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Sta Scherzando, Commissario?
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Sta Scherzando, Commissario?

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Su questo ci fu qualche contributo da parte nostra: forse gli interessi dell'industria pornografica? E non era forse vero che già all'epoca nessuno di noi aveva veramente creduto alla versione ufficiale dei fatti?

Il Papotti si buttò anima e corpo sull'argomento, e si assentò dalla redazione per almeno due settimane. Non è poi una cosa così inconsueta da noi. L'importante è che almeno una volta a settimana il direttore del giornale venga tenuto aggiornato su ogni sviluppo.

Dopo di che inviò una videocassetta ai genitori della Mozzi, con cui si presentava e in cui chiedeva di essere ricevuto e di poter fare loro un'intervista, asserendo inoltre di essere in possesso di importante e inedita documentazione sulla morte della loro figlia. Una copia del nastro c'è sicuramente da qualche parte anche qui al giornale, se può servire.

Non ci sperava proprio, e invece la sua richiesta fu subito accettata. Si recò a casa loro, se non sbaglio nelle campagne piemontesi. Era armato non solo di penna e blocco notes, ma anche di un telefonino truccato che fungeva da registratore e micro-telecamera. È uno degli ultimi ritrovati della tecnica, molto in voga tra i giornalisti rampanti; lo usano in molti, grazie anche a questa moda degli ultimi tempi di portarsi il cellulare attorno al collo appeso a un collare di stoffa.

Da qualche parte abbiamo anche questo filmato, ma preferirei che non uscisse fuori: meglio non divulgare certi strumenti di indagine. Però il Papotti ha tirato giù un rendiconto di quell'incontro. Deve essere ancora qui sulla sua scrivania: un attimo solo… Eccolo. Ci dia un'occhiata lei stesso, commissario.

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La casa dei Mozzi è sobria, accogliente ed ospitale, circondata da un modesto giardino. Dopo che ebbi suonato al cancello, si affacciò una signora un po' anziana.

"Cosa desidera?", mi chiese.

"Sono il signor Papotti. Cerco …"

"Ah, sì. Il signor Papotti. Venga, entri pure, la stavamo aspettando."

Oltre a lei, nel salone all'americana mi attendevano, seduti uno sul divano e l'altro su una poltrona, due persone che se fossero state statue sarebbe stato circa lo stesso. Uno era un signore anziano, vestito elegante ma all'apparenza sciatto, sguardo perso nel vuoto forse per qualche malanno di troppo. Accennò un leggero sorriso e un segno di partecipazione solo quando la signora ci presentò: "Lui è mio marito."

L'altro era un tipo un po' losco: vestito scuro, occhiali da sole e, guarda guarda, al collo portava un cellulare quasi come il mio.

"Gradisce un po' di tè?", mi chiese la signora.

"Sì, grazie." Poi, siccome l'altro individuo non mi veniva presentato, domandai io: "E quest'altro simpatico signore, è possibile sapere chi sia?"

"E' il nostro maggiordomo tuttofare", rispose la signora sorridendo. E aggiunse:

"Beh, in fondo lei è un giornalista, qualcosa dovrà pur scoprirla da solo: o vuole che le diciamo proprio tutto noi?"

Sì, in effetti speravo che mi dicessero tutto loro. Ma di sicuro quell'uomo non era un maggiordomo, visto che la signora si occupò personalmente di servire il tè.

"Mi dica, signor…"

"Papotti", l'aiutai io.

"Giusto. Mi dica, lei per caso ha figli?"

"No. Non sono neanche sposato."

"Peccato. Peccato, perché i figli portano grandi soddisfazioni. E anche perché… le sarà più difficile comprendere la nostra situazione. Intendo dire: immaginare anche lontanamente come può sentirsi una coppia che ha perso un figlio. Vede, noi abbiamo volentieri acconsentito a riceverla non tanto perché avessimo qualcosa in particolare da dirle. La nostra verità è semplice. Brutta e triste, ma è la verità: la stessa che è stata scritta su tutti i giornali, sbandierata al mondo intero. Che poi non è stato bello neanche questo: che tutti parlassero di questo dolore, che se ne appropriassero, o meglio facessero finta di appropriarsene; di questo dolore che in realtà doveva essere solo nostro, e di quei pochi che veramente le hanno voluto bene."

Fece una pausa, mentre gustava un altro sorso di tè.

"Deve cercare di capire che non solo nostra figlia è morta, ma è morta più di una volta."

Ecco, pensai, ancora un po' e mi dice tutto.

"La prima volta, che ancora non era maggiorenne, è come se ci fosse stata uccisa. Ingoiata da quel mondo perverso dove non conta che hai un'anima: sei solo un corpo. Fatta prostituire neanche con un uomo alla volta, ma con centinaia e migliaia insieme. Intrappolata nel suo personaggio da carta stampata e da filmacci per soli uomini. Tolta per sempre dalla sua famiglia, dal nostro affetto, dalla bellezza di una vita sana e normale. E convinta a credere che fosse una vita ben vissuta, quasi una missione.

E' stato allora che per noi è morta."

Non riuscì a continuare. Poggiò la sua tazza e chiuse gli occhi, come per raccogliere da dentro di sé le forze per proseguire, o forse per cercare di rivedere il volto sorridente di sua figlia ragazza.

"Ma poi è morta di nuovo, in quella clinica. Perché, - e questo non potrà capirlo se non ha figli - una figlia resta sempre una figlia anche se non ti può vedere, o non la puoi vedere; se non riesci a comunicare con lei; se è scappata di casa, o se ti ha riempito la vita solo di dispiaceri. E' sempre una figlia, e quando muore ti manca da morire, e ti accorgi che era comunque meglio averla viva, con tutti i difetti che poteva avere o i problemi che poteva darti. Un figlio è un pezzo di cuore, come dicono a Napoli."

Fece una nuova pausa, sospirando e chiudendo nuovamente gli occhi per un attimo.

"E poi hanno tentato di ucciderla ancora. Siete stati voi giornalisti, con insinuazioni, sospetti, supposizioni, congiure immaginate chissà con che scopo. La prego, cercate di non ucciderla ancora."

"Si riferisce anche al contenuto della cassetta che le ho mandato?" le chiesi. "L'ha vista fino alla fine?"

"No, no. Ormai non serve più, non ha più senso. Anzi, forse sono io a poterla aiutare."

In realtà non aspettavo altro. Lei si alzò, si diresse ad una scrivania da cui prese una corposa cartellina per documenti, e me la diede. Era piena di fogli di giornale e riviste, qualche libro, foto e articoli ritagliati.

"Tenga. Questo è quanto sono riusciti a scrivere alcuni suoi colleghi prima di lei. Ci sono persino un paio di libri. E' stato detto di tutto. E sarebbe anche bello, se fosse vero. Una fuga d'amore; uno scambio di cadaveri; i servizi segreti francesi o quelli italiani, o forse tutti e due, in cooperazione; un alto generale francese, o addirittura un ministro; una gravidanza troppo imbarazzante; una nuova vita in Papuasia, o forse come missionaria in Africa. Faccia un po' lei, si sbizzarrisca."

"Cerchi di capirmi, signora: io sono un giornalista."

"Certo, certo: lo so. Deve fare il suo lavoro. E' assurdo, oltre che inutile, chiederle di non farlo. Però se le è possibile, una volta fatte le sue ricerche e formulate le sue congetture, aspetti per pubblicarle che io e mio marito saremo morti. Tanto ormai non c'è più nessuna fretta, decennio in più o in meno. Non contribuisca a questo stillicidio continuo, a questo strazio con cui cercano di uccidercela di nuovo. Lei sarà ancora giovane, e non sarà certo questo a farle fare carriera."

Non sapevo cosa dirle. Non trovai di meglio che rassicurarla dicendole:

"Cercherò di non mettere in cattiva luce nessuno della sua famiglia."

Mi alzai, come per togliere il disturbo, ma mi trattenni. Ero venuto fin lì e non avevo concluso niente.

"C'è qualcos'altro che posso fare per lei?", mi chiese cortese la signora.

"Avete qualche ricordo di Luana, in questa casa?"

"Qualcosa nell'altra camera, e forse basta. Dia pure un'occhiata liberamente, come se fosse a casa sua."

In un angolo di quella che doveva essere la camera degli ospiti, sistemati con cura attorno ad un mazzo di fiori, trovai qualche bambolina, qualche libro e qualche fotografia. Ricordi di una ragazza sana e felice, ancora pura e in sintonia con la sua famiglia. Niente altro.

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"E secondo lei", chiese il commissario, "tra le varie piste, tra tutte le ipotesi sulla scomparsa della Mozzi, ce n'era qualcuna a cui il Papotti dava maggior credito? Non so, può essere che ne abbiate parlato…."

"Lui era convinto che dietro ci fossero i servizi segreti. Non che la cosa lo spaventasse, anzi: ciò rendeva il suo lavoro ancora più interessante, una sfida ancor più difficile e quindi più appassionante. D'altronde io ero contento per lui: finalmente un caso rilevante, di portata internazionale."

"E' tutto?", chiese il commissario Sgamon al direttore del giornale.

"Direi di sì. Dopo la sua visita a casa Mozzi, ormai oltre un mese fa, il Papotti è sparito di nuovo. Per un po' ho ricevuti i suoi aggiornamenti dalla Francia; ma poi più niente. Ah, dimenticavo: l'ultima cosa che mi ha mandato è questa foto, con il cellulare. Una donna sulla spiaggia. Forse una certa somiglianza con la Mozzi. Però non saprei… Ma ora sono oltre due settimane che non si fa sentire, e questo proprio non è da lui. Sono certo che gli è successo qualcosa."

"E il suo telefonino risponde libero? Forse potremmo cominciare a rintracciare quello."

"Nessun segno di vita. Le lascio il numero, commissario, insieme a qualche sua fotografia. E qualunque altra cosa possa servire a rintracciarlo, la prego di fare pure il massimo affidamento sulla collaborazione di tutti noi del giornale."

IL CASTELLO DELL'AMORE

In quel castello non c'ero mai stato prima: ci sono andato solo per l'insistenza di Angela. Sapete come vanno queste faccende: quando una donna si mette in mente qualcosa è ben difficile farle cambiare idea, soprattutto se è innamorata.

Aveva cominciato a parlarmene con tantissimo anticipo, mi pare già la notte di capodanno. "Per San Valentino mi devi portare al castello Brini-Maniscalchi. Faranno una festa mascherata. Sarà bellissimo. E' un posto davvero molto romantico."

Nulla da dire sulle serate romantiche, anzi. Stare con Angela mi piace sempre - figuriamoci quando l'atmosfera fa la sua parte per mettere in risalto il nostro amore. Ma per le feste in maschera non sono mai stato entusiasta. Proprio non mi va giù dovermi organizzare il travestimento e magari stare scomodo tutta la sera, solo per fare qualcosa di diverso e perché lo fanno tutti gli altri.

"Sempre che tu mi voglia ancora bene, naturalmente", aggiunse lei vedendo la mia faccia scettica. "Guarda che ci tengo così tanto che per andarci sono disposta a trovarmi un altro cavaliere." Ovviamente scherzava, ma afferrai subito il messaggio.

Quel fatidico giorno Angela mi convinse che la cosa migliore era partire appena dopo pranzo, per prendercela con tutta calma. E non solo perché il castello distava da noi oltre un'ora di macchina.

"Papà e mamma mi hanno raccomandato di tornare a casa entro le dieci. Magari facciamo anche le undici, così riusciamo a vedere i fuochi d'artificio: ma non più tardi. Sai come sono i miei genitori."

Ebbene si, lo sapevo. Emisi un grugnito, che rappresentava molto bene il mio pensiero senza obbligarmi a esprimere idee o opinioni che avrebbero potuto innescare tra noi una discussione, sgradevole e soprattutto inopportuna quel giorno.

"E poi", proseguì, "vorrei fare un bel giretto per il paese. E' così bello. Con quelle viuzze medioevali in salita, con quel non so che… e tutti quei negozietti di artigianato!"

Così, anziché al parcheggio vicino al castello, decidemmo di lasciare la macchina in basso, all'inizio del paese, e da lì iniziare la nostra passeggiata. Il tempo era bello. Il castello dominava dalla cima della collina con grazia ed eleganza rinascimentale; ma era una presenza discreta, non autoritaria, perché il benevolo corso della storia non l'aveva mai costretto ad armarsi di torri o bastioni fortificati. Le stradine e le scalinate, belle ma scomode nella loro pavimentazione arcaica, si trasformavano spesso in vicoli senza dartene a vedere.

Talvolta, mentre seguivo Angela da un negozietto all’altro, finivamo in un cortile o in un sottoscala, senza che fosse ben chiaro il confine tra la proprietà pubblica e quella privata.

“Sembra che tu conosca proprio bene questo paesino, a giudicare da come ti ci muovi”, osservai mentre per una bassa porticina in fondo a gradini stretti e ripidi scendevamo in una botteguccia - di cui dalla strada era visibile solo l'insegna in legno - ricavata in una specie di grotta.

“Certamente. E ne dovresti anche sapere il perché.”

Girando e rigirandomi nella testa il nome del castello Brini-Maniscalchi, la questione mi tornò in mente.

“Ora ricordo. Il tuo ex abitava da queste parti."

Mi fece un cenno di conferma col capo.

"Era un conte, o un duca, e ti portava a spasso per il paese e nel suo castello, se non sbaglio."

"Sbagli. Nel castello ci sono stata, ma Franco non era il conte: era solo un suo amico. Altrimenti forse starei ancora con lui."

"Non è che hai organizzato tutto solo per rivederlo?"

"Ma sei geloso, per caso? Guarda che non hai proprio nessun motivo di esserlo. Di lui, poi, meno che mai. Perché io la mia scelta tra voi due l'ho già fatta da tempo, e non me ne sono pentita. Comunque", aggiunse Angela che ha sempre avuto la straordinaria capacità di scrutare i miei pensieri, "puoi stare certo che non ci rovinerà la festa. Bisogna entrare in coppia; e quindi, se ci fosse, sarebbe anche lui in dolce compagnia. Ma pedante e pignolo com'è, dubito che abbia trovato un'altra disposta a sopportarlo. E poi", concluse, "visto che è una festa mascherata c'è sempre la possibilità di non riconoscerci."

Angela riprese tranquillamente la contemplazione dei gingilli e soprammobili, in legno ed in ceramica, esposti per la vendita. E anch'io mi tranquillizzai.

Benché non avesse rinunciato a chiedere informazioni su prezzi e come è fatto questo e a cosa serve quell'altro, mi sorpresi a notare che quel giorno, fatto quasi miracoloso, non aveva ancora acquistato nulla; né, come mi disse più tardi, aveva intenzione di farlo.

Nel negozio, oltre a noi, in quel momento era presente solo una vecchiettina, seduta in silenzio su una seggiola in un angolo e con lo sguardo perso nel vuoto. Di sicuro non poteva essere lei la padrona, pensai. Sarà stata la mamma, o un'amica. Una presenza solo di compagnia, non certo per sorvegliare la merce: un malintenzionato avrebbe potuto svuotarle il locale sotto il naso senza che se ne accorgesse.

"Scusi, sa dirmi quanto viene questo?", le chiese Angela evidentemente immersa in altri pensieri.

La vecchia girò appena la testa verso di lei. "Mi dispiace, non lo so. E poi io non ci vedo più bene… sa, alla mia età! Dovrebbe chiederlo a mia figlia quando torna." E continuò: "E' davvero una bella giornata oggi. Godetevela. Sembra già primavera. In tanti anni non mi ricordo proprio un altro inverno così mite. Ma probabilmente siete qui per la festa… Ne ho sentito parlare molto, sapete. Da giorni in paese non si parla d'altro. E voi mi sembrate proprio due fidanzatini.”

Sembrava che quella donna fosse rimasta lì, immobile da chissà quanto, in attesa che qualcuno rompesse un malvagio incantesimo rivolgendole la parola; e ora, avendo riacquistato la favella dopo anni di attesa, si sentisse in dovere di riversare con gratitudine, su chi gliela aveva restituita, tutti i pensieri inespressi per tanto tempo per via di quel sortilegio. Però devo dire che dava l'impressione di essere simpatica, e anche buona.

“Dovete essere davvero innamorati, voi due. Io queste cose riesco a vederle, sapete. Anzi, a sentirle: perché ormai della vista mi è rimasto ben poco. Ma ho come un sesto senso. Certe cose le capisco al volo: le percepisco nell'aria. Vedo che siete una coppia felice, e che lo resterete ancora per tutta la vita. Si, tutta la vita insieme, come vi siete promessi l'un l'altro anche prima di sposarvi, quella sera d'estate sulla spiaggia, chiamando la luna piena e tutte le stelle a vostri testimoni.”

Rimanemmo entrambi sorpresi nell’ascoltare queste parole. Angela sembrava contenta e quasi commossa, come se di nuovo, in presenza di quella specie di maga, stessimo rinnovando la nostra promessa d’amore. Io invece, non lo nego, provavo un certo fastidio, come se fossimo stati spiati da una persona estranea nei momenti più importanti ed intimi della nostra vita.

Mentre la vecchia continuava a parlare di argomenti più generici, ripensavo a quella serata sulla spiaggia; alla nostra emozione di allora, che adesso si rinnovava negli occhi di Angela; e alla inspiegabile astinenza di lei, in quel giorno di San Valentino, dal comprare un qualunque oggetto ricordo, per quanti ne continuasse a guardare e ad esaminare con attenzione.

“ … Quelle sono spille portafortuna. Sono quelle con l’immagine del castello e della madonna, non è vero?" La vecchia parlando continuava a fissare nel vuoto; ma erano proprio quelle le spillette che stavamo esaminando.

"Dicono che tengano lontane le sventure. Ma questa è superstizione, date retta a me: è l’amore che protegge da ogni male.”

Le parole della vecchia, aumentando in me il dubbio - se non la convinzione - che avesse dei poteri misteriosi, mi infastidivano e mi turbavano, infondendomi un pressante desiderio di uscire al più presto da quel negozio; ma mi diedero anche una specie di illuminazione sui pensieri di Angela. Quel giorno, a differenza del solito, voleva che fossi io a comprarle qualcosa. Anche una stupidaggine. Magari proprio quella spilletta portafortuna, a ricordo di un bel San Valentino trascorso insieme e al contempo di quella promessa scambiata sulla spiaggia; e magari, così per scaramanzia, perché proteggesse il nostro amore per tutta la vita, come ci piaceva pensare e sperare, tenendo lontana da noi ogni sventura.

"Sono molto belle", dissi. "Ne prendiamo due." Porsi alla vecchia il denaro dovuto ed ella, sempre con lo sguardo nel vuoto, mi ringraziò sorridendo. La lasciammo seduta al suo posto, tornata immobile e silenziosa come una statua di sale ripiombata nel suo incantesimo.

Usciti in strada indossammo subito le spillette, una per ciascuno. Di certo appuntarle ai nostri vestiti ebbe degli effetti immediati e sorprendenti: il nostro bisogno l’uno dell'altra divenne talmente forte che proseguimmo avvinghiati stretti stretti e, in questo amoroso abbraccio, dimenticandoci del mondo intero. Non sentimmo più la fatica della salita, e in breve arrivammo alla nostra meta.

"Guarda, hanno messo l'acqua nel fossato! Non l'avevo mai visto così", mi disse Angela. Io non l'avevo proprio mai visto, né con né senza acqua; ma giudicai che sarebbe stato più appropriato popolarlo di coccodrilli, magari finti, anziché di paperelle e cigni.

Angela, con quella sua nuova vitalità inesauribile, mi trascinò verso l'entrata. Ormai intorno a noi si vedeva solo gente in maschera.

"L'affitto del costume è incluso nel biglietto", mi spiegò. "Neanche troppo caro, visto che comprende anche la cena e, ovviamente, la visita di buona parte del castello." Pagammo l'ingresso ad un gendarme col pennacchio, ma poi fummo costretti a separarci per la scelta del costume.

"Speriamo di riconoscerci, una volta mascherati", mi disse lei.

"Io porterò ben in vista la nostra spilletta", le risposi prima di lasciarla per seguire una guardia svizzera disarmata che mi accompagnò, insieme ad altri, nella sala vestizione dei cavalieri.

Non c'era molta varietà di scelta nel travestimento: in buono stato erano rimasti solo costumi da Zorro, a decine, e i pochi altri erano chiaramente in condizioni molto peggiori, o di taglie particolari, o troppo scomodi o stravaganti. Volentieri e senza esitazione scelsi Zorro, ottenendolo in cambio di un mio documento di identità. Mi cambiai, richiusi a chiave i miei abiti civili in uno degli appositi armadietti, mi appuntai la spilla sul petto e uscii nella sala delle feste.

Dov'era Angela? O forse era più corretto chiedersi: quale era?

C'erano svariate persone, alcune in coppia e altre in gruppi più numerosi, tutte mascherate; ciononostante l'enorme sala dava quasi l'impressione di essere vuota. Forse perché era priva di mobilio, se non per qualche tavolo apparecchiato a buffet e qualche sedia, chiaramente non in stile. Una buona parte del pavimento e delle pareti, spoglie dei quadri, era stata ricoperta da una specie di panno protettivo, sicché la bellezza originaria di quella sala maestosa rimaneva nella sua architettura, nel soffitto decorato e nelle ampie finestre con vista panoramica.

Mi tolsi subito la mascherina dagli occhi, per vedere e farmi vedere meglio. La sala andava riempiendosi ad un buon ritmo, alimentata dai due spogliatoi. Mi diressi verso quello delle dame, scrutando con attenzione ogni volto femminile spaiato che incontravo, nella speranza di riconoscerci Angela, di cui cominciavo già a sentire la mancanza.

Come davanti alla toilette delle donne all'aeroporto, un piccolo gruppo di uomini, tutti con la stessa ansia ma simulando indifferenza e ignorandosi reciprocamente, aspettava davanti a quella porta. Attesi anch'io nervosamente per dieci interminabili minuti, prima di ritornare in me ricordandomi dei normali tempi di preparazione di Angela. Allora, rassegnato, decisi di ingannare l'attesa con qualcosa da mangiare.

Ascoltavo con interesse la musica pseudomedioevale di sottofondo, ed osservavo la gente che continuava ad affluire, constatando che la nostra spilletta era stata adottata come portafortuna anche da altri, soprattutto Zorri. Nel frattempo proseguivano i preparativi per l'organizzazione della festa, che ufficialmente avrebbe preso avvio al tramonto: alcuni inservienti in costume accendevano le lampade ad olio, mentre altri preparavano la pedana e gli strumenti per un'orchestrina che più tardi avrebbe accompagnato balli lenti con musiche romantiche.

"Ero sicura di trovarti qui." La mia Angela mi sorprese alle spalle in veste di cappuccetto rosso. Non aveva avuto bisogno di trucco o ritocchi per sfoggiare un sorriso da bambina. "Vieni, facciamo un giro per il castello", disse requisendomi una pizzetta e prendendomi per mano.

Ci dirigemmo d'istinto verso il sole che, già basso sull'orizzonte, appariva di colore e dimensioni tali da sembrare anch'egli mascherato. Uscimmo perciò da una porta finestra su una terrazza panoramica; ma rientrammo quasi subito, per via delle fastidiose folate d'aria e soprattutto di un gruppo di ragazzi e ragazze che col loro comportamento - fatto di voci sguaiate, spintoni, battute e gesti volgari fino all'oscenità - toglievano ogni poesia a quello spettacolo.

"Vieni", mi disse, "ti porto io in un angolino romantico … se mi ricordo come arrivarci."

La seguii. Su per una specie di ampia scala a chiocciola che doveva portare al piano di sopra, Angela provò invano ad aprire una bassa porticina verde dall'aspetto robusto.