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Saving Grace
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Saving Grace

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“Oh. Scusi. Mi ricorda qualcuno che conoscevo,” disse. Il suo commento mi fece rabbrividire. “Sì, giusto alcune domande per cominciare. Prima che morissero, dove cenarono i suoi genitori?”

Me lo ricordavo. Avevano adorato il ristorante e ci erano tornati per la loro ultima cena sull’isola. “Da Fortuna. Lo conosce?”

“Sì, è un posto molto popolare.”

Il mio sguardo andò a posarsi sul riconoscimento per i dieci anni di servizio presso il Dipartimento di Polizia di New York che era appeso al muro, sopra la sua spalla sinistra. Accanto, era appesa una foto di pesca, oggetto di design obbligatorio sull’isola: Walker e un uomo nero ugualmente grosso, e un altro uomo biondo ancora più grosso, in piedi sul ponte di poppa di una barca chiamata Big Kahuna, sollevando insieme un enorme pescespada.

Per la prima volta da quando ci eravamo scambiati i saluti all’inizio dell’incontro, Ava parlò. “Il Promontorio di Baptiste non è esattamente nel tragitto tra il ristorante e l’hotel.”

Walker la ignorò e continuò a parlare con me. “Si diressero da qualche altra parte quella notte, che lei sappia?”

“Non che io sappia.”

“Al casinò? Una passeggiata al chiaro di luna sulla spiaggia, forse?”

“Mi dispiace, non lo so. Ho il rapporto dell’incidente della polizia, però. E hanno detto che la scientifica potrebbe averne un altro.” Sventolai il documento della polizia, e lui lo prese, lo aprì e lo sistemò davanti a sé.”

“Okay, mi procurerò quello della scientifica.”

“In più,” esitai, guardai Ava, poi proseguii. “L’agente che ha investigato sulle loro morti è deceduto poco dopo. Può vedere sul rapporto che un agente diverso da quello dell’investigazione ha firmato il documento. Non so se sia rilevante, ma—”

Walker mi interruppe. “Verificherò. Molto bene.” Buttò uno sguardo alla cartelletta sulla scrivania con il rapporto della polizia. “Penso di aver raccolto tutte le informazioni che mi servono da lei. Chiedo un acconto di cinquecento dollari, per iniziare la ricerca.”

Avevo bisogno di andare avanti, ma firmare un assegno a quest’uomo e fidarmi che avrebbe fatto il suo lavoro sarebbe stato abbastanza? Spendere gli inutili soldi dell’assicurazione mi avrebbe fatto sentire meno in colpa? Avrei voluto chiamare Nick e sapere cosa ne pensasse. Avrei voluto correre fuori dalla porta. Volevo un punch al rum. Volevo indietro mamma e papà. Deglutii e tirai fuori il libretto degli assegni.

Mentre gli firmavo l’assegno, continuò a parlare. “Ho molti casi da seguire al momento. So già che non potrò dedicarmici per alcune settimane. Non è un’emergenza, dopotutto, i suoi genitori sono già morti.”

Rabbrividii di nuovo. Però, aveva ragione. Era un cafone, ma aveva ragione. Misi l’assegno sulla scrivania insieme al mio biglietto da visita e, con le dita, li allungai verso di lui. Scavarono una striscia di pulito fra la polvere.

“Beh, grazie, signora Connell. Mi farò vivo,” disse, afferrando l’assegno prima che potessi togliere le dita.

Mentre Ava ed io ci alzavamo per andare, disse, “Oh, un’ultima cosa. È meglio se parlo prima io con i potenziali testimoni. Interferisce con la mia investigazione quando i clienti cercano di farlo prima da soli. Quindi, per favore, mi lasci fare ciò che mi ha ingaggiato per fare e si goda la sua vacanza sulla nostra isola paradisiaca.”

“Va bene,” dissi.

E ce ne andammo, più in fretta che potei.

Dieci

Taino, St. Marcos, Isole Vergini americane

18 agosto 2012

Ava ed io camminavamo lungo il marciapiede, in silenzio come una coppia sposata, invece che due donne che si erano conosciute quindici ore prima. Camminavo davanti a lei, ma cercavo di rallentare. Dalla vita, però, non tanto per prendermela comoda.

Quando raggiungemmo la macchina, Ava mise entrambe le mani sul tettuccio. “Dimmi che hai fame e che sei pronta per un drink.” Portò l’avanbraccio davanti alla faccia, come per controllare l’ora su un orologio immaginario. “Sì, decisamente ora di pranzo.”

“Devo vedere il Promontorio di Baptiste” dissi. “Devo solo vederlo. Non penso di poter lasciare tutto nelle mani di Walker senza vederlo coi miei occhi.”

Ava si mise come in posa, con le braccia piegate in aria, tutte e dieci le dita puntate verso il cielo, muovendo la spalla a ritmo. “Beh, ovviamente devi vederlo.” Lasciò perdere la posa drammatica e si chinò verso di me. “E ti ci porterò, ma avrai un panino di pesce volante in una mano e una Red Stripe nell’altra quando arriveremo là.” Indicò una strada davanti a noi e poi la sinistra. “Guida, segui questa direzione.”

Dopo essere rientrate nella caldissima Chevrolet Malibu, guidammo fuori città lungo la ventosa costa nord, l’azzurro alla nostra destra, il verde alla nostra sinistra. Abbassammo i finestrini e lasciammo volare i capelli. Avrei avuto bisogno di un uragano per far volare via la tempesta dentro di me nell’aria di mare, ma una forte brezza marittima andava bene per ora. Passammo un porto. Il tanfo di benzina e pesci morti si fece intenso per un momento e iniziai a buttare fuori aria dal naso. Tolsi dalla bocca alcuni dei capelli che il vento aveva spostato e presi un sorso dalla bottiglia d’acqua che avevo preso dall’ufficio di Walker. La stessa bottiglia a cui avevo dato una strofinata punitiva con le salviette disinfettanti che avevo in borsa, una volta arrivata in macchina.

Dopo dieci minuti al volante, Ava indicò una capanna sulla spiaggia.

“Fermati qui,” disse.

La capanna si rivelò essere un piccolo ristorante d’asporto, con un bar e qualche sgabello da spiaggia. Non c’era nessuna insegna che potessi leggere. Ava si tolse le (mie) scarpe e scese dalla macchina, ed io la seguii. Attraversammo la spiaggia per arrivare al ristorante senza nome e fummo accolte da un paio di cani.

“Cani della spiaggia,” disse Ava. Ordinò loro di stare indietro con una voce profonda che non l’avevo mai sentita usare, e i cani obbedirono, scodinzolando.

Ava salutò il proprietario come fosse un suo vecchio amico e gli diede il nostro ordine. Lasciò il palmo della mano aperto, così tirai fuori venti dollari. Gli brillavano gli occhi, e mostrò anche l’altro palmo. Tirai fuori altri venti dollari. Annuì, così misi una banconota in ciascuna mano. Mise il denaro in un cestino sotto al bancone e tornò alla friggitrice, risucchiando le gote nello spazio una volta occupato dai denti. Niente resto. Il paradiso non è economico.

Ava saltò sopra uno degli sgabelli, affacciati sul mare. Mi unii a lei. Che bel modo di pranzare. Mi sarei potuta abituare. Appoggiai i piedi sul supporto tra le gambe dello sgabello, con i gomiti sulle ginocchia e il viso tra le mani.

“Il pranzo è sempre così caro su quest’isola?” chiesi.

“Yah mon. Se non sei baan ya.”

Ero indignata. “Quindi ti avrebbe fatto spendere meno di quanto ha chiesto a me?”

Tirò su col naso. “Lui? No, è un ladro. Ma normalmente c’è uno sconto per i locali.”

Ah beh. Non era sorprendente. Girai la testa, godendomi gli scricchiolii del collo. L’acqua mi stava chiamando a sé. “Ti dispiace se metto i piedi in acqua mentre aspettiamo?” chiesi ad Ava.

“Vai pure. Rimango qui e ti chiamo quando è pronto.”

La sabbia era tiepida, quasi calda. Appoggiavo prima i talloni, prendendomela comoda. Come mi avvicinavo al bagnasciuga, la sabbia si faceva più dura e fresca. Non esitai. Mi immersi nell’acqua, fino alle caviglie, fino alle ginocchia. Alzai di diversi centimetri il prendisole. Le onde si scontravano con le mie ginocchia, schizzandomi le cosce. Dopo che l’acqua si era infranta su di me, sentii la brezza marina che arrivò a seccarmi. Potevo vedermi i piedi, sul fondale dell’oceano. Lasciai entrare la sabbia fra le dita. Un’altra onda arrivò e mi sollevò con sé. Un banco di pesciolini argentati guizzava attorno a me, da un lato e dall’altro, a pochi centimetri dalla superficie.

“Katie,” mi chiamò Ava. “È pronto.”

Sarei potuta rimanere lì per ore. Ma uscii dall’acqua, schizzandola coi piedi negli ultimi passi prima del bagnasciuga. Immaginando mia madre, chiedendomi se avesse fatto lo stesso, se lo avesse fatto proprio qui, in questa spiaggia. Se l’uomo della capanna che mi guardava adesso da lontano l’avesse vista, e se avesse pensato che avessi un volto familiare. Sin dall’adolescenza, ci dicevano che sembravamo gemelle. Mamma alzava gli occhi al cielo e diceva: “Forse per un settantenne, da un centinaio di metri.” Si sbagliava. Era troppo giovane per morire.

Raggiunsi Ava e portammo i panini, arrotolati in un’unta carta cerata, in macchina. La Johnnycake è un pane fritto, l’equivalente caraibico dello Youtiao cinese o della Sopaipilla messicana. Tutto ciò di cui la mia cellulite aveva bisogno. Anche se in realtà la mancanza di esercizio fisico negli ultimi cinque anni, da quando avevo mollato karate, non le troppe calorie, era il mio problema. Ava reggeva anche due Red Stripes gelate fra le dita.

“Quanto manca?” chiesi.

“Dieci minuti,” disse.

Guidammo lungo la costa per un altro chilometro, poi ci addentrammo nell’entroterra, in salita. Non mi piaceva abbandonare la calma del litorale. Gli ultimi otto minuti di tragitto erano stati su strade sporche e dissestate che a cadenza regolare si trasformavano in foreste di cespugli.

“Non è un posto da esplorare da soli,” disse Ava, indicando una delle traverse. “Troppo isolato.”

“Però è bellissimo quassù,” dissi. Di fatto, ero scioccata da quanto fosse bello. Diverso dalla costa, ovviamente, ma diverso in senso buono, in modo perfetto. Gli alberi erano più alti e si intrecciavano sopra la strada, creando un tetto sopra di noi e smorzando il rumore dell’infrangersi delle onde sulla sabbia e sugli scogli, a un solo chilometro di distanza. Intravidi delle piume colorate fra gli alberi.

“È un pappagallo?”

“Yah mon. Vivono quassù.”

Al contrario di Ava, non credevo mi sarei mai abituata a questo tipo di flora e fauna. Ne venni assorbita: orchidee più belle di qualsiasi fiore cittadino, con venature fucsia e rosa, e Flamboyant da un arancione fiammeggiante, imponenti e maestosi, che mi ricordavano le mimose di casa.

“Gira qui,” disse Ava, così curvai velocemente, in direzione all’oceano, anche se a centinaia di metri più in alto.

Guidammo ancora mezzo chilometro, per poi uscire dalla boscaglia. Il cambio di scenario fu improvviso e spazzò via tutta la calma della foresta. Anche il mio umore cambiò. Ma chi voglio prendere in giro? Le mie emozioni erano grezze e il mio umore oscillava da su a giù più velocemente di Sarah Brightman nel Fantasma dell’Opera.

“Puoi parcheggiare dove vuoi,” disse.

Accostai l’auto e parcheggiai, spegnendo il motore e trattenendo il respiro.

Venire nel posto in cui i miei genitori erano morti era come entrare nelle chiese colorate della Navidad Valley, in Texas. Avevo visitato La Grange mentre ero alle medie, con la mia famiglia. In quelle antiche chiese di legno, sapevo di essere davanti a qualcosa di sacro e potente e che, sotto quei tetti, sofferenza e venerazione andavano di pari passo, proprio come era successo all’incontrarsi della foresta e degli scogli. Dove la vita incontrava la morte.

Ava era già scesa, di nuovo a piedi nudi, e stava procedendo verso la salita. Mi incamminai dietro di lei. Volevo sentire di nuovo i miei genitori, far loro sapere che ero venuta qui, che per me erano importanti. Che anche se non fossi riuscita a fare altro in questo viaggio, almeno avrei detto loro addio.

“Vi voglio bene, mamma e papà,” sussurrai.

Ava raggiunse la vetta della collina e in tre passi era già sparita, accelerai. Arrivando alla cima, mi mancò l’aria e feci un passo indietro per l’improvvisa vertigine. Il terreno scendeva per circa trenta metri, e poi semplicemente svaniva. All’orizzonte, solo il cielo, che si ricongiungeva in lontananza con il Mar dei Caraibi.

“Non sono i primi a cadere da questo promontorio,” disse Ava, con tono solenne.

“Oh mio Dio,” dissi, non riuscendo a pensare ad altro. Affondai nell’erba. Mi accovacciai in una collinetta, cercando di schiarirmi le idee. Perché? Perché erano venuti qui?

“Questo è come un ritrovo per gli innamorati, nel suo modo desolato e inaccessibile. Molte delle ragazze che conosco hanno perso la verginità qui. Alcuni si sono anche buttati per amore. Ha sempre avuto un fascino romantico a cui le persone non riescono a resistere.”

Rimuginai sulle sue parole. Era possibile che i miei genitori avessero cercato questo posto? Un’ultima avventura per concludere la vacanza? Li immaginai mano nella mano, testa contro testa. Speravo fosse così. Qualcosa dentro di me non ci credeva, ma Dio, se lo speravo.

“Addio, mamma e papà,” sussurrai. Chiusi gli occhi di nuovo, contai fino a cento, cercando di non pensare a nulla, e offrii il mio cuore al cielo.

Undici

Promontorio di Baptiste, St. Marcos, Isole Vergini americane

18 agosto 2012

Ce ne andammo dal Promontorio di Baptiste, rientrando nella foresta tropicale, mezz’ora dopo. Il mio umore era in fase di ripresa, tanto che la bellezza dei fiori mi estasiò nuovamente. Sembravano adesso come un tributo ai miei genitori. Un allestimento floreale. La foresta tropicale non era solo un toccasana per i miei occhi, mi faceva sentire più vicina a mamma e papà. Odiavo dovermene allontanare.

“Sai, un amico offre un tour guidato della foresta. Organizza una navetta proprio dal Peacock Flower. Dovresti andare con lui domani. Lo chiamo per dirgli che ti unisci.”

“Un’escursione? Non sono un’escursionista. Sono una brava guidatrice, però. C’è un tour in macchina?”

“No. È un botanico, e adesso chiudi il becco e vai con lui. Ti cambia la vita.”

L’intero viaggio mi stava già cambiando la vita, ed ero arrivata appena ventiquattro ore prima.

Cedetti ad un impeto di sincerità. “Sono qui per questo, sai. Per cambiare la mia vita. O, meglio, dovrei essere qui per questo, il più possibile, in una settimana. Mio fratello ha insistito. Pensa che beva troppo. Sto cercando di ignorare i sintomi per andare dritta alla fonte. Non è l’alcol in sé. Sono i miei genitori. Le mie cattive scelte. Lo struggermi per il ragazzo sbagliato. Etcetera etcetera.” Cercai di sviare il discorso, imbarazzata dalle parole che non potevo più rimangiarmi.

La mia confessione non turbò Ava. “Quasi tutti stanno scappando da qualcosa quando vengono qui. Spendono la maggior parte del tempo cercando di capire se stanno cercando di scappare dalla cosa giusta, o se la cosa sbagliata li ha seguiti qui.”

Era una frase profonda. Era stata una giornata abbastanza profonda, così rimasi in silenzio.

Ma non Ava. “Non hai detto che tuo padre era un alcolista? Penso di aver letto che è una questione genetica,” disse.

“Sì. Forse.” Ma io non ero un’alcolista.

“Molte persone che si trasferiscono qui diventano alcolisti,” disse. “Non è un posto facile per smettere di bere.”

“Me ne sono accorta.” Almeno non si era concentrata sulla parte del ragazzo sbagliato, ma ero pronta a lasciar perdere del tutto l’argomento dei problemi di Katie. Eravamo quasi arrivate in città. “Dove ti porto?” chiesi.

“Portami a casa, così posso cambiarmi. Ho un appuntamento più tardi, ma sono in cerca di compagnia fino ad allora.”

“Non canti stasera?” chiesi.

“Non ufficialmente.”

Qualunque cosa significasse.

Accostammo a casa di Ava e mi invitò dentro. Era piccola, ma pulita. Carina, la maggior parte dei mobili erano di vimini, con vaporosi cuscini bianchi. Gironzolai, guardando le sue foto, fino a che non uscì dalla camera indossando un vestito da bambolina color verde acqua con una scollatura a goccia. Indossava anche dei sandali bianchi dove tornava il motivo a goccia, sulla parte superiore in pelle.

“È chi penso che sia?” chiesi, indicando la foto di una giovane Ava con un bellissimo e famoso attore.

“Sì, sono andata all’Università di New York con lui. Non dire a nessuno che te l’ho detto, ma è gay. Tutti i più belli sono gay.” Infilò un tubetto di lucidalabbra nella borsetta bianca. “Pronta?”

“Dipende dalla cosa per cui dovrei essere pronta ma, in generale, sono pronta ad andare.”

“Sembri un avvocato.”

“In realtà, sono un avvocato.”

“Oh, questo spiega molte cose,” disse in un tono di voce che implicava ci fosse molto da spigare.

“Sì, sì, sì. Ma per cosa dovrei essere pronta?”

“Per cantare.”

Scoppiai a ridere. “Così, a caso. E no, non sono pronta.”

“Va bene. Allora andiamo al casinò. Hanno un open bar di cibo e bevande.”

Nessuna obiezione.

Dopo esserci fermate al mio hotel più a lungo del previsto, dovendo io rispondere a delle e-mail di lavoro, arrivammo al Casinò Porcus Marinus. Il casinò si trovava sulla costa sud dell’isola, vicino all’omonimo resort e a pochi passi da una spiaggia di sabbia bianca. La luna piena si rifletteva sulla superficie increspata dell’acqua. Si trattava di un enorme edificio simil-bunker, accompagnato dal più grande parcheggio dell’isola. Salimmo gli scalini per il bunker e passammo sotto ad un grande cartellone sulla porta che leggeva “Serata Karaoke”.

“Serata Karaoke?” chiesi ad Ava, con sguardo sospetto.

“È il destino,” rispose.

Entrammo, e io tossii immediatamente. Una nube di fumo aleggiava sul tetto del casinò. Per la prima volta da quando ero arrivata a St. Marcos, avevo la sensazione di essere in un posto senza tempo. Nessuna finestra. Rumori continui: il rumore bianco delle campanelle delle slot machine e i boati che erompevano dai tavoli da gioco come a comando.

E un altro rumore. In sottofondo, riuscivo a distinguere solo la voce di un DJ che cercava di convincere le persone a prendere parte al karaoke. “Chi sarà il prossimo? Sarà lei, bella signora? O lei, signore, là con la camicia rubata a Jimmy Buffett?”