alla sua destra le fece venir voglia di piangere. Tagliò per gli alberi a sinistra, in modo da evitare qualsiasi animale selvatico volesse divorarla per colazione. Non era la prima volta che deviava dal percorso stabilito dopo aver sentito un rumore spaventoso. Lily si domandò se non lo avesse immaginato, ma di sicuro si stava perdendo sempre di più nella foresta. Non riusciva a capire come il sole fosse finito dalla parte opposta rispetto a quella in cui avrebbe dovuto essere.
Il terreno era ancora bagnato dal temporale della sera prima e il suolo e il muschio emanavano un odore pungente, ma non del tutto sgradevole, che andava ad aggiungersi all’atmosfera cupa in un modo che in altre circostanze avrebbe apprezzato. Il bosco era tanto triste quanto i suoi pensieri. Non è un bene quando accogli i pensieri tetri per scacciare quelli paranoici. Qualcosa o qualcuno la stava osservando di nuovo. Sbatté rapidamente le palpebre per fermare le lacrime e contemporaneamente allungò il collo per intravedere chi o che cosa la stesse pedinando. Non era una che piangeva spesso e si rifiutava di iniziare a farlo.
Guardandosi intorno con la coda dell’occhio, in cerca di pericoli, Lily non vide nessuno aggirarsi fra gli alberi. Guardò verso l’alto, ma non riuscì a scorgere nulla, a parte un piccolo opossum intento a esplorare tra le foglie. Quando voltò la testina grigia e pelosa nella sua direzione e la guardò con occhi grandi e lucidi, Lily non sentì nulla di ciò che aveva provato prima. Che ancora provava.
«Donovan?» chiamò, fermandosi per voltarsi di nuovo. Aveva piovuto da matti per tutta la notte. Donovan poteva essersi rifugiato da qualche parte in attesa che smettesse. Un tuono risuonò in lontananza, ricordando a Lily che doveva continuare a muoversi. Attraverso i pini e le querce che la circondavano riuscì a scorgere nuvole cariche di pioggia che incombevano minacciose.
Se non lo avesse ritenuto impossibile, avrebbe giurato che fossero state evocate dal ricordo del temporale. Si erano scurite da sole? Come si formavano le nuvole cariche di pioggia, in ogni caso? Non riusciva a ricordarlo dai giorni del liceo, non le era mai sembrata un’informazione utile da conoscere fuori da un’aula di scuola.
Guardò l’orologio. Era già passato mezzogiorno; aveva perso delle ore andando nella direzione sbagliata. Non mi farò prendere dal panico…
Una melodia si diffuse intorno a lei. Debole all’inizio, così debole che quasi non se ne rese conto. Quando il suo cervello collegò il suono alle sue implicazioni – un qualche tipo di civilizzazione doveva trovarsi nei paraggi – le sue spalle, prima tese, si rilassarono.
Lo strumento doveva essere un qualche tipo di flauto. Mentre Lily cercava di capirne di più sulla strana melodia, qualcosa di alquanto strano accadde. Le note iniziarono a filtrare nei pori della sua pelle, come un sensuale balsamo e a lambire come acqua calda le delicate aree della sua femminilità. Una parte della sua mente le lanciò un avvertimento, ma era il suo corpo a detenere il controllo ormai e non aveva intenzione di farsi distrarre dal buon senso. Come il Bianconiglio di Alice, quella melodia avrebbe potuto condurla dritta nella tana del coniglio e non le sarebbe importato, a patto che il Paese delle Meraviglie fosse stato pieno di quelle stesse sensazioni fantastiche che la musica le procurava.
Il buon senso, tuttavia, non si lasciò zittire completamente e Lily lottò per ascoltarlo, sebbene il suo corpo si stesse muovendo verso la fonte della musica. Una melodia sexy le stava mettendo in subbuglio gli ormoni nel bel mezzo del nulla. Tre ragioni sembravano le più credibili. La prima: era disidratata o febbricitante e stava avendo delle allucinazioni. La seconda: qualcuno stava tentando di rievocare Un tranquillo weekend di paura – grazie al cielo non stavano suonando il banjo. Al pensiero, iniziò a urlare a se stessa di correre nella direzione opposta, ma i suoi piedi non le prestarono attenzione. La terza: era morta, finita in Paradiso e qualche ragazzo davvero figo stava per suonarla nello stesso modo seducente riservato a quella specie di flauto, facendola venire più e più volte per tutta l’eternità.
A pensarci bene, la terza opzione sembrava piuttosto allettante. Peccato che cose del genere non accadessero nella vita reale e, in ogni caso, Lily non era emotivamente pronta. Non pensava di potersi fidare di nuovo abbastanza da entrare in una relazione e non era interessata ad avventure di una notte.
In qualche modo, doveva scegliere fra seguire la musica o tornare indietro. L’idea continuava a comparire nella sua mente, come un’insegna al neon con scritto: Decidi, decidi, decidi. Quando Lily credette di aver riassunto il controllo di sé necessario a rompere il sortilegio, i suoi occhi si posarono su di lui.
Beh, non lo vide davvero. Sebbene sembrasse totalmente reale, Lily era ancora abbastanza cosciente da distinguere un sogno a occhi aperti dalla realtà. Riusciva a vedere dove stesse andando, riusciva a prestare abbastanza attenzione ai detriti da non inciampare, eppure lo vide fare un cenno nella sua direzione. Era appoggiato contro un albero e la sua mano si stava muovendo in un gesto che sembrava dirle “vieni qui”. I suoi capelli erano come una cascata d’oro, impreziosita da ciocche ambrate, che gli cadeva oltre le spalle e ondeggiava nella brezza, accarezzandogli i pettorali. Assomigliava a un guerriero vichingo, abbastanza forte da sconfiggere intere legioni prima di fare ritorno a casa e condurre la sua innamorata nel Valhalla del piacere. Allo stesso tempo, però, non sembrava affatto nordico, ma esotico, con un’abbronzatura mediterranea a colorargli la pelle. E quegli addominali. Avrebbe potuto lavarci i vestiti sopra.
L’uomo delle sue fantasie fece l’occhiolino e sollevò un flauto, formato da diverse canne tenute insieme dalla più lunga alla più corta con strisce di cuoio. Lo portò alla bocca e ci soffiò sopra, senza mai toccare lo strumento con le labbra, e le note colpirono Lily come un’onda anomala che si infrange contro una costa rocciosa. Parole che non erano parole danzarono nella melodia. Lo farai? Non lo farai? Non vuoi sapere com’è?
Sì, pensò Lily. Aveva un disperato bisogno di saperlo.
No, urlò il suo buon senso. Non arrenderti così facilmente. La tua volontà non è così debole. Non entrare nella sua rete.
Al diavolo il buon senso. Le aveva fatto credere che Donovan fosse affidabile. Che sarebbe stato onesto e non l’avrebbe mai tradita in alcun modo, perché era un bravo ragazzo. Eppure, l’aveva ingannata comunque, le aveva spezzato il cuore e l’aveva lasciata lì a morire come un randagio al lato della strada.
Lily si asciugò una lacrima, maledicendo le emozioni che minavano la sua risolutezza. Mentre l’uomo delle sue fantasie continuava a suonare il suo flauto arcaico, una foglia gli si posò sull’addome, trasportata dal vento. Lily lanciò un’occhiata più in basso, ma l’erba alta lo copriva dalla vita in giù. Era probabile che fosse magnificamente formato anche lì come sopra. Era una sua fantasia, quindi doveva esserlo. Se solo avesse potuto dare una sbirciatina per saperlo…
Non vorresti saperlo? La musica sembrò leggerle nel pensiero. Potresti andartene ora, ma a quel punto resteresti con il dubbio per il resto dei tuoi giorni. Vieni da me, te lo mostrerò.
I suoi talloni si conficcarono nel fango. Lily non sapeva bene come ci fosse riuscita, ma aveva riacquistato il controllo. Poteva ancora tornare indietro; aveva sentito il bisogno di fermarsi e lo aveva fatto. Aveva preso in considerazione l’idea, prima, ma non aveva mai davvero voluto farlo. Lo voleva? Lily si morse il labbro. Voleva davvero che l’uomo delle sue fantasie glielo mostrasse…
Lo farai? Non lo farai? Non vuoi sapere com’è?
Voleva davvero saperlo. Se in quel momento l’avesse ignorata, avrebbe poi desiderato conoscere l’origine di quella musica per sempre. Proveniva davvero da un uomo attraente in mezzo ai boschi? Improbabile. Benché apprezzasse l’immagine mentale fornitale dal suo cervello. Non si sarebbe avvicinata ai musicisti, a meno che non fossero sembrati affidabili, ma doveva sapere chi stesse suonando il flauto. Magari avrebbero potuto aiutarla.
Fece per avanzare di un passo.
Allora si ricordò di come Donovan fosse sembrato “affidabile”. Non poteva fidarsi del proprio giudizio.
Vacillò.
Lily si guardò alle spalle, nella direzione da cui era arrivata e quasi gemette. Si era concentrata talmente tanto sulla canzone da non prestare attenzione a ciò che la circondava. La sensazione di essere osservata era tornata, ma non riusciva a scorgere nessuno. Cosa diavolo sta succedendo!
La melodia sensuale andava in un erotico crescendo, scivolando sul suo corpo come seta, rivendicando la sua totale attenzione. Si aggrappò a un ramo, il suo respiro usciva in modo irregolare tra i denti stretti. Ben presto Lily si ritrovò a camminare verso la musica. Posso farti sentire in quel modo ancora e ancora, risuonarono le note, promettendole una ricompensa per la sua scelta. Riusciva quasi a crederci. Lily voleva sentirsi ancora in quel modo. Perdersi in quella sensazione.
Lo farai? Non lo farai? Non vuoi sapere com’è?
In quel miraggio allucinogeno che aveva davanti, l’uomo biondo smise di suonare per studiarla. Improvvisamente, Lily si rese conto di non volerlo solo incontrare, ma di voler anche conoscere la sua storia. Era la seduzione in persona, eppure la sua espressione conteneva un accenno di tristezza. Cosa potrebbe rendere infelice un uomo tanto bello? Suona la sua musica perché si sente solo?
L’uomo ritornò a suonare e le sue palpebre ondeggiarono fino a chiudersi, mentre riversava la propria anima nelle note.
Abbandona i tuoi pensieri. Senti! Trovami! Trooovamiiii!
La decisione ormai presa, Lily decise che lo avrebbe cercato davvero. Man mano che si avvicinava, il ritmo della melodia aumentava, travolgendola e facendola inciampare dalla premura. Avanzando con determinazione, Lily vide un campo di fiori selvatici con l’erba alta, molto simile a quello in cui si era trovato l’uomo delle sue fantasie. La canzone era diventata frenetica, il volume aveva raggiunto il culmine, come se si trovasse proprio accanto alla fonte. Il musicista doveva essere in quel campo.
Lily rallentò il passo, esitante, ma poi si avvicinò in punta di piedi, non volendo rendere nota la sua presenza, sebbene la musica la spingesse a manifestarsi. Nella boscaglia oziava un uomo dalla chioma dorata. Lily si nascose velocemente dietro un albero ed ebbe un sussulto, la mano poggiata sul petto, dove poteva sentire il suo cuore battere rapidamente sotto la superficie. L’uomo che aveva immaginato era reale, ma come? Come è possibile tutto questo? L’aveva davvero chiamata a sé con una canzone e una promessa di seduzione?
Lily diede un’altra sbirciatina e si rese conto che l’uomo delle sue fantasie era esattamente come l’aveva immaginato, eccetto per un piccolo dettaglio.
Un gioco di luce creava la forma di un corno a spirale di colore scuro al lato della sua testa. Sempre suonando lo strumento, l’uomo si mosse e divenne ovvio che la luce non c’entrava nulla. Aveva chiaramente un paio di corna. Un copricapo pagano di qualche tipo? Forse faceva parte di un culto e sarebbe stato più saggio sgattaiolare via prima di essere notata. Stava suonando lo strumento che Lily aveva visto nella sua mente: una serie di flauti di diverse lunghezze legati insieme. Soffiò sulle estremità e le note risuonarono nell’aria, dandole il benvenuto. Pregandola di ricambiare il saluto. Giurandole piacere e libertà ed estasi e tutte le cose necessarie a farle scatenare gli ormoni. All’improvviso, come avvertendo la sua presenza, l’uomo abbassò lo strumento e si mise più ritto, allerta. Pronto ad agire. Salvo che non guardò nella sua direzione. Al contrario, si concentrò su qualcosa dritto davanti a sé, da qualche parte alla sinistra di Lily.
Una donna dai capelli biondi si addentrò nella radura. Indossava una camicia a quadri gialli e blu annodata sopra l’ombelico e i pantaloncini di jeans più corti mai cuciti – abbassandosi avrebbe probabilmente mostrato le parti intime al mondo intero. Stava fissando l’uomo con uno sguardo pieno di ammirazione e Lily non poté biasimarla. Lei stessa sarebbe stata forse abbastanza sciocca da precipitarsi verso l’uomo delle sue fantasie, se la bionda non l’avesse preceduta.
L’altra donna si fermò a contemplare l’uomo che aveva davanti, poi piegò il fianco verso l’esterno e iniziò a sbottonarsi la camicia. Ancheggiando verso di lui, la bionda continuò a spogliarsi, portando Lily a domandarsi se non fosse la sua professione. A quel punto, l’uomo si alzò. Era completamente nudo e Lily ebbe una perfetta visione frontale. Fece un impercettibile cenno di approvazione, tirando fuori il labbro inferiore. Non male.
Era magnifico.
Lily non riusciva a scorgere alcun elastico o corda che sostenesse le corna d’ebano sulla sua testa. Partivano dalle sue tempie e si arricciavano, incurvandosi all’indietro, ruotandogli sotto le orecchie, per poi pendere con le estremità appuntite sulle sue spalle. Erano più spesse nella parte superiore e incorniciavano il suo splendido volto come la corona di una divinità della natura. Si credeva il Re della Foresta o cosa? Lily ridacchiò ripensando per un attimo al testo della canzone del Leone Codardo ne Il mago di Oz. Non poteva prendere la situazione sul serio. Aveva chiaramente perso il senno.
Mentre il Signor Bendotato, primo fra tutti i nudisti di montagna, avanzava verso la bionda, Lily notò qualcosa di strano. I fiori celavano i suoi piedi, ma le gambe si piegavano in modo strano quando si muoveva. Si inarcavano leggermente all’indietro, sotto il ginocchio, come quelle di un animale; i suoi polpacci non avevano la linearità delle gambe umane. Ed erano molto più pelose vicino alla caviglia, come se avesse dei ciuffi di pelo.
Forse è eccessivamente peloso e sopra si depila. I peli sul suo torso erano radi, una spruzzata dorata che gli cospargeva il petto, scendendo giù versi i genitali e le cosce, che non erano affatto pelose come le caviglie. Lily sbatté le palpebre. C’era qualcosa di molto strano nei suoi piedi. Quello è… è uno zoccolo?
Macché. Non può essere.
Ma se lo fosse… La curva delle sue ginocchia spiegava l’angolo incorretto delle caviglie, necessario per supportare il suo corpo bipede abbastanza da permettergli di camminare. Lily era convinta che avesse un senso dal punto di vista fisico, ma le sue uniche conoscenze scientifiche provenivano da Discovery Channel. La ragazza si ritrovò a fissare la sua andatura, finché il suo sguardo non cadde nuovamente sul suo pene – uguale a quello di un umano – che ondeggiava con i suoi movimenti, decisamente pronto all’azione. Era stupendo, persino con le sue deformità e Lily lo avrebbe rappresentato volentieri su una tela, se fosse stata capace di dipingere decentemente.
Okay, quelli sembrano seriamente zoccoli.
Era chiaro cosa stesse per accadere. Lily stava delirando, dopotutto. E dato il suo stato delirante, avrebbe potuto guardare l’uomo-bestia e la bambolina bionda esplorarsi i corpi a vicenda senza ripercussioni. Erano state le accuse di Donovan del giorno prima a farle venire un esaurimento nervoso e a evocare quello scenario di perversione estrema?
Forse.
Si tolse lo zaino e lo appoggiò delicatamente contro il pino dietro al quale si era nascosta. Era difficile spiare i prodotti della sua immaginazione schiacciata dal peso opprimente della realtà. Ho trasformato sul serio il mio zaino in una metafora? Devo essere davvero impazzita.
L’uomo – ehm, la creatura? – fece sdraiare la donna tra i fiori selvatici, sottraendola allo sguardo di Lily. L’uomo-bestia non perse tempo e si tuffò di testa. Vista la posizione delle gambe di lei e la testa di lui, l’immaginazione di Lily non ebbe problemi a indovinare dove la stesse baciando. Non era neanche lontanamente eccitata dall’attacco appassionato della creatura al corpo della donna. No no, non lei. Non quanto la bionda, in ogni caso… I suoni che stava producendo quella donna sembravano quasi disumani, una sorta di lamento e gemito insieme.
Santo. Cielo. Lily li fissò con la bocca aperta e gli occhi spalancati per lo stupore. Cosa cavolo sta facendo con quella bocca per farle fare un suono simile?
Lily rimase impassibile. Le sue folli allucinazioni pornografiche non la eccitarono. No. Neanche un po’. Non si rimproverò nemmeno per essersi dimenticata di mettere il vibratore nello zaino.
Si spostò dall’altro lato dell’albero per vedere meglio.
Crack!
Lily fissò il bastone spezzato sotto la sua scarpa con lo stesso terrore che immaginava dovesse provare la vittima di una mina, pochi secondi prima della sua esplosione. Quando sollevò la testa, la sicurezza che quella scena non fosse che un prodotto della sua immaginazione morì di una morte rapida. Lo sguardo dell’uomo dai capelli biondi era puntato su di lei, come il mirino del fucile di un cacciatore con la sua preda.
A quel punto, non c’era che un modo ragionevole di affrontare la situazione.
Lily iniziò a correre.
Capitolo tre
Non tutte le donne soccombevano al canto da satiro di Ariston, il che andava bene. Non gliene importava molto, dal momento che non erano altro che facce senza nomi, corpi disponibili per alleviare il suo desiderio e rendere l’eternità un po’ più piacevole per qualche settimana. Se non avesse fatto sesso con delle donne a caso, il dolore dell’eccitazione lo avrebbe costretto a trasformarsi di nuovo in quella creatura irrazionale con una sola cosa in mente. Ariston non voleva assolutamente sperimentare di nuovo quell’orribile e doloroso bisogno al massimo della sua intensità.
La maggior parte delle donne si arrendeva alla sua melodia. La canzone fungeva da richiamo, ma le donne potevano scegliere, come pesci di fronte a un amo con esca. Se avessero desiderato il premio abbastanza da correre il rischio, avrebbero abboccato. Se invece fossero state spaventate da quanto offerto, lo avrebbero evitato. Ariston poteva dare loro qualcosa che molte avrebbero avuto paura di chiedere: del sesso privo di sensi di colpa con un immortale, il cui ricordo sarebbe parso solo come un sogno. Potevano ritornare alle loro vite e ai loro innamorati come se niente fosse successo. Nessun legame. Nessun rimpianto.
Solo che un rimpianto c’era – Ariston provava rimorso per ogni subdolo metodo usato per fare sesso, ma tale era la vita dei satiri. Non poteva certo instaurare una relazione con una donna e aspettarsi che questa non desse di matto, quando dopo un appuntamento gli fossero spuntate le corna e avesse iniziato a zoccolare per la camera da letto come il diavolo in persona, con i suoi zoccoli fessi. No, giusto o sbagliato che fosse, aveva smesso da tempo di preoccuparsene, dopo aver rinunciato alla speranza di poter cambiare il proprio destino.
La speranza non era che una fantasia. Spingeva le persone a credere che ci fosse una possibilità, una cura. Salvezza. Ma c’era un limite ai decenni, ai secoli persino, che uno poteva attraversare prima che la speranza diventasse un mito. Le ninfe erano tutte scomparse, nonostante la promessa fattagli da Dafne tantissimi anni prima. Ariston aveva vagato per il mondo intero, lo aveva percorso tutto almeno venti volte. Non c’era salvezza per lui.
Aveva intrapreso la strada della solitudine, ricorrendo alla magia del suo flauto di Pan per ottenere, al bisogno, della compagnia femminile. Gli arcadici, quando ancora non conoscevano l’incantesimo che li faceva apparire umani durante il giorno, avevano imparato a usare il canto per ingannare le donne e far vedere loro quello che volevano, quando li guardavano. Non era infallibile e non tutte le donne si gettavano fra le loro braccia. Alcune restavano fedeli ai loro mariti e altre si rifiutavano di cedere ai propri desideri. Tuttavia, alcune lo facevano, risparmiando ad Ariston molti fastidi. Permettendogli di non diventare ciò in cui la maledizione avrebbe voluto trasformarlo – ciò che si rifiutava di diventare.
Una donna bionda emerse dalla foresta e Ariston si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo, nonostante il contraddittorio nodo allo stomaco. Sebbene non avesse assunto sembianze umane, la bionda vide solo ciò che desiderava vedere. Se lo stava vendendo in forma di satiro e gli si avvicinava comunque, beh, a ognuno le sue perversioni.
La bionda si spogliò, sorridendo.
Ariston ripose il flauto di Pan nella fondina che aveva creato appositamente e lo mise sopra l’uniforme da ranger, che aveva ripiegato e lasciato vicino all’albero quando si era spogliato. Aveva resistito per poco più di tre settimane questa volta, ma più si avvicinava l’eclissi, più la sua agitazione cresceva. Avrebbe fatto tutto meccanicamente, come sempre – darle piacere, prendersi il suo e rispedirla alla sua tenda. Ariston riceveva poco da queste esperienze, a parte una breve sensazione di appagamento e la consapevolezza che non sarebbe stato un pericolo, finché avesse fatto sesso di nuovo in un paio di settimane. Se avesse aspettato di più la maledizione avrebbe iniziato a offuscare il suo giudizio, fino a fargli perdere il controllo.
Prima che Ariston potesse soffermarsi sulla sua mancanza di entusiasmo, la bionda fu sotto di lui, eppure non provò alcun desiderio di godersi il suo tempo insieme a lei. Non lo stava facendo per divertimento, ma per necessità. Lo nauseava. Il suo corpo iniziò a tremare, prova che il suo autocontrollo stava per esaurirsi. Voleva spingere via la donna. Per gli dèi, cosa c’è che non va in me? Non posso resistere più a lungo? Ariston era abbastanza convinto che sarebbe stato più brutale del solito e, non volendole fare del male, si tuffò tra le sue cosce per prepararla, soffocando un’imprecazione.
Crack!
Nonostante gli esuberanti gemiti della donna, l’interruzione riuscì a uccidere definitivamente quel poco di interesse che Ariston era riuscito a raccogliere per portare a termine l’atto. Cercando di ignorare le mani troppo impazienti che gli tiravano i capelli, si concentrò su ciò che lo circondava. Se ci fosse stato qualcun altro nell’area, Ariston avrebbe potuto essere scoperto. Il suo sguardo corse verso il flauto di Pan e calcolò quanto tempo gli ci sarebbe voluto per raggiungerlo e per suonare la melodia che avrebbe prodotto l’illusione di un aspetto umano. Se lo avessero scoperto, avrebbe perso la sua casa. Gli piaceva la vecchia baita della guardia forestale dove si era stabilito e non era ancora pronto per andarsene. Era difficile per un satiro trovare un rifugio sicuro in questa nuova epoca.
Ariston si passò una mano sulla bocca e strizzò gli occhi, continuando a scandagliare l’area da cui era giunto il suono. Eccola là! Alta e snella, con i capelli marrone scuro, forse persino neri, tirati indietro dal viso e dalle spalle. Lo stava fissando con gli occhi spalancati.
«Perché ti sei fermato», si lamentò Biondina, tirandosi su e infilando una mano tra loro per afferrargli il pene. Ariston la ascoltò appena e le allontanò la mano. Il suo desiderio si era risvegliato durante la gara di sguardi con il suo pubblico, ma non voleva le mani di Biondina su di sé. La mora aveva dirottato la sua attenzione e a mettere le mani su di lui sarebbe stata solo lei. Stranamente, tutta la rabbia che aveva nutrito mentre era solo con Biondina svanì. Voleva davvero la nuova ragazza. Il bisogno era lì, come sempre, ma la desiderava. Non riusciva a ricordare l’ultima volta che avesse desiderato spontaneamente di giacere con una donna, dato che la mancanza di scelta tendeva a rovinare per lui l’intero atto.
Chiuse gli occhi e prese a immaginare la scena. A breve la nuova ragazza si sarebbe addentrata nella radura e li avrebbe raggiunti. Ariston avrebbe suonato una breve melodia per scacciare Biondina, rimuovendola dall’equazione, e poi si sarebbe concentrato solo su Moretta. Si sarebbe preso il suo tempo con lei, estorcendole fino all’ultima goccia di piacere e forse finalmente, finalmente, avrebbe apprezzato di nuovo il sesso. La ragazza sembrava avere bisogno di una bella e forte s—
Ariston aprì gli occhi e vide Moretta voltarsi e fuggire come una cerva spaventata.
«Cazzo!»
«Sì, ti prego!» Biondina allungò le braccia e fece un gesto con le mani, come a dire “dammelo”. Seriamente? Ariston non aveva tempo di occuparsi di lei in modo adeguato. Moretta poteva aver scattato delle foto ed essere sul punto di inviarle a qualche fonte di notizie, mentre lui se ne stava lì seduto come uno stupido, sotto shock. L’avvistamento di un satiro da parte di un mortale avrebbe scatenato il panico e potevano esserci altre persone insieme a lei.
Il sesso poteva aspettare. Moretta andava fermata, prima che rivelasse ciò che aveva visto. Ovviamente, dopo averla colta con le mani nel sacco, avrebbe dovuto punirla per averlo spiato. Saltò in piedi, apprezzando il piano e corse a recuperare il flauto di Pan, in caso gli fosse servito. Biondina mise il broncio e lo imitò, alzandosi a sua volta. Cazzo. Mi ero già dimenticato di lei.
«Ehm… non hai finito.» Che vocina arrogante per una ragazza così carina. Piena di altezzosa presunzione e segno di un’infanzia viziata. Ad Ariston non piacevano le donne come lei. Non sembravano mai contente, persino quando le soddisfaceva.
«Lascia che ti suoni una canzone. Creerà l’atmosfera.» Ariston forzò un sorriso e nel frattempo fece scivolare lo strumento fuori dalla fondina e lo portò alle labbra.
«Sono già dell’umore. Ero così vicina quando hai deciso di fermarti. Così. Vicina. È semplicemente da maleducati tirarsi indietro ora!»
Ignorandola, Ariston soffiò lungo le canne. Quando la melodia per rimpiazzare la realtà con un ricordo onirico fece presa su di lei, si sentì sollevato. Gli occhi di Biondina si fecero vitrei, iniziò a raccogliere i propri abiti e si vestì velocemente, farfugliando oscenità che oscillavano fra l’insulto e il desiderio che accadessero cose sgradevoli ai suoi genitali. Si allontanò per fare ritorno alla sua tenda, ovunque fosse. Auspicabilmente, l’incantesimo sarebbe durato. Ariston non aveva tempo di farle da babysitter per assicurarsene. Sentendosi leggermente in colpa per non averla fatta venire, suonò un paio di altre note veloci… e Biondina vacillò con un gemito. Buon per lei.
È il momento della caccia. Con un gran sorriso, Ariston voltò le spalle a Biondina, augurandole silenziosamente un buon viaggio. Moretta non lo sapeva ancora, ma era una delle cose più interessanti che gli fossero successe da anni. Legò la fondina su una spalla e di traverso sul petto, come se volesse nascondere una pistola, e assicurò il flauto di Pan all’interno. Per i vestiti sarebbe potuto tornare più tardi, perché indossarli gli avrebbe fatto perdere altri secondi preziosi.
Ariston se ne pentì subito dopo essere partito all’inseguimento, rendendosi conto che la sua nudità avrebbe reso Moretta più guardinga, una volta che l’avesse raggiunta. Erano finiti i tempi in cui un satiro nudo sarebbe stato, beh, sorprendente, ma prevedibile. Sarebbe parso non solo come un mostro, ma anche come un pervertito della peggior specie. Lo aveva spiato in assenza dell’incantesimo che gli conferiva un aspetto umano, dunque alterare le sue sembianze non sembrava una priorità. C’erano dettagli più importanti su cui concentrarsi. Come aveva fatto a trovarlo senza seguire la sua canzone fino alla radura e fra le sue braccia – o lo aveva fatto? C’è solo un modo per scoprirlo.
Le sue tracce si rivelarono facili da seguire. Moretta non gli stava certo rendendo le cose difficili con quelle vistose orme nel fango umido. Si era lasciata l’attrezzatura da campeggio alle spalle, il che lo fece esitare. È sola?
Scosse la testa e ridacchiò. Non sarebbe stata sola a lungo. Ariston avrebbe messo presto le sue mani su di lei. Ne era quasi deluso. Quasi. Forse l’ebbrezza di giocare al gatto e al topo era ciò che gli serviva per sedare il suo desiderio. Anche se, una volta che avesse catturato Moretta…
Il rumore di respiri affannati lo fece rallentare. Scostò con delicatezza le lunghe foglie di una felce selvatica e le sue narici si spalancarono in trionfo. Dietro l’angolo, Moretta era piegata in due, con le mani sulle ginocchia, cercando di riprendersi dalla corsa. Sciocca femmina. Da dietro il fogliame, Ariston si concesse di esaminare accuratamente la sua preda. I suoi capelli scuri erano raccolti in una treccia che le arrivava a metà schiena e la sua t-shirt bianca avvolgeva un seno di medie dimensioni. La sua vita sottile si allargava in fianchi ben scolpiti e un sedere stupendo e le sue gambe toniche ostentavano la loro perfezione da sotto l’orlo di un paio di pantaloncini kaki. Ariston sarebbe potuto rimanere ore a fantasticare su cosa avrebbe trovato rimuovendo quegli strati; invece, fece la sua mossa.
Quando entrò nel suo campo visivo, Moretta sussultò. Poi, con gli occhi spalancati, lo fissò spudoratamente, fino a che il suo sguardo atterrò finalmente sui suoi piedi. Ad Ariston sembrò di scorgere sul suo viso un breve lampo di trionfo. Sorrise, mettendo in mostra dei perfetti denti bianchi. Poi il sorrisetto si trasformò in una smorfia. La ragazza sbatté le palpebre e scosse la testa. Quando incontrò di nuovo lo sguardo di Ariston, la paura era ancora là.
«Oh, mio Dio. Oh, mio Dio. Sto avendo le allucinazioni, probabilmente ho la febbre e ho bisogno di uscire da qui, subito.» Annuì dicendo l’ultima parola, come a finalizzare il suo balbettio, confermando una discussione interiore di qualche tipo.
«Non credo che tu stia soffrendo di alcuna malattia. Puoi continuare a fissarmi per tutto il tempo che vuoi. Anche se preferirei che guardassi un po’ più in alto dei miei piedi.» Decisamente più impressionante, quello. Perlomeno, nessuno se ne era mai lamentato prima.