скачать книгу бесплатно
Per la maggior parte dei Sognatori questo era un tipo di Sogno facile da realizzare; più facile che ingaggiare un Padrone dei Sogni, perché esisteva una relazione diretta uno a uno tra Sognatore e spettatore. Lo spettatore vedeva solo ciò che vedeva il Sognatore, e il Sognatore non doveva preoccuparsi di dover mantenere in piedi porzioni di mondo non rappresentate nella scena.
C’era lo svantaggio che con due Sognatori operanti nello stesso Sogno si potevano verificare incidenti. Come l’esempio del terrorista nel corridoio, che Wayne e Janet avevano visualizzato in modo diverso: il risultato era stata un’immagine confusa e incerta almeno finché Janet non aveva ceduto il controllo del personaggio a Wayne. Entrambi i Sognatori avevano la stessa capacità di partecipare all’azione nel Sogno, dunque la coordinazione tra di loro era essenziale.
Wayne era lieto che i Sogni non fossero a getto continuo. Gli studi avevano dimostrato che i Sogni erano efficaci soprattutto se frammentati in scene da quattordici minuti, con intervalli di altri quattordici. Sognare era un’esperienza talmente intensa che il corpo aveva bisogno di tempo per rilassarsi da una sessione prima di entrare in un’altra. Gli sceneggiatori avevano imparato a regolare la lunghezza delle scene di conseguenza; e tutti i Sognatori consideravano gli intervalli una mano santa perché così avevano il tempo di riprendersi dalla scena precedente, sgranchirsi i muscoli, ricordare a loro stessi cosa stessero facendo, discutere i problemi tecnici con l’operatore di turno e, nel caso di due o più Sognatori ausiliari che lavoravano in tandem, avere la possibilità di rivedere gli errori e migliorare la coordinazione.
Wayne respirò profondamente e poi lasciò andare il fiato mentre si sistemava la Calotta Onirica sul capo. Da quel che aveva detto Ernie White c’erano ventiduemila Dormienti sintonizzati su quel Sogno. Non erano poi tanti, non in una città grande come Los Angeles. Sicuramente perché lui era una nuova star di una stazioncina locale: ci voleva tempo per accumulare una cerchia decente di fan. Janet era una Sognatrice migliore di lui, questo lo sapeva; una tra gli artisti più consolidati della Dramatic Dreams, con ammiratori tutti suoi. La sua presenza in questa sceneggiatura avrebbe dovuto apportare un bel po’ di spettatrici come rinforzo sulla quantità di pubblico sintonizzato, forse persino coinvolgere nuovi spettatori nel suo stile. Invece sembrava averla trascinata ai suoi minimi.
Accidenti lo so che sono bravo! Pensò con risentimento. Forse non sono un altro Vince Rondel, ma posso fare meglio di così. Come faccio a tirarmi fuori da questa melma?
Sul soffitto lampeggiò una luce blu, l’avviso che mancavano trenta secondi. Wayne si distese sul lettuccio, si mise comodo e iniziò la routine di autoipnosi che tutti i Sognatori imparavano per entrare in uno stato di trance e ottenere una proiezione ottimale. Forzò la sua mente a eliminare tutti i pensieri estranei. Era prima di tutto un professionista. Aveva una storia da raccontare. Non si portava problemi e pregiudizi con sé nel Sogno; quello era il modo più sicuro per farsi licenziare. Durante il Sogno, non gli importava se dall’altra parte dei fili c’era una sola persona oppure un milione. Gli indici erano un problema della vita reale; per qualsiasi Sognatore coscienzioso, contavano esclusivamente i sogni stessi.
CAPITOLO 2
Il cubicolo svanì dalla sua mente, sostituito pian piano dal corridoio che aveva lasciato al termine dell’ultimo atto. Janet gli era di nuovo accanto ed entrambi correvano la loro disperata gara contro il tempo. Ricordò a se stesso – e agli spettatori – che lui e Janet erano una coppia di esperti agenti governativi a caccia di terroristi urbani. La Dramatic Dreams non intendeva essere accusata di utilizzare Onirica per fare propaganda contro le convinzioni più profonde di chicchessìa, dunque la filosofia degli avversari era mantenuta volutamente vaga, anche se di solito optava per l’omicidio di innocenti e per la distruzione di quei valori sociali che tutti invece avevano a cuore.
Dai terroristi che avevano catturato e interrogato, Wayne e Janet avevano saputo che i componenti della banda avevano costruito una rudimentale bomba atomica ed erano pronti a farla detonare a Los Angeles se non fossero state soddisfatte le impossibili richieste che avanzavano. Non c’era tempo di chiamare la Polizia o gli artificieri; era un lavoro da portare a termine immediatamente e Wayne e Janet erano i soli in grado di salvare milioni di vite.
I terroristi, però, non avrebbero ceduto senza combattere. Avevano posizionato nel corridoio una squadra suicida scelta tra le loro fila per sorvegliare il loro strumento di distruzione. Quegli uomini sapevano che, se la bomba fosse scoppiata, sarebbero morti: ed erano preparati a sacrificare le loro vite per la causa. Avrebbero combattuto come indemoniati per proteggere la bomba; non avevano niente altro per cui vivere e quindi non si sarebbero risparmiati in nulla.
Appena giunti nel corridoio dove era stata piazzata la bomba, Wayne e Janet afferrarono immediatamente la situazione. C’erano venti metri di pericolo a separarli dal loro obiettivo. Nel momento in cui apparvero nel campo visivo dei tre uomini di guardia del corridoio, fu allerta immediato. I tre, che già avevano i fucili spianati e puntati per una simile evenienza, con gesto spontaneo spararono immediatamente agli agenti governativi.
Wayne sentì l’aria calda del raggio laser del fucile di un terrorista sfrigolargli a pochissimi millimetri dalla guancia per poi perforare superficialmente l’intonaco del muro. Sfruttò il tempo guadagnato con lo scatto e con una spinta si gettò pancia a terra, col fucile in mano, scivolando per poi fermarsi sul pavimento liscio; puntellò i gomiti al suolo, mirò rapidamente, ma con cura; fece fuoco. L’avversario che gli aveva sparato urlò dal dolore mentre il raggio ustionante della pistola di Wayne gli vaporizzava il tessuto della spalla destra.
Dopo Wayne era entrata in azione anche Janet. Entrando nel disimpegno era rimasta un passo dietro di lui, allertata in tempo dal rumore degli spari. Gettandosi d’un lato finì in ginocchio con il fianco sinistro al sicuro, contro il muro. Anche lei aveva il fucile in mano e aprì il fuoco sul nemico.
Avvantaggiandosi dalla copertura, lui strisciò come un serpente per dodici metri lungo il corridoio e arrivò al pulsante che controllava il cancello di metallo che ostruiva la via per proseguire. Attorno a lui un susseguirsi di colpi laser, ma li ignorò, concentrandosi esclusivamente sul pulsante.
Per ottenere un effetto drammatico, Wayne rallentò un pochino il suo senso del tempo. Come tutto il Sogno, anche il corso del tempo era controllato dai Sognatori. Wayne poteva allungare un istante fino all’eternità per far accadere tutto al rallentatore, oppure poteva comprimere un certo numero di avvenimenti in un singolo istante. Allungare il flusso del tempo era un effetto artistico per accrescere la suspence nel pubblico, facendo sembrare più lenta la sua avanzata e ingigantendo la minaccia dei laser dei terroristi. Tutti gli uomini che si identificavano con lui nel Sogno si sarebbero sforzati per raggiungere quel fatidico pulsante, eppure avrebbero dovuto agire nella vischiosità che Wayne imponeva. Naturalmente aveva discusso il cambio del flusso del tempo con Janet e anche lei aveva rallentato la sua percezione del tempo; altrimenti per Wayne i movimenti di lei non sarebbero stati altro che una rapida azione sfocata e così sarebbe stato per tutti gli spettatori di sesso maschile che vivevano l’azione attraverso i suoi occhi.
Finalmente Wayne raggiunse il pulsante. Lo premette e, obbediente, il cancello metallico si avvolse sul soffitto. Contemporaneamente Wayne tornò al flusso di tempo normale. Ora sembrava avere la strada spianata per potersi impossessare della bomba. Ma proprio mentre veniva sommerso da un’ondata di trionfo fu colpito al polpaccio desto da un raggio laser avversario.
Era un effetto alquanto complicato e Wayne si era sentito lusingato quando il direttivo della stazione trasmittente gli aveva permesso di realizzarlo. Tutta l’industria aveva adottato regole molto severe riguardo al dolore percepito nel corso dei Sogni. Sensazioni del genere avrebbero potuto avere effetti traumatici su un utente tranquillamente addormentato nel letto di casa sua. Agli inizi dell’attività i Sognatori avevano perduto diverse battaglie legali contro accuse di danni mentali e fisici causati da traumi. Ecco perché ora ci andavano coi piedi di piombo, toccando l’argomento stress nei Sogni con estrema cautela.
Correndo, durante un Sogno, Wayne non aveva mai il fiatone; anche in imprese estenuanti non si stancava mai, mai aveva uno stiramento muscolare; ora che il copione prevedeva che venisse ferito, non poteva soffrire alcun vero dolore. Se si fosse lasciato sfuggire una cosa del genere attraverso le connessioni sarebbe stato licenziato immediatamente.
Invece doveva gestirsi la ferita a livello mentale. Invece di trasmettere la lacerante agonia causata da una vera bruciatura di laser doveva inviare il pensiero freddo e razionale della gamba colpita dal fuoco nemico e del dolore che provava. L’arto non sarebbe riuscito a sopportare tutto il suo peso e avrebbe mostrato visivamente tutti gli effetti della ferita; l’unico ingrediente mancante sarebbe stato proprio il dolore. Portare a termine con successo quella manovra significava conferire al Sogno un tocco da esperto; Wayne era contento dell’occasione, perché poteva dimostrare le proprie capacità.
Urlò il suo “dolore” proprio mentre il laser di Janet sbaragliava l’ultimo terrorista rimasto. Wayne, però, non poteva permettersi di subire rallentamenti. Mancavano pochi minuti all’esplosione programmata della bomba ed era lui, non Janet, l’esperto artificiere. Ora il cancello era sollevato e sembrava non ci fosse nulla che gli impedisse di raggiungere l’obiettivo. Con la gamba in quelle condizioni non riusciva a stare in piedi: ma con la forza della disperazione iniziò a trascinarsi sul pavimento con i gomiti per arrivare alla fine del corridoio.
I due terroristi sembrarono apparire dal nulla accanto al cancello. Fino a quel momento erano rimasti nascosti senza abbandonare le proprie postazioni, sperando che i loro compagni riuscissero a gestire la minaccia da soli. Rappresentavano l’ultima linea difensiva e indubbiamente erano i migliori uomini di cui la banda disponesse.
Wayne sentì dietro di sé il laser di Janet terminare la carica e lei mormorare imprecazioni soffocate; ma rifiutando di arrendersi e con una precisione da far invidia a un battitore di serie A, la donna lanciò l’arma dritta sulla mano armata di uno degli avversari rimasti. Ora toccò a lei dover allungare il senso del tempo; il fucile si librò al rallentatore in aria, verso il suo obiettivo. L’avversario avrebbe avuto tempo di sparare prima di farsi colpire? No! All’ultimissimo secondo Janet accelerò di nuovo il tempo. La sua arma colpì quella del terrorista con forza sufficiente a scaraventarla lontano.
Anche l’altro avversario era armato: proprio come Wayne, che aveva avuto tempo sufficiente per mirare al secondo uomo grazie alla manovra diversiva di Janet. Wayne aprì il fuoco, ma nel frattempo l’altro si mosse appena e il colpo lo raggiunse solo di striscio ad una mano senza mettere veramente fuori combattimento il terrorista ma provocandogli dolore sufficiente a fargli cadere l’arma per scuotere la mano e alleviare la sensazione di bruciore. Che fosse un avversario a provare dolore nel Sogno andava bene: era solo una figura fantasma creata da Wayne e Janet, e nessuno spettatore si sarebbe identificato nelle sue sensazioni.
Wayne si preparò a colpire ancora, ma si accorse che anche lui era scarico. Disgustato gettò via l’arma e ricominciò a strisciare lungo il corridoio. Tra lui e la bomba c’erano otto metri e due avversari con istinti suicidi, ma non poteva far altro che strisciare e sperare che fosse Janet a occuparsi degli avversari.
Il terrorista, perduto il fucile grazie all’accurato colpo di Janet, si guardò attorno per cercare la sua arma ma ad una prima, frettolosa ricerca attorno a sé non riuscì a trovarla. Rendendosi conto che era più importante fermare la missione di Wayne, l’uomo interruppe la perlustrazione e si mosse verso l’agente che avanzava sul pavimento. A quel punto arrivò Janet a salvarlo di nuovo. Balzò in aria con il suo corpo delizioso – modificato nel Sogno perché fosse più sensuale che nella realtà, con le gambe svettanti un poco più di quanto ci si potesse aspettare nel mondo reale - attaccò il robusto uomo e lo stese a terra. Colpendolo, fece roteare lateralmente le gambe e si trovò a precipitare sull’altro avversario che si dirigeva verso Wayne.
Wayne non ebbe l’opportunità di godersi la rissa; era troppo impegnato a raggiungere la bomba prima che esplodesse. Avendo letto il copione sapeva esattamente cosa stava accadendo: Janet era impegnata in uno scontro tutto personale, anche se il risultato era inequivocabile. Le donne che si identificavano in lei si sarebbero divertite parecchio prima di riuscire a mettere a tappeto i due avversari. Ma nel frattempo lui aveva un’atomica da disinnescare.
Mantenne un senso del tempo placido e piacevole; non c’era scopo di velocizzare l’azione e un po’ di suspence in più non avrebbe fatto male a nessuno. Con la coda dell’occhio teneva conto attentamente dei progressi di Janet: era la sua scena madre e lui non aveva il diritto di rovinargliela arrivando alla bomba troppo presto, prima che lei mettesse bene al tappeto tutti gli avversari.
La tempistica fu perfetta; raggiunse l’obiettivo proprio mentre l’ultimo terrorista cadeva a terra incosciente. Janet non ansimava neppure.
Lo guardò chiedendo: “Quanto tempo?”
Wayne guardò il timer su un fianco della scatola. “Tre minuti” rispose. Con cautela esagerata si poggiò al muro, tirò fuori di tasca la scatola degli attrezzi miniaturizzata e iniziò a lavorare.
Con calma, senza permettersi fretta, svitò i quattro bulloni che tenevano fermo il timer nell’alloggiamento. E poi lentamente, molto lentamente, tirò fuori il dispositivo di controllo del tempo fuori dalla scatola contenente la bomba e lo mise con cautela in terra accanto a sé. Si permise alcune gocce di sudore sulla fronte come tocco artistico; le tirò via pulendosi poi la mano sui pantaloni. Il timer segnava due minuti.
Il dispositivo a tempo era collegato alla bomba vera e propria da un groviglio di fili colorati – un ingarbuglio tale che sicuramente un principiante si sarebbe confuso; ma Wayne aveva instillato nei suoi spettatori la fiducia di sapere ciò che stava facendo. “Devo disconnetterli con una sequenza particolare” disse a Janet, informando di conseguenza anche il suo pubblico. “Se faccio uno sbaglio la bomba esplode immediatamente.” Studiò l’ordine dei fili per alcuni lunghi secondi. “Qui non sfugge nulla” disse alla fine.
Tirando fuori un cacciavite elettrico dal piccolo kit iniziò ad allentare alcuni fili dal corpo del timer. Si guardò le dita che diventarono più affusolate e agili – un altro effetto artistico per far apparire le mani più abili. Separò l’ultimo filo dal timer quando non mancava che un minuto: ma la bomba restò innescata. La guardò incredulo per un momento e poi disse: “Ci deve essere un dispositivo ausiliario”.
Ora il tempo era prezioso. Fece sentire meglio il ticchettio della bomba, tanto da farlo quasi echeggiare nello corridoio stretto. Controllò in fretta la superficie del dispositivo cercando un secondo fusibile. “Devono averlo messo da qualche parte a portata di mano” disse alla sua partner. “Per poterlo disinnescare loro stessi se avessimo acconsentito alle loro richieste. E’ solo questione di…. ah, eccolo qui.” Indicò una protuberanza su un fianco della bomba.
Quaranta secondi. Il timer era attaccato con una sola vite. Riprendendo in mano il cacciavite elettrico lo allentò. Venti secondi. Cauto, usò le lunghe dita sottili per staccare il timer dalle connessioni e esaminarlo. C’era soltanto un gruppo di fili.
Dieci secondi. Non c’era tempo per fare i delicati. Wayne lasciò il cacciavite e prese la tronchese e con due movimenti precisi recise la coppia di fili. Il forte ticchettìo si arrestò di colpo a cinque secondi dalla detonazione.
Si fletté contro il muro con un gran sospiro di sollievo. Janet era seduta accanto a lui e anche sul suo viso il sollievo era evidente. Tese le braccia verso di lui e lo baciò lievemente sulle labbra; lo sguardo nei suoi occhi prometteva altre ricompense a seguire.
Poi si alzò e aiutò anche lui a rimettersi in piedi. Wayne le mise un braccio sulle spalle e si appoggiò a lei per non dover sforzare la gamba “ferita”. La posizione costringeva il suo corpo a restare a distanza ravvicinata dalla donna e fece godere agli spettatori – e se stesso – della sensazione.
“E vediamo cosa ha da dire ora il Capo per come gestiamo le situazioni esplosive” disse sorridendo Janet riferendosi a una frase pronunciata all’inizio del Sogno. Anche Wayne sorrise e insieme zoppicarono per il corridoio.
Attorno a loro le pareti iniziarono a sbiadire, annerendosi. Il Sogno era finito; era tempo di tornare alla vita reale.
CAPITOLO 3
Mentre il biancore inerte del cubicolo gli si materializzava di nuovo attorno riprendendo vita, sentì la Calotta Onirica bruciare e pizzicare sul cranio. Wayne lotto contro l’impulso di strapparla via; invece la alzò delicatamente dalla testa e la poggiò sul lettino accanto a sé, sedendosi per controllare le letture isometriche. A volte mi chiedo come faccio a sopportarla pensò, sapendo allo stesso tempo che senza di lei avrebbe odiato vivere. Come Sognatore era assuefatto a quella Calotta – emozionalmente se non fisicamente – come un drogato può assuefarsi all’eroina. C’era una sensazione speciale che ben conoscevano tutti i Sognatori; sognare faceva parte di loro; era per questo che era entrato in Onirica.
Lo stomaco gli brontolava pure; così, giusto per informarlo di quanto avesse fame. Aveva mangiato prima di iniziare il Sogno, ma non pesante; avere la pancia troppo piena distoglieva dalla prestazione. Sognare assorbiva molto e anche se la stazione amplificava i suoi segnali per poter raggiungere le migliaia di spettatori sintonizzati, occorreva comunque proiettare nel ruolo gran parte di se stessi. Qualsiasi buon attore conosceva la sensazione di immergersi completamente nel lavoro e risalire da quell’esperienza prosciugato, come per aver trascorso un’intera giornata alle prese con un faticoso lavoro manuale. Di solito Wayne arrivava alla fine di un Sogno con una gran fame; si chiedeva costantemente come potesse, una persona come Vince Rondel, farlo sembrare un lavoro sempre privo di sforzi.
Ernie White bussò al telaio della porta della cabina e esclamò: “Chiuso, Wayne.” Il Sogno era ufficialmente finito e non c’erano problemi tecnici di cui preoccuparsi. Se fosse stata una delle reti più importanti, sarebbero stati tutti pronti a iniziare un altro Sogno dopo l’intervallo minimo di quattordici minuti, semplicemente introducendo un altro Sognatore per iniziare una nuova storia. Ma la Dramatic Dreams era soltanto una stazioncina locale di Los Angeles; non avevano personale a sufficienza per mantenersi operativa fino al mattino. A volte erano fortunati e riuscivano a ottimizzare le risorse per riuscire a far qualcosa ogni notte. Si sarebbero potuti utilizzare Wayne e Janet separatamente, invece che insieme nel medesimo Sogno, ma questo avrebbe comunque abbassato l’ascolto per via del diverso fattore di identificazione tra uomini e donne. Bill DeLong, il coordinatore dei programmi, aveva puntato a rafforzare gli indici utilizzando i due Sognatori insieme. Una scommessa che, apparentemente, aveva perduto.
Gli spettatori a casa non dovevano svegliarsi per regolare le impostazioni della loro Calotta Onirica e cambiare stazione durante la notte. Ogni stazione pubblicava delle sinopsi e i tempi dei propri Sogni per la serata, sia nei quotidiani che sul Web; lo spettatore poteva programmare la selezione e i programmi desiderati da casa sua, così da poter cambiare canale in automatico senza doversi svegliare successivamente. Era esattamente ciò che stavano facendo in quel momento a Los Angeles esattamente ventiduemila Calotte Oniriche. Alcune si spegnevano completamente, la maggior parte però si sarebbe sintonizzata sul programma di un’altra stazione.
Allungandosi fuori dalla cabina Wayne si trovò faccia a faccia con un uomo basso e pelato, con crepe di preoccupazione scolpite indelebilmente sulla fronte. “E’ andato tutto bene?” domandò Mort Schulberg, il Direttore della stazione. “Ernie mi ha detto che nel penultimo atto abbiamo fatto una piccola papera...”
“‘Piccola’ è la parola giusta” rispose Wayne irritato. Guardò White ma l’ingegnere finse di giocare con il pannello comandi e non se ne accorse. “Non devi prendertela così.”
“Certo, facile da dire per te” Schulberg camminava per l’ufficio come un giocattolo in tilt. “Per te è solo un lavoro. Non hai mica il fiato sul collo della Commissione Federale per le Comunicazioni, tu. Quel tipo, Forsch, sarà qui dopodomani per controllare quella cosa di Spiegelman. Quand’è che inizierai a preoccuparti? Dopo che ti avranno tolto i permessi?”
“E’ stato solo un erroretto” ripeté Wayne. Sembrava che, ancora una volta, lo paragonassero, anche se implicitamente, alla perfezione di Vince Rondel. Rondel era un Padrone dei Sogni. La tempistica di Rondel era perfetta. Rondel non faceva mai errori. Certo —Rondel era bravo e Wayne era l’ultimo arrivato alla stazione, oltretutto con un passato da ripulire. Ma questo non dava loro il diritto di criticare ogni piccola cavolata che faceva.
“So di non essere Vince Rondel, ma qui alla Dreaming faccio un buon lavoro” continuò, mentre la voce gli saliva di volume. “Io e Janet abbiamo avuto bisogno di meno coordinazione e avremmo potuto fare anche di meglio avendo il copione con un giorno o due d’anticipo, per potergli dare una letta.”
“Noi lavoriamo bene insieme, Mort” disse Janet emergendo dalla sua cabina. Era rimasta ad ascoltare la discussione ed il tono freddo interruppe a metà la sfuriata di Wayne. Lui capì che lei stava cercando di placare la situazione e le fu grato. “L’ultimo atto è filato liscio come un treno.”
Schulberg si era preparato per rispondere a Wayne urlando a sua volta ma ora si rabbonì, voltandosi verso la donna. Janet sapeva come risultare graziosa e femminile, e riusciva a tirar fuori da Schulberg i suoi istinti più paterni. “Sicura?”
“Volevi forse che fermassi tutto e chiedessi al pubblico?” disse Janet facendo il verso all’accento di Schulberg.
Wayne vide Ernie White ridere nella cabina di regia, anche se dava loro le spalle e non avrebbe dovuto ascoltare la conversazione. Rosso in viso, ma senza rancore, Schulberg replicò: “Certo, andate avanti, ridete pure di me tutti quanti. Ma che sono io, il tipo divertente che vi firma la busta paga. Vorrei proprio vedere se riderete quando la Commissione Comunicazioni ci farà chiudere e voi la busta paga non la prenderete più. Allora vedrete com’è l’isteria da disoccupazione.”
Lasciò la stanza scuotendo la testa e percorse il corridoio fino all’ufficio, mormorando sufficientemente forte perché potessero sentirlo: “Se non ci fossi io, qui dentro, a gestire le cose, riderebbero fino a perdere il lavoro…”
Wayne rivolse un debole sorriso a Janet. “Grazie per avermi disinnescato prima. Mi stavo facendo prendere un po’ troppo.”
“Capita a tutti.” Janet scosse le spalle. “Specialmente appena usciti da un Sogno—siamo tutti un po’ sensibili. Però non dovresti farti sopraffare da Mort. Non ce l’aveva con te, è soltanto uno che si preoccupa per professione.”
“Lo so ma mi sentivo l’ultimo arrivato del quartiere.”
“E allora stagli fuori dai piedi fino a che non è finita questa storia della Commissione Comunicazioni. E’ questo che lo rivolta sottosopra, non lo critico se si preoccupa. Starà meglio quando sarà tutto finito.”
Wayne annuì. In ufficio, quel che veniva definito l’affare Spiegelman e le indagini della Commissione Comunicazioni che ne erano seguite erano ancora l’argomento principale delle conversazioni, anche a un mese di distanza. In un certo senso Wayne doveva esser contento: era stato assunto proprio grazie a Spiegelman. Ma forse proprio per quel motivo ad ogni suo gesto veniva guardato con sospetto da chiunque gli fosse accanto.
Elliott Spiegelman era stato un Sognatore impiegato alla stazione; ancor peggio, era il genero di Mort Schulberg. Un mese prima circa Spiegelman aveva recitato in un Sogno che doveva essere una storia poliziesca di serie ambientata negli anni ‘30, nello stile del detective Marlowe. La sceneggiatura era abbastanza innocua ed era stata approvata sia da Bill DeLong che dalla Sezione Legale—ma qualsiasi Sognatore sapeva che, per quanto la sceneggiatura potesse essere rigida, chi recitava aveva un’enorme libertà d’azione da ricavarne.
Apparentemente era proprio ciò che aveva fatto Spiegelman. Sin dal giorno successivo erano iniziate ad arrivare alla stazione telefonate e lettere che accusavano Spiegelman di aver utilizzato il Sogno per esporre le proprie teorie economiche e politiche, evidentemente di centrosinistra. Spiegelman aveva aggiunto benzina sul fuoco della controversia, dichiarando a un giornalista che negli anni ’30 i movimenti socialisti erano assai popolari e che lui si era solo limitato a rappresentare accuratamente quel periodo storico. Questo aveva sollecitato ulteriori lettere e telefonate.
Obiettivamente non c’era un modo imparziale di determinare cosa era successo perché era impossibile registrare un Sogno e visionarlo in un secondo momento. Ogni Sogno era realizzato dal vivo e svaniva nella memoria alla chiusura. Diventò uno scontro tra la parola di Spiegelman e quella di chi recriminava. A quel punto era entrata in scena la Commissione Federale Comunicazioni, sempre sensibile al tema della manipolazione politica dei media.
Spiegelman era stato sospeso immediatamente, in attesa di una revisione del caso. Per un po’ era sembrato che sarebbero stati sospesi pure Schulberg, Bill DeLong e lo sceneggiatore; alcuni tra i cittadini più inviperiti avevano chiesto che fosse revocata l’intera licenza dello Studio. La Commissione Comunicazioni aveva deciso di non fare un passo tanto lungo, ma aveva nominato un proprio uomo, Gerald Forsh, critico navigato dell’industria Onirica, perché indagasse sull’incidente.
Quando Wayne era stato assunto per sostituire Elliott Spiegelman lo Studio era in pieno fervore. L’industria in generale, e la Dramatic Dreams in particolare, temevano che il caso potesse avere ripercussioni serie. Per attenuare le paure peggiori, le indagini di Forsch erano avanzate con deliberata lentezza. Lo stesso Forsch sarebbe arrivato di lì a un paio di giorni per sentire la versione dei fatti fornita dallo Studio. Dietro consiglio del suo avvocato, Spiegelman non rilasciava dichiarazioni pubbliche. Nell’industria Onirica era opinione unanime che Spiegelman sarebbe stato gettato in pasto ai lupi come vittima sacrificale. Gli avrebbero addossato tutte le colpe; sarebbe stato bandito per sempre da Onirica e la Dramatic Dreams ne sarebbe uscita con un semplice rimprovero duro. Ma il povero Mort Schulberg non l’avrebbe avuta vinta in nessun caso; anche se avesse salvato la sua attività il genero sarebbe stato disonorato e sbattuto fuori dalla professione per sempre. Sì, non c’era da stupirsi che Schulberg fosse abbattuto dall’affare Spiegelman.
Eppure la persona per cui Wayne si sentiva veramente dispiaciuto era Elliott Spiegelman. I Sognatori diventavano professionisti perché avevano delle visioni interne che dovevano esprimere. Nei tempi andati avrebbero potuto essere sacerdoti o scrittori, artisti, attori o insoddisfatti —quelli che vedevano le cose in modo diverso e cercavano di impregnare gli altri con le loro visioni. Nel lungo termine Sognare era un modo di compiere perfettamente quella missione comunicativa. Una volta assaporata quella perfezione, quale Sognatore avrebbe potuto accontentarsi di meno? La vita di Spiegelman comunque non era finita; c’erano altri modi in cui poter esprimere sensazioni ed emozioni. Ma nulla gli avrebbe donato la gloria e il potere che il Sogno portava con sé. Un Sognatore non più in grado di sognare era meno di un intero: il resto della sua vita avrebbe risuonato a vuoto.
Wayne rabbrividì e quel movimento involontario ricondusse i suoi pensieri al presente. Janet stava per uscire dall’ambiente, probabilmente per andare nel proprio ufficio. “Ehi” la chiamò Wayne mentre usciva. “Non so tu, ma io ho una fame da lupo. Perché non ce ne andiamo di sotto a vedere se è rimasto qualcosa nei distributori?”
Janet si fermò e si voltò per guardarlo con l’occhiata più strana possibile, come se cercasse di leggere un qualche significato segreto delle sue parole. “Ah, grazie Wayne” disse infine, “ma veramente io non ho tutta questa fame al momento. Forse un’altra volta.”
“E’ quel che dici sempre”. Le parole gli scivolarono fuori prima di poterle fermare.
Janet sospirò. “Lo so. Scusami. Apprezzo l’invito, davvero, ma…”
Si guardò i piedi evitando il contatto col suo sguardo. “Davvero, non penso di essere una compagnia adatta per nessuno, in questi giorni. Ho un sacco di cose personali da risolvere e non sarebbe giusto fartele pesare.”
Wayne rimase in piedi, incerto su come rispondere. Più di ogni altra cosa avrebbe volute dire: “Ti prego, vorrei che tu mi piangessi sulla spalla, vorrei che tu mi confidassi i tuoi problemi” —ma non sapeva come avrebbe reagito la donna a quell’invasione della privacy. E dicendole che i suoi problemi non lo disturbavano sarebbe parso che non li reputava tanto seri da preoccuparsene; e lei lo avrebbe ritenuto un cinico.
Era ancora impietrito per l’indecisione quando Bill DeLong arrivò lentamente nella stanza. Il coordinatore dei programmi era un uomo alto e dinoccolato, sulla cinquantina. I segni dell’età che portava sui capelli grigi a spazzola contrastavano con la scintilla di giovinezza che portava negli occhi. Vestiva casual, maglione e calzoni; era amichevole e alla mano, ma ciò non nascondeva la mente acuta che celava in sé.
“Coordinatore dei Programmi” era un titolo generico che copriva una moltitudine di peccati. DeLong era capo sceneggiatore, capo censore, responsabile della programmazione e consulente dello Studio a tutto tondo. Mentre Schulberg gestiva la parte finanziaria dell’attività, DeLong era il gerente della parte creativa. DeLong non era un Sognatore, ma era amico di tutti i Sognatori dello staff. Nel caso fosse richiesto, fungeva anche da padre confessore per chiunque avesse bisogno di un orecchio amichevole. Se Schulberg era il capo della Dramatic Dreams, DeLong era la sua anima.
“Janet, sono contento di averti trovata” la chiamò DeLong. Il suo accento aveva tracce riconducibili al Texas e all’Oklahoma. “Ho pronta per te la tua prossima sceneggiatura.” Le tese un blocco di carta fermato da una molla.
Sollevata per averla passata liscia, lei tornò rapidamente al suo solito carattere chiacchiericcio. “Non ci posso credere. Una volta tanto una sceneggiatura in anticipo? So che non è un regalo di compleanno perché il mio compleanno è stato tre mesi fa…. Cos’ho fatto per meritarmelo?”
“Accidenti, mica lo so. Oggi pomeriggio è arrivata Helen e ha detto che aveva avuto un’ispirazione che l’aveva fatta sbrigare. E’ pure buona. Qualcuno dovrebbe ispirare quella donna più spesso: quando ci si mette d’impegno è una buona scrittrice.”
“Bene. La guardo subito. Grazie.” Janet sorrise a DeLong poi si voltò e lasciò la stanza allontanandosi dal disagio che era rimasto nell’aria tra lei e Wayne.
“Jack ha promesso che la tua sarà pronta per domani pomeriggio” disse DeLong, voltandosi verso Wayne. “E’ un Western se ricordo bene.”
“Oh no, un altro” gorgogliò Wayne.
“Beh, non è che possiamo fare sempre l’Amleto. Perlomeno i Western sono veloci e apolitici.”
“Lo so. E’ che mi sembra di segnare il passo. Mi piacerebbe avere la possibilità di allungarmi un po’, di mostrare ciò che posso fare, invece di sprecare tempo ed energie su roba da scribacchini.”
“Ascolta me che ne so qualcosa,” disse con cortesia DeLong. “In qualsiasi professione creativa i migliori sono quelli che iniziano col lavoro sporco e poi fanno carriera. Shakespeare, Dumas, Dickens, Michelangelo e da Vinci erano tutti scribacchini. Prima di poter costruire cose più grandi hai bisogno di fondamenta solide. Ho visto un sacco di superstar accendersi dal nulla e abbagliare tutti per un po’; alla fine finiscono per spegnersi altrettanto rapidamente. Così forse sei lento, ma cavalchi un cavallo su cui scommettere.”
“Ma nel frattempo è tutto talmente frustrante” disse Wayne.
“Sì lo so. Senti, ma non stavi proponendo di andare a mangiare qualcosa mentre arrivavo? Non sono carino come Janet, ma mandar giù un boccone ci starebbe proprio bene, se ti va di aver compagnia.”
Wayne sogghignò. “Certo perché no? Andiamo.”
I due lasciarono lo Studio e uscirono dall’androne. L’edificio che ospitava la Dramatic Dreams non era ne’ nuovo ne’ particolarmente antico. I quadrati di linoleum bianco e marrone del pavimento avevano perduto splendore ma non erano ancora talmente malconci da dover essere cambiati. I muri bianchi e nudi erano graffiati e rigati ma erano danni a cui ci si abituava presto e poi non si notavano più. I pannelli di plastica chiara sul soffitto mostravano delle crepe e i tubi fluorescenti che arrivavano all’ascensore per due terzi della lunghezza lampeggiavano un pochino. Ormai, dopo un mese, erano dettagli che arrivavano a malapena alla mente di Wayne. Era semplicemente un luogo di lavoro; anche meglio di altri dove era stato.
Ciò che veramente lo toccava era il silenzio. La maggior parte delle società ospitate nell’edificio seguiva orari normali e ormai tutti gli impiegati erano tornati a casa. La Dramatic Dreams, al sesto piano, era l’eccezione. Non c’era modo di registrare i Sogni per poi trasmetterli in un secondo momento; dovevano essere realizzati dal vivo. E ad eccezione degli sceneggiatori, che potevano lavorare quando desideravano, chi si guadagnava da vivere con Onirica si trovava incastrato in un ritmo di vita sottosopra. I Sognatori che non riuscivano ad abituarsi a un ritmo di lavoro notturno e ai palazzi vuoti dovevano trovarsi immediatamente un altro impiego.
Eppure Wayne odiava quel silenzio opprimente. Era una cortina tra lui e il resto dell’umanità. Forniva Sogni per far trascorrere ore e ore di sonno a moltitudini di persone in città, eppure man mano che il tempo passava aveva sempre meno contatti con loro.
I passi dei due uomini echeggiarono lungo il corridoio e DeLong gli disse: “Posso darti un consiglio non richiesto?”
“Mmm? Su cosa?”
“Su Janet. Sta uscendo da un brutto periodo. Non starle addosso. Siete entrambi giovani, hai un sacco di tempo per far crescere la cosa.” Arrivarono all’ascensore e DeLong spinse il pulsante di chiamata per scendere.
Wayne arrossì. “Non mi ero reso conto di essere così trasparente.”
La cabina arrivò in fretta e i due entrarono. “Forse non se ne accorgerebbe un cieco” disse DeLong “ma io devo prendere nota di tutto ciò che succede qui. Non posso lasciare uno dei miei Sognatori – tra parentesi uno dei più promettenti – a vagare con la testa irrimediabilmente tra le nuvole per una collega. Fa male al morale e ti distoglie la mente dal lavoro. Per non parlare del fatto che se ti dà alla testa io finisco per perdere l’uno o l’altro, il che è una cosa che non voglio. Siete entrambi troppo bravi.”
“Io non lo chiamerei restare con la testa fra le nuvole” obiettò Wayne.
“Beh chiamalo come vuoi, l’effetto è lo stesso. Quando mio figlio aveva 15 anni e cercava di strappare il suo primo appuntamento aveva più savoir-faire di te. Non sei un ragazzino adolescente che deve collezionare punti. Qual è il problema?”
Wayne scosse le spalle. “Non so. E’ una Sognatrice più brava di me; forse temo che lei pensi di essere sopra la mia portata. O forse ho paura che mi guardi dall’alto in basso per quel che ho fatto prima di venire qui.”
DeLong gli dette una tirata d’orecchie. “Figlio mio, Janet è una professionista. Lei sa cosa bisogna fare per sopravvivere, agli inizi. Non penso proprio che ce l’abbia con te per quella roba porno.”
“Sicuramente è un qualcosa che me la tiene a distanza.”
“Sì,” ammise DeLong, “ma non ha nulla a che fare con te.”